martedì 10 ottobre 2017

Gianluca Chierici vince il Faraexcelsior 2017: complmentissimi!

giurati della sez. Narrativa (v. anche sez. Poesia
della VII edizione del concorso Faraexcelsior 


hanno decretato vincitore con

La storia di Layla e Yurkemi 

Gianluca Chierici (Pavia)





Gianluca Chierici è nato nel 1977 a Milano. Vive vicino Pavia. È autore dei film brevi L’ultimo compleanno di Venere (pubblicato in Sguardi inquietiBarbieri 2003), Hystera (premio della giuria al Mystfest di Cattolica, Manyhands 2008), OR (biennale dei giovani artisti del mediterraneo BJEM, La piccola fortuna 2009), PickUp (ManyHands 2010) e Fiaba di Daina (Manyhands, Marcos y Marcos 2012), Holy Mary (CS Edizioni 2013). Ha scritto e diretto la trilogia di lungometraggi indipendenti La crudeltà dell’angelo (Ex-Nihilo 2004), Dannati (Ex-Nihilo 2005), La chiave dei grandi misteri (La piccola fortuna 2006).Ha pubblicato: Il libro del mattino (Acquaviva, 2005); L’eterno ritorno (Sentieri Meridiani 2007, Premio Castelpagano), La madre delle bambole (Tracce 2008, Premio Fondazione Caripe), Il nome del confine (Joker 2009), La stirpe del mare (L’arcolaio 2010); Hanno amore (Perdisa Pop 2010); Il grido sepolto (Ladolfi 2017).


Mi chiamo Layla e vivo di ricordi. La prima volta che ho incontrato Yurkemi c’era molta neve nel paese. Sembrava una cartolina di Natale. Le case basse, i monti ripidi, la scogliera sul mare. Tutto bianco. Bianco. Bianco come è bianca la luce. Quell’inverno ho capito che il sangue inghiotte tutto. Lo fa voracemente. Prende briciole di vita dalla memoria e le ingoia. Le ingoia come se fossero pillole. Così, i ricordi sembrano tesori nascosti. E non importa che siano veri. Che le figure ritrovino nel tempo l’amore. L’amore come mistero, quello Sì. Solo quello è degno di restare. D’imprimere nella memoria una storia. Nella mia mente il ghiaccio della memoria si fonde. Si fonde nel nero della notte.
Vivevo in un paese di mare. I pescatori mi svegliavano ogni mattina con le loro grida. Si chiamavano dai piccoli porti per sapere l’esito della pesca. Erano tutti vecchi ormai. Nessun giovane voleva uscire a pescare. Le loro barche erano consumate come i loro volti. Mio padre invece era un insegnante e fumava la pipa. Leggeva i poeti francesi. Era un uomo grosso e buono. Con gli occhi chiari e le labbra carnose. Mia madre badava alla casa e suonava il pianoforte. Era sempre inquieta. Nei suoi occhi baluginavano idee e ripensamenti quando restava in silenzio. Non ho fratelli né sorelle.
La nostra casa era in cima alla scogliera. Una casa abbastanza grande su due piani. I miei genitori l’avevano comprata quando ero molto piccola. Avevano speso tutti i loro risparmi. Non ricordo niente della mia vita prima dell’arrivo in quella casa.
Dalla finestra della mia stanza vedevo il mare. Il vecchio faro spento. Con i gabbiani che s’inseguivano. Mi bastava sollevarmi sui gomiti per osservarne il profilo. Appoggiarmi con la schiena al muro, per vedere l’orizzonte tra le rocce della costa. Quando il cielo si faceva nero immaginavo il faro acceso. La sua presenza nel freddo mi rassicurava. Tenevo sotto il cuscino una pietra nera che avevo trovato in un boschetto, lì vicino. Era il mio portafortuna.
Sulle pareti della mia stanza c’erano due crepe. Una sopra la finestra. L’altra sul soffitto, vicino al filo della lampadina. Da quelle crepe entravano i pensieri del mondo. Ogni tanto la notte venivano da me come un brusio. Allora stringevo la mia pietra al petto e loro smettevano. C’erano anche un armadio, uno specchio e un comodino. Sul comodino tenevo un diario. Anche se non era proprio un diario. Era più un giardino dove coltivavo i miei sogni. Dove radunavo le rose, gli angeli, i baci dei morti. La mia stanza era come un rifugio. Quando entravo ero al sicuro. Quando entravo e chiudevo la porta. Perché le porte devono essere chiuse. Soprattutto la notte. Quando la memoria è profonda come il mare. E dall’abisso risalgono le voci alla rovescia.
La notte che Yurkemi è caduto, il cielo era rosso come la carne di una ferita. C’era un forte vento. Poi ha grandinato. I chicchi sembravano proiettili. I rami spogli della quercia graffiavano il tetto della casa. Si sentiva che volevano fuggire- come un gatto graffia il muro quando scappa verso l’alto. (…)

«Mi chiamo Layla e vivo di ricordi. Con queste poche parole l’autore ci presenta il personaggio e ci offre la sua chiave di lettura. Un incipit che ha in sé l’eco di una storia lontana nel tempo e che lascia il lettore sospeso, in un limbo tra mito e realtà. Scritto in prima persona, è attraverso il linguaggio semplice ma incisivo che racconta la favola di queste due creature misteriose. Angeli o diavoli? Del loro amore, della loro dipendenza da un sentimento indistruttibile a dispetto della provenienza. Fino all’epilogo, che non spiega ma apre una porta al varco delle interpretazioni. Un padre, pronto a perdere la figlia tanto desiderata fino a regalarle la chiave per essere finalmente libera. Non c’è soluzione al dolore, alla perdita e all’abbandono. Nel vuoto le giornate si ripetono uguali, la bestia se ne sta sul fondo. Attende che passi il tempo. Giace (…) così, senza lottare.» (Angela Colapinto)


«La sua lingua era fatta di luce. La luce che eravamo. La vibrazione che siamo. Una storia a cavallo tra un fantasy e un manga giapponese, dove la lunga ricerca è frutto di dolore e sofferenza in un posto in cui l'incantesimo dell'amore lascia un inverno senza fine.» (Francesco Di Sibio)

«Una bambina, Layla, in un improvviso risveglio notturno, esce dalla sua casa in cima a una scogliera. Nell’oscurità tempestata dal vento e dalla grandine, soccorre Yurkemi, un bambino sgusciato fuori dal cielo insieme a un lampo e caduto sotto un albero in fiamme, sulla terra innevata cosparsa di cenere. Questo l’incipit d’un racconto vivido e visionario, misterioso ed elegante, narrato col ritmo pulsante di frasi brevissime. Una storia da leggere a bassa voce, da sussurrare tra le ombre allarmanti d’un crepuscolo scaturito dai sinuosi labirinti di Henry James.» (Subhaga Gaetano Failla)

«Il lettore si trova immerso in un “caleidoscopio” dell’anima e del suo misterioso anelito di “ricongiungimento”. Una varietà di quadri in cui il “non detto” lascia il lettore libero di proiettare le proprie emozioni sullo scritto.» (Claudio Fraticelli)

«Un racconto che ti fa venire voglia di scoprire come va a finire. Sempre sulla soglia, in attesa di un principio, quello dei due protagonisti Layla e Yurkemi che anelano ad un loro ricongiungimento … per quanto tempo avrei sopportato lo strazio del principio? Quanto tempo dura ogni volta l'inizio? Il ritmo incalzante della narrazione incarna il sentire della protagonista sempre in tensione tra due mondi, quello della vita e quello della morte, della realtà e della visione. Un linguaggio simbolico e una storia costellata di piccoli misteri da scoprire.» (Alessandra Gabriela Baldoni)




II classificato

Enrosadira di Filippo Amadei (Forlì)



Filippo Amadei (foto Daniele Ferroni) è nato a Ravenna, ma da sempre vive a Forlì. Nel 2004 ha vinto la Sezione Giovani del Premio Aldo Spallicci. Ha pubblicato i libri di poesia La Casa sul Mare (Il Ponte Vecchio, 2005), Saperti a Piedi Nudi (LietoColle, 2009) e Oltre le Ringhiere (Raffaelli Editore, 2014). È il vincitore della prima edizione del Premio Rimini per la Poesia Giovane. È tra i fondatori dell'Associazione Culturale Poliedrica.


Starsene lì, nascosto dietro l’angolo della chiesa, non era il massimo della vita. Claudio lo sapeva perfettamente. E sapeva anche che la situazione si era fatta troppo tesa e non più controllabile. Non poteva uscire allo scoperto davanti a quel gruppo di ragazzi. E poi perché doveva esserci proprio lei? L’unica cosa da fare era aspettare. Sì, ma aspettare che cosa?

I.
Fu Marco a lanciare la proposta di un tranquillo week-end in montagna.
“Ho la casa libera a Moena questo fine settimana” disse, chiamando Claudio al telefono di casa. Era un normalissimo martedì di fine gennaio.
“Devo rilassarmi un po’, uscire dal tunnel del lavoro. E poi non voglio vedere Serena”.
“Capisco. A volte succede” disse Claudio.
“Ho bisogno di ossigeno. Andiamo via per un paio di giorni. Noi due. Allora ci stai?”
Quella sera Claudio era arrivato a casa esausto. Aveva lanciato, come sempre, il mazzo di chiavi sul mobiletto di legno scuro, all’ingresso e come sempre era caduto per terra, oltre l’obiettivo. Da un po’ di tempo Claudio si ostinava a non raccoglierlo. Lo aveva ignorato, sorpassando la sala dalle persiane semi chiuse. Aveva infilato il corridoio in preda a un nugolo di pensieri esili e appuntiti. Ciondolante come un rabdomante, si era arenato sul letto di camera sua, vicino al bagno. Raccogliere le chiavi sul pavimento gli costava una fatica che giudicava eccessiva. Questo – pensava – è un chiaro sintomo di stanchezza. Da quando i suoi genitori si erano trasferiti in campagna, la casa in città aveva assunto un aspetto più trasandato. Il soggiorno mai in ordine, sempre pieno di libri di poesia e riviste, sparpagliati sul tavolo di cristallo. Anche la camera matrimoniale non era rimasta indenne. Il letto era stato trasformato in una piattaforma per i vestiti sgualciti o sporchi, in attesa di essere stirati o messi in lavatrice. Per non parlare poi del frigo, sempre vuoto o quasi. Claudio si era abituato a scommettere cosa ci avrebbe trovato dentro, tutte le volte che rincasava dall’ufficio dopo le otto di sera, senza avere fatto la spesa.
“Mangeremo fuori anche oggi oppure no?” Era la domanda che si faceva, parlando apposta al plurale per ravvivare l’atmosfera solitaria dell’appartamento, come se di là, nelle altre stanze, ci fosse stato un coinquilino pronto a rispondergli. Entrava nella cucina, senza accendere la luce. Apriva lentamente l’anta del frigorifero, con una sorta di crudele incuranza per lo stomaco in subbuglio. Un laser di luce fredda e artificiale fendeva il buio, simile a quei bagliori che si vedono nei film sugli extraterresti, quando si schiude il portello dell’astronave aliena davanti al protagonista. Se era fortunato si materializzava un avanzo della zuppa del giorno precedente. Il più delle volte gli sorridevano solamente una carota e mezzo sedano. In quelle occasioni la scelta ricadeva per la pizzeria sotto casa: “Da Armando, forno a legna.”
Così Claudio, con la cornetta nella mano sinistra e quella destra impegnata ad allentare il complesso nodo Windsor della cravatta di seta, non visualizzò un’immagine precisa, mentre Marco gli lanciava al telefono quel “ci stai?”. Non le piste, né la montagna innevata, alta nel cielo, come si vede nelle cartoline che ti spediscono i cugini o gli amici, che poi tu ti chiedi se davvero esistono posti come quello, oppure sono solo abili artifici di Photoshop. Niente di tutto ciò. Nella sua mente prese invece corpo l’immagine di un concetto puramente astratto: lui che al ritorno da quella mini-vacanza avrebbe lanciato le chiavi sul mobiletto, con un centro perfetto.
Questo complesso sistema di congetture logico-associative era come un’onda che montava nel cervello di Claudio. Nei tre secondi che passarono dalla proposta di Marco al suo “sì”, aveva già sommerso gran parte dei troppo miseri pensieri serali, cosicché, di essi, restava solamente qualche isolotto perduto: preparare la cena con gli avanzi del sugo al pomodoro di ieri, mandare un messaggio a Valeria, inviare al cliente quella e-mail urgente, scusandosi del ritardo di due settimane.
“Ci vediamo venerdì alle cinque e mezza al casello di Forlì” disse Marco.
“Ok!” rispose Claudio, alzandosi di scatto dal letto. Era stato colto da una strana ed improvvisa forma di energia. “Ti prometto che sarò puntuale, almeno questa volta”.
Conclusero che avrebbe preso la macchina Marco, più grande e spaziosa per le borse da viaggio, più comoda e più economica, perché diesel. Si salutarono entrambi soddisfatti. La sera passò velocemente. Energizzato dall’idea di quel fine settimana, Claudio si convinse che il pizzaiolo Armando stava diventando troppo ricco grazie a lui. Si ripromise di non uscire mai più dall’ufficio dopo le otto di sera. (…)

II.
Le montagne sprofondavano nel cielo nero.
Aveva conosciuto da poco, per le strane vicissitudini di un repentino cambio di ufficio, una ragazza di vent’anni. E le ventenni, si ripeteva da un po’ di tempo a questa parte, hanno davvero poco bisogno di filosofia. Mentre tu invece ne devi possedere una dose più che abbondante per goderti il momento. Ne era convintissimo. Goderti il loro corpo e l’affetto istintivo che ti danno, un flusso variabile senza la benché minima logica nel criterio di regolazione. A volte straripante e fastidioso, simile ad un rubinetto troppo aperto che ti spruzza l’acqua tutta addosso, a volte a gocce, seccante uguale. Ci vuole filosofia per goderti il sorriso dei loro occhi chiari come un giorno di festa. Godertelo a livello emozionale. Ma l’altra parte? Quella razionale? Le parole che veicolano il senso, che legano due persone e le fanno l’uno all’altra unite? No! Quelle, pensava Claudio, non possono essere prese con filosofia”. Le parole tra Claudio e Valeria erano fonte di malinteso, come quella sera in macchina che erano stati fermi più di due ore nel parcheggio del Mc Donald’s. Lei con un Sunday ricoperto di glassa al cioccolato e lui che la guardava e non osava dirle nulla. Aveva quasi paura che la mancata consonanza dei loro modi di parlare e di interpretare il mondo potesse rovinare quello spettacolo naturale, prima del tempo. (…)

«Moena, meta di un weekend invernale per una coppia di amici. Uno dei due incontra una ragazza e si scontra con lei, poi un cameriere suo ex. La vita dei giovani in montagna, zavorrati o liberi delle loro scelte? Così anche i due protagonisti riflettono sulla loro vita di ogni giorno.» (Francesco Di Sibio)


«Il racconto ci trasporta in uno spaccato di vita reale, ci si riconosce nei luoghi descritti e nei personaggi, familiari ma non banali. Ritrovo pezzi della mia vita, le vacanze invernali in trentino, quella storia che in fondo sai che non può durare ma alla quale vuoi credere e non sai perché, il bisogno di fuga da una piccola realtà che ci opprime e che sembra essere la causa della nostra insoddisfazione e irrequietezza. La narrazione è capace di farci sentire il silenzio dei rifugi innevati, la solitudine di una casa trascurata, il profumo di un buon teroldego e l'enrosadira sulle rocce del Rosengarten, senza cercare effetti linguistici e mantenendo quindi la misura di un lessico autentico.» (Alessandra Gabriela Baldoni)

«Due amici, Claudio e Marco, decidono di trascorrere insieme un weekend invernale nelle Dolomiti. Una storia semplice, narrata in modo lineare e senza particolare enfasi, e proprio per questo molto efficace, in periodi di consuete storie disintegrate o trasformate in merce. Enrosadira è un racconto pacato e coinvolgente, di sentimenti soffusi, che ricorda il cinema di Rohmer e i migliori esiti della narrativa statunitense del Novecento.» (Subhaga Gaetano Failla)




III classificati ex aequo

Due sparizioni di Tommaso Meozzi (Firenze)



Tommaso Meozzi, Dottore di ricerca in Letterature comparate, lavora come lettore d'italiano all'Università di Bonn. Con la raccolta di poesie La superficie del giorno (Le Cáriti, 2010), vince, nel 2013, il premio Contini Bonacossi-opera prima. Il suo racconto La badante è uscito sul n. 78 (aprile 2017) di Nuovi Argomenti. Nel 2017 riceve il premio della giuria nell'ambito del Premio Rimini per la poesia con la raccolta Inquieta alleanza, in corso di pubblicazione (ottobre 2017) per Transeuropa.


I. Il viaggio

Aveva preso il treno ormai da tre giorni, se ne rendeva conto dal numero delle carte di caramelle alla menta che aveva accumulato sul ripiano accanto al finestrino. Interiormente però, gli sembrava passato un tempo indefinito. Ricordava le luci della stazione di Firenze, quelle fuori che illuminavano l'asfalto bagnato, quelle dentro dei pannelli su cui risplendevano profili di ragazze slanciate con scritte in caratteri rossi, schizzati. Lo scompartimento era vuoto. Guardò in alto, come per vedere la propria valigia, ma l'aveva sistemata la mattina proprio sopra la sua testa, e non c'era modo di rassicurarsi che ci fosse ancora. Certo, a cose normali avrebbe potuto alzarsi, ma c'era qualcosa che gli appesantiva le membra, gliele rendeva torpide sotto i vestiti di seta leggera, la camicia bianca a sottili righe azzurro chiare, i pantaloni azzurri di velluto ben stirati. Era vestito elegante, perché il posto dove stava andando lo richiedeva.
Il treno attraversava la notte, tendendo l'orecchio Giovanni sentiva un rumore ritmico di metallo, come un alternarsi di sistole e diastole che si perdeva nella campagna immersa nell'ombra, di cui si scorgevano solo poche curve in lontananza. Gli sembrava di respirare secondo quel ritmo che non si interrompeva, neanche ora che la vita si era ovunque addormentata.
Ovunque ma non sul treno. Si sedette, sul sedile di fronte al suo, il signore che da una mezz'ora buona aveva lasciato lo scompartimento. Aveva un cappello grigio, affilato, la faccia grande e quadrata che, anche dal lato opposto, era affondata nel grigio uniforme della giacca. Giovanni aveva provato ad attaccare discorso quando quello era salito, due fermate prima, all'altezza del valico. Si chiamava Renai, Walter Renai, possedeva una libreria dell'usato a Firenze ed era spesso in giro, per lunghi viaggi, alla ricerca di libri rari.
– Che vuole, ormai con internet dobbiamo cercare le perle se vogliamo continuare a vendere. E anche quelle spesso non bastano.
Giovanni si era presentato, aveva spiegato il motivo del suo viaggio e la sua destinazione, ancora lontana. L'altro aveva assentito, con un cenno del capo.
A un tratto erano stati interrotti dall'arrivo della hostess. Era una ragazza bionda, con la divisa delle ferrovie, un grembiule bianco e un paio di guanti bianchi in lattice. Aveva dato a Giovanni e al suo compagno di viaggio una confezione di salatini e un caffè. A Giovanni non era piaciuto quell'abbigliamento da lavoratore a cui il grembiule conferiva un tratto stereotipo di femminilità. Non aveva però potuto distogliere lo sguardo dalla treccia bionda che scendeva sul collo della ragazza.
Ormai non sarebbe salito più nessuno. Almeno così pensava Giovanni, che stava affondando nella poltrona con sbadigli sempre più profondi e ravvicinati. (…)

«Atmosfere rarefatte, seduzioni del dormiveglia, bagliori poetici e felici insensatezze caratterizzano i due racconti riuniti con il bel titolo di Due sparizioni. Nel primo racconto, Il viaggio, il protagonista interrompe di notte il proprio lungo itinerario, scende dal treno divenuto inspiegabilmente vuoto e, in cerca d’aiuto, giunge in un piccolo paese. Nel secondo, Niente attorno, si narrano le avventure quotidiane d’un bambino attraverso un punto di vista multidimensionale lontanissimo dagli spazi angusti in cui si sono imprigionati gli adulti.» (Subhaga Gaetano Failla)




Borges, Caino, Abele e altre letture 
di Graziella Sidoli (Bologna)




Graziella Sidoli è docente di lingue e letteratura, traduttrice, redattrice, saggista e giornalista. Nasce in Italia, si trasferisce in Argentina e poi negli Stati Uniti. Risiede a Bologna, città che sceglie per il rimpatrio in Italia, dove collabora con L.U.N.A., Libera università delle Arti, come professoressa di inglese e consulente didattico. Le sue traduzioni di poeti italiani in inglese e spagnolo sono state pubblicate attraverso gli anni in varie riviste e antologie. Ha ideato e curato una selezione antologica di poesie di Paolo Valesio, Il Servo Rosso/The Red Servant, PuntoAcapo, 2016, testo bilingue co-tradotto con Michael Palma, Premio Speciale Camaiore 2017. Ha fondato e curato riviste scolastiche e artistiche negli Stati Uniti. Ha partecipato e partecipa attivamente alla vita letteraria e accademica degli Stati Uniti, e ora soprattutto in Italia. Fa parte della redazione di ItalianPoetry Review, Società Editrice Fiorentina ed è membra del Comitato Scientifico del Centro Studi Sara Valesio, di Genus Bononiae, a Bologna. Le piace identificarsi con una realtà transnazionale, transculturale e translinguistica. Scrive prosa e poesia in tre lingue.


Abele e Caino


(…) Il personaggio creato da Borges, è colpito dal rimorso nello scorgere sulla fronte di Abele un altro segno, quello fatto da lui con la mortale pietra. Possiamo allora chiederci: il segno che Borges pone sulla fronte di Abele, quello visibile, ha lo stesso valore del segno posto da Dio su Caino, quello invisibile? 

Sembrerebbe di sì se ascoltiamo la risposta di Abele nel racconto borgesiano: Sei tu che ha ucciso me o sono stato io a uccidere te? Non lo ricordo più. I fratelli, entrambi segnati, si riconoscono prima perché, questo autore ci dice, sono della stessa altezza, e poi perché l’atto della violenza è stato dimenticato: Stiamo qui insieme come prima, dice Abele. Li vediamo in un deserto, accendere il fuoco e prepararsi a mangiare uno di fianco all’altro, nel silenzio del riposo come chi ha finito una giornata lavorativa. È il segno sulla fronte di Abele, che fa scattare la memoria. E con essa la colpa di Caino.  
Ci domandiamo allora se questo atto di violenza è successo perché Abele doveva morire: ricordiamo che il suo nome vuol dire “vapore” e “nulla”. Il suo destino è molto diverso da quello del fratello che sarà prolifico e vedremo fino a che punto, mentre Abele sembra dover scomparire, ma scopriremo che anche Abele servirà ad un altro e alto scopo.
Il segno divino che vuole proteggere, avviene dopo la punizione – che pare a noi tutti essere la giustizia – perché Caino non potrà più coltivare la terra dove è accaduto il fratricidio, ma è destinato a creare una cultura non nomadica ma sedentaria, e a procreare figli, e figli dei figli, fra cui uno costruirà una città, un altro inventerà la lira e il flauto, e un altro sarà inventore dei metalli: il bronzo e il ferro – è allora la grazia questa, concessa da quel segno protettivo? Inoltre, la narrativa biblica ci dice che per sostituire Abele, Dio fece un dono ad Adamo e a Eva, a cui nacque Seth, per riempire il vuoto lasciato da Abele e Seth sarà il primo a invocare il nome di Dio: Yahweh. Ecco che la morte di Abele serve, o si riscatta, con questo importantissimo momento: il momento della salvazione.
Torniamo a Borges. Lui ha visto, nella sua lettura della narrazione biblica, l’uguaglianza dei fratelli, che è quella umana di chi si rivela più fragile perché trascurato, e uccide, e chi appare più forte perché amato, e viene ucciso. Abbiamo notato che i fratelli non solo si riconoscono per l’uguaglianza fisica, ma perché poi procedono con gli stessi gesti e le stesse azioni, come se nulla di grave fosse successo.
Possiamo osservare nel Dio biblico e in Borges che avviene lo stesso straordinario risultato: i fratelli sono “segnati” dal destino e graziati nel perdono che appartiene prima a Dio, e poi agli esseri umani.
Un altro dettaglio non minimo nel racconto borgesiano è il passaggio di Caino ad un luogo terrestre, il deserto, dove la morte appare essere inesistente: e ricordiamo ancora che i fratelli si riconobbero, sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono tacevano… come la gente stanca…nel cielo spuntava qualche stella che non aveva ancora ricevuto un nome… Tutto è come prima, dirà l’Abele di Borges. Allora non c’è stata violenza, né condanna, né morte? (…)

«Il perdono è grazia o giustizia? È la prima domanda che viene posta in questo breve saggio e dalla quale parte un interessante parallelismo tra ciò che viene narrato nella Bibbia e le parole scritte da Borges; e che confluisce alla fine della quarta pagina nella considerazione che in ogni uomo è racchiuso sia il Bene che il Male.
Da questa, che potremmo definire un’introduzione, inizia l’analisi del mito americano, a opera di un autore che dichiara di aver vissuto e lavorato a New York per metà della sua vita. Un viaggio attraverso usi e costumi, arte e istruzione. Senza dimenticarsi della politica, così permeata dall’anima puritana e fondamentalista nordamericana, con tutta la censura che essa in fondo ama, pur facendosi bandiera (ironicamente) del primo emendamento della Costituzione: “Freedom of Speech”. In finale non risparmia nemmeno l’Italia, che forte dell’attitudine melodrammatica, auto-flagellante e fatalistica non riesce a vedere che la crisi c’è anche al di là delle proprie frontiere. Un testo che non offre risposte ma che costringe a porsi domande fondamentali.» (Angela Colapinto)

«Una raccolta di articoli scritti negli ultimi anni, dove il protagonista è la società USA in evoluzione. Consiglierei di ordinare i pezzi in modo cronologico un interessante punto di vista degli USA di oggi, da cui dipendiamo ancora molto e che, troppo spesso, è, per certi versi, indietro rispetto a noi.» (Francesco Di Sibio)




Altre opere votate

L’ufficio delle voci smarrite e altre storie 
di Giovanna Iorio (Londra, UK)



Giovanna Iorio, irpina, è vissuta per anni a Roma ma si è recentemente trasferita nel Regno Unito. Ha pubblicato diverse raccolte di poesie. Le più recenti: Poesie d’amore per un albero (Albeggi 2017), Haiku dell’Inquietudine (Fusibilia 2016) e Frammenti di un profilo (Pellicano 2015, con Post poesia di Renzo Paris). È presente in molte antologie tra cui Cuore di preda (CFR) e SignorNo (SEAM). Scrive racconti (Domiveglia, Regina Zabo 2016) e radiodrammi (Rai 3 e Radiolibriamoci). Collabora con Roma&Roma, DiarioRomano ed Erodoto108. Dopo aver vinto il concorso Pubblica con noi è uscita con Fara La neve altrove (finalista al Camaiore 2017) con Prefazione di Marco Sonzogni, foto di Alexey Kljiatov e le traduzioni di Charlie Hann (inglese), Zingonia Zingone (spagnolo), Anna Jolanta Lagoda (polacco), Grazia Calanna (francese), Anna Maria Curci (tedesco), Anna Tumanova (russo). Di imminente uscita Succede nei paesi. Diario di in breve ritorno con foto-illustrazioni dell’Autrice (Fara 2017).


THE DRUID'S DEN


– Pagami da bere che sono morto.

L’ho sentito con le mie orecchie al Druid’s Den, Allora l’ho guardato con attenzione. Di certo era pallido, con occhiaie profonde, gli occhi spenti, le palpebre pesanti sembravano volessero chiudersi da un momento all’altro. Per sempre. Indossava un abito scuro, forse blu o forse nero. Non lo so, i colori mi confondono. Ho i fotoricettori difettosi. La sua camicia però era candida, il cravattino annodato da mani esperte, le scarpe lucide davano l’impressione che non avessero mai camminato.

– E da quando sei morto? – chiese divertito il ragazzo che in compagnia di alcuni amici aspettava di vedere la partita Italia-Irlanda.

– Da tre giorni. Perché, ti sembro morto da tanto tempo?

– No, no. Sembri proprio appena morto – risero tutti. – Che ti offro?

– Una Guinness.

– Porta una Guinness al morto! – disse il giovanotto al barista.

Qualche minuto dopo un ragazzo irlandese con i capelli rossi portò un boccale di Guinness con la schiuma densa al punto giusto. Il morto ringraziò con un pallido sorriso che gli fece tornare un po’ di vitalità negli occhi. Si mise a sedere sullo sgabello come un uccellaccio nero. Aveva però una rosa all’occhiello.

– E questo fiore?- gli chiese il ragazzo curioso. – Un avanzo del tuo funerale?

Una rosa di mia moglie. Non l’avevo mai vista piangere per me. Per i figli, sì, quei mascalzoni, per loro, sì che piangeva. Ma per me, mai una lacrima. Ah, povera donna…

– E sei sicuro che non piangesse di gioia? – si sentì un’altra risata.
– Erano lacrime vere. Da morto le riconosci le lacrime sincere. È una specie di dono che ti fa la morte.
Ora a ridere era il morto e gli altri ascoltavano. Si sentiva un rumore di ossa sotto la giacca, come se la gabbia toracica non sopportasse quell’improvvisa ilarità.
– I morti non credono di essere morti. Io neppure ci credo. Posso andare in giro, di notte, di giorno. Bello ed elegante come uno sposo. Però sono sempre solo. Si toccò il fiore appassito e aggiunse:
– E anche tu, sei morto…
I giovani avevano smesso di ridere. Guardavano il maxi schermo con i video di MTV. Tutto sembrava irreale e distante.
Finita la birra il morto si alzò. Le scarpe si sfiorarono e fecero un rumore simile al lamento di una biscia.
– Grazie per la birra, ragazzo.
– Non c’è di che – rispose lui. – La prossima volta me la offri tu.
– Non credo.
– Vuoi dire che sei un morto di fame…?
Risero tutti, così forte da far girare i pochi clienti in fondo alla sala che a quell’ora del pomeriggio bevevano al Druid’s den.
– Non ho un soldo in tasca. Non ne avrò mai più.
Aprì la porta e lo inghiottì un fascio di sole. 
– Ma tu guarda che tipo – disse il ragazzo ad alta voce, rincuorato dall’uscita di scena di quel pazzo furioso. – Che s’inventa la gente per scroccare una birra…
Nessuno rispose. Solo il giovane barista, in fondo alla sala, si fece di nascosto il segno della croce, come in un camposanto.

«Quell’uomo aveva un segreto. Era evidente dal suo modo di camminare… inizia così il racconto che dà il titolo alla curiosa raccolta di questo autore che riesce a miscelare a uno stile di scrittura scorrevole e a un ritmo sostenuto, quella giusta dose di surrealismo in grado di strappare un sorriso all’incredulità. Non mancano i temi seri così come i folletti, a fare confusione tra un’aspirapolvere e le creature magiche. E una curiosa Sig.ra Bosco, che fino alla fine non si sa bene chi sia ma che conserviamo lì, nell’attesa che alla prossima occasione possa avere anche lei una storia da narrare.» (Angela Colapinto)

«Una miscellanea di racconti di fantasia a tratti simbolici come “La gallina Alba” e “L'ufficio delle voci smarrite”, e a tratti noir, come “The Druid's Den” e “Il folletto”. I personaggi sono chiamati ad assistere a manifestazioni o situazioni a loro straordinarie, che mettono in discussione il mondo come lo avevano sempre visto, spesso in balia di un'istintività fuori dal loro controllo come governata da forze misteriose. Narrazione che arriva alla sua più spiccata originalità nel racconto simbolico.» (Alessandra Gabriela Baldoni)


«L’ufficio delle voci smarrite e altre storie raccoglie dieci brevi racconti dal gusto agrodolce, storie lievi attente alla gioia del dettaglio e della minuzia, vicine alla letteratura fantastica e alla favola. Tra i racconti più belli, troviamo il malinconico “Il negozio di camicie”, il dolcissimo “Elsa va in vacanza”, e “Muschio”, nel quale la piccola protagonista afferma, quasi a descrivere la caratteristica principale di questi testi: Ero leggera, una bambina di sei anni con le ossa cave come gli uccelli che rischiava di volare via con una folata di vento.» (Subhaga Gaetano Failla)




La tartaruga liuto 
di Giuseppe Caridi (Pontetaro di Noceto, PR)




Sono un bancario residente a Parma, appassionato di viaggi, musica, letteratura, fotografia e sport. Sono attivamente coinvolto in attività turistiche nel mio paese di origine, Gallipoli, e la mia speranza/progetto è di lavorare nel campo dei viaggi nel prossimo futuro. Possiedo diversi brevetti subacquei e la mia intenzione è di trascorrere parte dei dodici mesi dell'anno all'estero lavorando come guida subacquea in alternanza con le attività da svolgere qui nel nostro paese. Sono stato arbitro di calcio durante il periodo degli studi universitari –periodo in cui ho anche lavorato come magazziniere in un centro commerciale, e dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza a Parma ho lavorato tre mesi presso Eurodisneyland Paris come cameriere (no, non ho mai indossato il costume di Topolino!!!) e ho quindi conseguito la qualifica di Istruttore di Diritto Internazionale Umanitario per conto della Croce Rossa Italiana. Ho collaborato col Comitato Internazionale di Croce Rossa Internazionale, incarico che ho abbandonato perché assunto in banca. Sono un fotografo appassionato e partecipo regolarmente a dei Workshop per migliorare tecnica e stile: anche in quest'ambito ho diversi progetti che sperano possano concretizzarsi negli anni a venire. Ho scritto un libro che include sei reportages relativi a sei destinazioni tra quelle che ho visitato e prevedo di pubblicarlo a Gallipoli nell'agosto del 2018. Dopo tanti anni di viaggi sto organizzando in un ordine sistematico le mie foto, scegliendo quelle meglio riuscite perché, dopo il libro sui reportages, vorrei pubblicare un volume esclusivamente di fotografie, subacquee e non. Mail: eliu1973@libero.it


La vettura procedeva a velocità assai ridotta, con un'andatura timorosa.
Si incuneava tra le curve con la circospezione di un brigante e d'altronde non poteva essere altrimenti: l'asfalto sconnesso, la carreggiata ristretta e la possibile presenza dietro un angolo cieco di individui che si spostassero da un villaggio all'altro non consentivano una velocità di crociera che pure l'utilitaria avrebbe potuto raggiungere.
In ogni caso l'uomo alla guida non aveva fretta.
Era conscio di poter contare solo sulla luce diurna poiché non vi era traccia di illuminazione elettrica- e infatti si era messo in marcia di buon'ora, al sorgere del sole; temeva inoltre più di tutto le pozzanghere fedifraghe la cui effettiva profondità non era dato conoscere e che anni prima, a Cuba, gli erano costate lo pneumatico anteriore destro. Però si stava godendo davvero quella lunga giornata al volante: la totale assenza di traffico, la calura moderata e la vegetazione che avvolgeva il tragitto avevano ricreato nel suo spirito le sensazioni sublimi di quando decenni addietro, nel paese natio, era solito recarsi al mare col suo ciclomotore, a petto nudo, irradiato dal sole e imbaldanzito dal vento. Forse era proprio la presenza del mare ciò che più deliziava il suo animo: a pochi centimetri dal finestrino oppure parecchi metri più in basso il fragore delle onde che salomonicamente sferzava spiagge deserte e scogliere lo stava accompagnando sin da quando aveva lasciato la sobria pensione in cui aveva alloggiato negli ultimi giorni.
Inspiegabili deviazioni della carreggiata verso l'entroterra gli sottraevano di tanto in tanto la vista dell'oceano, ma più che la certezza del rinnovato incontro lo confortava la poderosa presenza della muraglia verde, un intrico impenetrabile al cospetto del quale l'asfalto appariva una concessione magnanima e il mare stesso un nemico in fuga dopo la disfatta in battaglia. Aveva guidato o camminato tra le foreste di tutto il mondo ma ogni volta che si sottometteva all'umidità asfissiante della selva tropicale fraternizzava benevolmente coi raggi obliqui che la sfidavano nutrendone il sottobosco; si lasciava continuamente estasiare dai suoi sussurri impercettibili, rispettava con deferenza il groviglio che avrebbe sbarrato il passo al più intraprendente degli esploratori e pagava di buon grado il dazio delle vampate di calore che- quasi innescate da un dispositivo elettronico – fumigavano da sotto i piedi.
Si considerava arguto e particolarmente intelligente quando riusciva a individuare le diverse specie arboree in quello che per tanti altri era solo un ammasso a due dimensioni di colore verde, e pur non avendo la benché minima nozione di botanica era tuttavia capace di delineare visivamente le differenti varietà vegetali che, tessere di un mosaico senza alcun interstizio, componevano quel capolavoro che riciclava anidride carbonica senza soluzione di continuità.
Provvidenziale come un aumento di stipendio un negozietto gli offrì una valida scusa per una pausa, che si rivelò assai gradita una volta fuoriuscito dal veicolo poiché le gambe erano intorpidite e lo stomaco reclamava carburante. Dovunque si trovasse in giro per il mondo adorava far spesa in botteghe scalcinate, alimentari improvvisati, rivendite sovraccariche di articoli tra i più disparati. L'esercizio in questione- un'accozzaglia di mercanzia simbioticamente adattata a una pericolante baracca di legno come un paguro alla sua conchiglia- faceva da riferimento per i generi di prima necessità alle diverse famiglie che evidentemente abitavano il circondario.
– Dunque manca solo una ventina di minuti?
– Sì, più o meno, in ogni caso sei praticamente arrivato.
La ragazza che gli aveva venduto un sacchetto di patatine di provenienza americana e una bibita gelata indossava un paio di pantaloncini corti rosso acceso, perfettamente aderenti alle natiche dalle curve perfette e che facevano al contempo risaltare due gambe affusolate che- pensò lo straniero- gli sarebbe piaciuto ammirare ancor più corredate da calze e tacchi a spillo. Il seno prosperoso ma non eccessivamente voluminoso pareva garanzia di sodezza anche per gli anni a venire, allorquando l'incedere del metabolismo solitamente strapazza anche la bellezza più florida, mentre un volto di fine bellezza evidentemente avvezzo a un sorriso spontaneo completava quel sincretismo anatomico che la sua esperienza di viaggiatore gli segnalava come assai rara a tutte le latitudini.
– Sei sposata?
– No – gli rispose la ragazza fissandolo dritto negli occhi- e tu?
– Neanch'io, pensa che fortuna! Se solo avessi vent'anni di meno!…
La giovane donna non fece caso alla battuta del suo cliente, rivolgendo la propria attenzione a un marmocchio insistente che reclamava una qualche ragione.
E così riprese il suo viaggio, memore di quelle sensazioni assaporate anni addietro ma che avevano ormai lasciato il posto ad un altro stile di vita. Si fermò ancora un paio di volte per riprendere lembi di sabbia sovrastati da palme svettanti verso il cielo oppure curve e gravide di frutti, ma alla fine giunse a destinazione nel pieno rispetto della tabella di marcia.
Era arrivato all'hotel nell'ora più calda del pomeriggio. (…)

«Un lampo squarciò il cielo alle spalle della donna, illuminando per la durata di un baleno la spiaggia e il mare, restituendo il tutto al buio più assoluto come se si fosse trattato di un sogno. Un single incallito e convinto, reporter e fotografo, si trova a un bivio importante della sua vita. Scritto bene, manca forse di una tensione maggiore e un finale con più ritmo.» (Francesco Di Sibio)

«Lo sguardo contemplativo del fotografo si associa ad una capacità narrativa scorrevole che rende la lettura piacevole aprendo l’obiettivo sulle umane esistenze coniugandole alle emozioni e ai colori della spiaggia ove le tartarughe depongono le uova.» (Claudio Fraticelli)




La spada e la scimitarra 
di Renzo Deganello (Piovene Rocchette, VI)

Renzo Deganello vive in Valdastico e scrive romanzi storici. Ha pubblicato Cieli grigi.

Le ruspe della modernità avanzavano, per abbattere l’antica villa Benetti. I suoi grandi occhi lassù piangevano impotenti alla loro avanzata.
Il famoso giardino a forma di labirinto, realizzato per impedire un facile accesso agli estranei per far ammirare tutta la sua bellezza era già stato ingoiato.
Ben presto il cumulo di macerie si accatastò alto in mezzo all’ex giardino di alloro. Ora le ruspe stavano aggredendo le fondamenta, gelose custodi di antichi segreti.
La ruspa di Bepi azzannò una lastra di sasso monolitico.
“Fermati!” Urlò Francesco, c’è qualcosa di strano lì…” Ed indicò un qualcosa di scuro: sembrava una cassa di legno molto antico.
Bepi spense il motore. In un attimo tutti i muratori erano attorno lì, assieme al nugolo di ragazzini che si divertivano a vedere i pesanti bulldozer al lavoro: Arrivò anche don Giuliano, con la lunga tonaca nera, a vedere che cosa stava accadendo. Come persona dotata di grande cultura e personalità, si avvicinò per primo al grande scrigno: il vecchio lucchetto arrugginito saltò facilmente e don Giuliano aprì la cassa: c’erano una spada ed una scimitarra, una tempestata di diamanti e l’altra tempestata rubini.
La spada dorata recava la data: anno domini 1181.
La scimitarra dorata recava un’incisione, forse una data: 628.
Erano poste un sopra all’altra e sembravano volutamente poste a forma di croce, ma la scimitarra, posta superiormente, era posizionata con il manico decisamente pendente a sinistra. “Veramente una strana disposizione – pensò fa sé e sé don Giuliano – che cosa avrebbe voluto significare? Era un simbolo che qualcuno voleva tramandarci? Chissà, quella disposizione delle spade non era naturale e la foggia della cassa era fatta per quella forma. No, non è casuale” concluse dentro di sé don Giuliano.
Ma i pensieri non ebbero tempo a distendersi nel cielo terso di quella mattina perché Gigi, il caposquadra, richiuse immediatamente la cassa e la portò di corsa nella vicina Canonica. “Dobbiamo sbrigarci subito – sentenziò – altrimenti quelli delle Belle Arti ci bloccano il cantiere e noi qui non lavoreremo più.”
Per lui quella era l’esigenza primaria, tutto il resto era in secondo ordine, alla Storia ci avrebbe pensato qualcun altro.
C’era il rischio che un altro grande reperto storico finisse nella solita discarica come molti reperti che nell’Italia di quel tempo era desiderosa solo di voltare pagina e chiudere con il passato, a costo di buttare a mare un tesoro: ma l’ignoranza la faceva ancora troppo da padrona ed ai poveri contadini, improvvisamente divenuti manovratori di scavatori e gru era impossibile da pretendere, a loro interessava solo lavorare per la ricostruzione dell’Italia.
Don Giuliano fece trasportare oi la cassa in camera sua e fece chiamare il Calli, un giovane amico professore di storia locale, per chiedere consiglio. Chiamò anche il Momi, che sapeva essere una persona molto intelligente e saggia, e Vanni, un giovane dinamico e pieno di speranza che aveva sempre ottime idee, nonostante la giovanissima età, ed era po’ il suo “braccio destro” in quel periodo.
Il gran consiglio si tenne nel primo pomeriggio, in modo da poter prendere una decisione in tempi rapidi. (…)

«Molti non avevano mai visto il mare e lo soffrivano. Ognuno era armato solo con un nodoso bastone da viaggio oppure un forcone da contadino, chiaro indice da dove provenivano. Un percorso iniziatico tra lotte e incontri che arricchiscono la cultura e aprono la mente. Un deserto che altro è se non il nostro cuore arido, da fertilizzare con la fede: ricerca infinita di senso e completezza.» (Francesco Di Sibio)




Istantanee di Elena Varriale (Napoli)




Elena Varriale è nata a Napoli, terra di mare e fuoco e nell’aria che respira ci sono oracoli di Sibilla e canti di Sirene. Sarà forse per questo, o per altri motivi a lei ancora sconosciuti, che si ritrova spesso alla deriva del sentire, nello spazio nebuloso della creazione. Naviga molto alla ricerca della parola e del verso giusti, ma solo quando raggiunge il suo “porto”… comincia a scrivere. Di viaggio in viaggio, ha scritto e pubblicato articoli, saggi e tre raccolte di poesie (Lo so che sbaglio, Tracce 2007, Solubile Scompiglio, Tindari Edizioni 2012), Intralci ed intervalli (Fara 2015). Suoi scritti (poesie e racconti) sono stati selezionati e pubblicati in antologie e riviste (Aletti, Giulio Perrone Editore, Lietocolle, Fara, Limina Mentis) e nel blog di Poesia Rai News curato da Luigia Sorrentino. Ha ricevuto riconoscimenti in premi letterari nazionali e internazionali. Nel 2012, il suo romanzo breve Se sei nato caos non puoi diventare armonia è stato pubblicato nell’antologia Faraexcelsior 2013. La poesia che inizia col verso Se è dei furbi galleggiare nelle ipocrisie qui a p. 48 (allora intitolalata Alito di scirocco) si è classificata seconda al Premio Nazionale e Internazionale di poesia e prosa “Città del Galateo” 2013. Il suo scritto “La parola è un silenzio abitato” è inserita ne Il luogo della parola (Fara 2015).


Istantanee
Se c’è una cosa che considero davvero utile dei cellulari è la possibilità di fotografare gli attimi mentre li vivi. Basta inquadrare e il sensore del cellulare mette a fuoco, sceglie la luce e i filtri, infine scatta la foto. Io mi limito a scegliere l’inquadratura giusta e a sfiorare un’icona.
È tutto così rapido e comodo. Senza pause o interruzioni per il flusso delle emozioni. Si guarda, si sente e si scatta. C’è solo voglia di conservare l’istante per sempre. Di trattenerlo nella memoria e lasciarlo lì, a riposare. Ecco, più che foto, sono istantanee dell’anima.
Scatti dell’attimo o guizzi del sentire, lo sguardo perso nella suggestione, il respiro denso della libertà. Un ritratto nitido dei pensieri che s’infrangono sugli scogli dei perché e l’immagine serena, limpida dei sogni quando raccontano il chi sei.
Dettagli, minuzie catturati dallo sguardo attento, sfumature di sensi sulla tavolozza dei colori, il rapido susseguirsi della vita tra le ombre della sera, il presagio di una primavera in arrivo o la rossa malinconia di un autunno tardivo.
Fotografia è scrivere con la luce. Il luogo e il tempo non contano, la voce che racconta è solo luminescenza impressa su memoria: il bagliore di un archetipo, l’amaro sfavillio delle consapevolezze o il luccichio degli occhi quando sorridono all’incanto.

La libertà
Ci sono estati diverse, quelle vissute ascoltando solo sciabordii e gorgoglii del mare. Estati che profumano di salsedine e squarci d’orizzonte. Estati che cammini scalza, lasciando sulla sabbia umida, orme appena accennate dei piedi. Estati che vivi o abiti l’attimo e ne fai cibo per pensieri o considerazioni a margine. Estati dove andare è più importante che tornare. Estati in cui tagli radici che trattengono. Estati in cui avanzi e dietro ogni passo, confondi cronologie e alleggerisci spazi.
È un ordine inverso di sensi che porta le nuvole sotto i piedi ed il mare tra i capelli: il cielo capovolto si fa specchio che confonde gravità. Ci sono promontori di domande da cui salpare e l’àncora non trattiene: si fa libera la rotta e la deriva di ogni giudizio. I pensieri cavalcano da soli sulla cresta spumosa di correnti marine. Nell’orizzonte che tutto contiene, tra nuvole sparse e in movimento, la libertà si fa scia luminosa o il quadro mai finito di asintoti e tangenti di curve all’infinito.
Come le nuvole, anche il respiro della libertà si trasforma, s’evolve, si perde e si rigenera. Non conosce la parola fine. È un’alba, un vagito, il primo sorriso, l’inizio del tempo scandito dal voglio, il battito delle vene che incalza sulle note scritte dal volo improvviso dei gabbiani. L’armonia di sillabe e suoni sulla pelle, gli occhi azzurri del mare che ti fanno l’occhiolino. L’invito a lasciarsi sedurre dalle istantanee che regala generoso l’Universo.
La libertà è grammatica delle parole assenti. Indefinibile metafora della trasgressione creativa. Richiamo, rievocazione di spazi e tempi dilatati. E’ pensiero vitale, deriva dei corpi, il punto di fuga della mente sulle traiettorie segnate dal cuore. E’ ritmo interiore. Passo, danza dell’indicibile, tallone di Achille di ogni certezza e sapere. È un lembo di cielo ricurvo sull’asfalto, visione inaspettata di cirri in tumulto, l’aroma di zefiro nelle notti che non hanno risposte.




Sussurri e rivelazioni di Franca Oberti (Calco, LC)



Franca Oberti è nata a Genova, ma vive in Brianza da più di trent’anni. Dopo un periodo lavorativo vario e dopo aver fatto la mamma, ha conseguito il diploma di Operatrice Bio-Naturale presso l’A.MI. University di Milano, specialità Pranopratica e Counselor. Oltre a svolgere diverse attività di volontariato ed aver ricoperto cariche amministrative nel pubblico, scrive poesie e racconti, pubblica articoli di saggistica su varie testate locali e riviste di ispirazione cattolica. Ha vinto numerosi premi letterari, è inserita in diverse antologie, è stata presidente e membro di giuria in concorsi letterari. Ha pubblicato tre raccolte di poesie, quattro antologie natalizie, tre volumi di saggistica e un libro di cucina curativa. Ama le tradizioni e la vita semplice che condivide con la sua famiglia da quarant’anni. Tiene conferenze su temi vari inerenti la medicina complementare. Ha recentemente pubblicato Il tempo del castagno. Racconti nel vento (Fara 2016, vincitore del Premio Marchesato di Ceva 2017) e, in quanto II class. al concorso Pubblica con noi, la silloge Il ritorno del dragone inserita in Gymnopedie, Architetture e altre opere belle (Fara 2017). Web: facebook.com/franca.oberti



SUL SENTIERO DEI COLORI


“L’amore è abbastanza grande da includere una frase letta in un libro, la linea di un collo visto e desiderato tra la folla, un viso amato e desiderato visto al finestrino del metrò che sfreccia via. È grande abbastanza da includere un amore passato, un amore futuro, un viaggio, la scena di un sogno, un’allucinazione, una visione.”  (Anaïs Nin)



Era nato in una capanna di ghiaccio Olaf, costruita su una roccia ricoperta da nevi perenni; poco distante dal profondo mare del Nord.

Biondissimo, quasi bianco, la sua pelle rifletteva l’immenso chiarore di una terra che non conosceva il calore.
Cresceva Olaf, coperto con pesanti pastrani e pelli di animali per ripararsi dal vento, poteva mostrare solo il suo bel viso al sole e solo in quei pochi momenti dell’anno che questo riscaldava quelle tundre desolate.
Crebbe felice Olaf, pur non avendo altro che ghiaccio intorno a sé.
Tutto il suo popolo era candido e biondo come lui.
Durante le riunioni, nel suo villaggio, all’interno dei loro igloo, si spogliavano e mostravano il candore delle membra perennemente coperte per ripararsi dal freddo.
Spesso Olaf si specchiava nei laghetti ghiacciati dove tentava di pescare qualcosa per il pranzo. Per guardarsi meglio, spalancava le profonde pozze blu dei suoi occhi.
Ma quando fu adulto divenne inquieto Olaf, decise di partire.
Voleva seguire le nuvole per capire fin dove sarebbero arrivate.
Voleva sentire quel raro vento caldo che arrivava fino a lui e gli accarezzava dolcemente le gote arrossate dal freddo.
E partì Olaf, seguendo l’onda del vento, sul finire di quell’estate polare.
La strada era lunga, ma il sogno di Olaf era appena cominciato.
Con la fantasia dei suoi vent’anni camminò, traghettò, si fece trainare da cavalli e carri, navigò.
Attraversò il mondo da Nord a Sud e scoprì che diventava sempre più colorato.
Fu assalito dai riflessi del verde, dal blu del mare, dal giallo e rosso dei tulipani.
Scoprì il grigiore delle città e si sentì soffocare viaggiando tra nebbie dense e fumose.
Oltrepassò bianche vette e raggiunse ancora una volta il mare; un mare nuovo, verde e caldo, con onde spumeggianti che non avevano rispetto per nessuno, ben diverse dalle algide banchise della sua terra.
L’oro fine del deserto gli penetrò negli occhi blu e la sua pelle si bruciò e si accorse che anche in quella nuova terra doveva coprirsi; non per lo stesso motivo, non era dal ghiaccio che doveva difendersi, ma dal caldo torrido dell’equatore.
Era indifeso Olaf in quella terra sconosciuta e la sua pelle bianca fu coperta di mantelli. Ma i suoi capelli, sempre più biondi, tradivano le origini e spesso veniva osservato con curiosità.
“Sei tu, fratello, che viene dal grande Nord?”
Una voce melodiosa, un giorno, gli rivolse questa domanda, e Olaf, che non era più abituato a parlare con la gente, si guardò finalmente intorno.
Tutto preso dal suo viaggio, dai paesaggi, nell’ansia di scoprire sempre nuove emozioni, si accorse di aver raggiunto un luogo dove tutti i colori avevano concentrato la loro intensità: la foresta più verde che avesse mai visto, ricca di tonalità chiaro/scure, ombre, vegetazione che non avrebbe mai potuto immaginare, foglie e alberi giganteschi, animali di ogni specie, ruscelli del blu più intenso di quello del mare; da tanto tempo, ormai, dormiva su letti di foglie, tra insetti volanti e velenosi e animali striscianti; il caldo soffocava, l’umido della foresta era mescolato a odori e profumi che inebriavano e nei rari momenti di lucidità cominciò a desiderare il gelo del Nord.
Quella voce lo scosse, cercò di capirne la provenienza, si voltò e il suo sguardo si posò sulle membra nude di una splendida fanciulla color del cioccolato. Solo i palmi delle sue mani, e la lingua che continuava a saltellare nella domanda ripetuta più volte, erano rosei come i petali di un fiore. Un sorriso scoprì denti bianchissimi e nel suo bellissimo volto incorniciato da una folta e riccia capigliatura scura, si spalancarono due grandi occhi, limpidi come i laghetti ghiacciati del grande Nord, con pupille nere come il carbone.
Olaf rimase imprigionato in quegli occhi e il tempo parve fermarsi, e quel momento diventò un anno, mille anni, una vita, un’eternità, un attimo…
Capì finalmente lo scopo di quel viaggio, Olaf, e comprese che aveva raggiunto la sua meta.
Ora desiderava tornare a casa. Guardò Karin e vide i suoi denti brillare come diamanti tra le calde e umide labbra.
“Vieni con me, Karin. Ti farò specchiare nel ghiaccio che acceca. Vedrai l’alba che non arriva mai. Sentirai la tua pelle, ricca di sole, raffreddarsi in un attimo, fino ad avere il desiderio di coprirti.
Staremo insieme nella capanna di ghiaccio e aspetteremo, per lunghi inverni, il ritorno del sole.”
Ripercorsero il lungo viaggio insieme, Olaf e Karin, tenendosi per mano, la loro pelle si mescolava mentre la distanza diminuiva. Impercettibilmente, il colore cambiò, si fuse e si trasformò in un caldo e morbido tono di ambra.

«Nella premessa lo scritto propone un percorso ai “confini della realtà”; la lettura restituisce con efficace pregnanza i più grandi interrogativi che la modernità ha procurato alla esistenza degli uomini. Uno straordinario spunto di riflessione.» (Claudio Fraticelli)


Opera segnalata

I farmacisti e altri 13 foglietti 
di Giovanna Menegus (Tradate, VA)



Giovanna Menegus, nata a Milano nel 1969, è cresciuta a San Vito di Cadore. Dopo la maturità classica conseguita a Belluno, ha studiato Lettere antiche all’Università cattolica di Milano. È redattrice e correttrice di bozze. Pubblica poesie e altri scritti nel sito personale Crudalinfa, in rete dal maggio 2016. Nel maggio 2017 la casa editrice milanese ExCogitain collaborazione con MasterBook/IULM ha pubblicato la sua prima raccolta di versi su carta, Quasi estate, presentandola al Salone del Libro di Torino. Altre presentazioni sono seguite, a Milano, Alghero e Cortina d’Ampezzo.




NOTTE 

L’aria è carica di umidità, ma lei vuole stare fuori ugualmente.
È il richiamo della notte estiva: sono i misteriosi colori dei gerani sul terrazzo.
Il fatto che i colori dei fiori continuino a esistere anche dentro il buio, questa loro seconda vita così soffusa e velata, ignorata dai più, non smette mai di affascinarla.
Ogni volta si tratta di abituare lo sguardo alle loro vibrazioni, di cogliere la pulsazione dei colori che viene acuita dalla luce dei lampioni e della lampada a muro accesa sopra il tavolo, dai riverberi provenienti da finestre e auto che passano, a volte persino dalle luci degli aerei di Malpensa, quando volano più bassi e vicini... E per quanto si acuisca la vista, è impossibile esaurire i segreti bagliori dei globi rossi, rosa e bianchi annidati tra la massa indistinta delle foglie. Perché mentre le foglie si fanno scure e arretrano nel buio, diventano pieghe e sacche d’ombra, i fiori si protendono allo sguardo più vividi, e ciascuno ha un suo preciso fremito, un movimento…
Intorno c’è silenzio, cosa che non accade spesso. Anche i cani del circondario stanno dormendo. (Abbaiano di solito.) Avvertire la presenza degli invisibili cani addormentati, silenziosamente acciambellati in vari punti del buio, è bellissimo – e immaginandoli li si sente quasi respirare piano, insieme agli umani disseminati anch’essi ora così quietamente in altri invisibili punti del buio. Le dense chiome dei ciliegi e dei grandi fichi, in basso, stormiscono leggere, di tanto in tanto. Un fruscio appena un poco ruvido.
A un angolo del tavolo stanno allineati i tesori vegetali che lei raccoglie nelle sue giornate, da terra o dalle aiuole. Li tiene in mano per un po’, camminando, poi li infila in tasca, in qualche borsa, e le fanno compagnia a lungo. Un grande petalo di rosa rosso cupo: la sua ricca, superba seta si è ridotta a un grumolino che raggrinzisce e sbiadisce lentamente. Un piccolo fiore-frutto di melograno, caduto sul marciapiede da un giardino mentre i petali (sono i petali?) iniziavano già a ispessirsi per la trasformazione in polpa. Un ugualmente piccolo bocciolo bianco molto profumato, forse una gardenia: è diventato quasi nero, i petali sono scuri quanto le foglie, ma ancora profuma tanto. Un rametto di cipresso tempestato di bacche argentee, aromatiche. Qualche spiga di lavanda.
Ostinandosi a rimanere lì fuori nell’umidità che ora la fa rabbrividire ha la precisa, curiosa sensazione di essere un giornale o un libro dimenticato sulla spiaggia o sotto un portico, sul davanzale di una finestra al termine di una lunga giornata di sole. Il mattino dopo la carta è gonfia e ondulata: è aumentato di volume e non si chiude più bene – il bianco dei fogli appare impercettibilmente ingrigito o ingiallito.
Si sente fatta di carta, e assorbe l’umidità con ogni fibra del corpo, che ne viene deformata. Ma non le importa, le piace anzi.
Soprattutto, le pare che la sola compagnia dei suoi gerani le potrebbe bastare per l’intera estate. Non le viene mai a noia, non è mai faticosa o pesante: a differenza di quella degli esseri umani, persino i più amati e necessari e generosi.
Le pare (non sarà vero) che di tutti potrebbe in qualche modo adattarsi a fare a meno, ma non dei gerani notturni nei mesi estivi. 



«Un diario con fatterelli familiari e più propriamente personali. Parte bene con “Cimici”, si perde, recupera nel finale con “Farmacisti”. Gli slanci ironici e puntuali non si riscontrano nelle altre storie.» (
Francesco Di Sibio)


«Squarci poetici e illuminazioni caratterizzano queste brevi narrazioni che talvolta sfiorano l’apologo. Uno sguardo attento che invita alla contemplazione delle meraviglie quotidiane.» (Subhaga Gaetano Failla)

1 commento:

Mariangela De Togni ha detto...

Complimenti a tutti i vincitori.