venerdì 9 giugno 2017

Simone Zanin vince il Pubblica con noi 2017

Fara Editore e i giurati Adalgisa Zanotto, Massimiliano Bardotti, Natascia Ancarani, Nino di Paolo e Stefano Martello della sezione Racconto/saggio (per la sezione Poesia v. farapoesia) sono lieti di rendere noti i risultati del Concorso Pubblica con noi 2017: grazie di cuore ai giurati e a tutti i partecipanti e complimenti ai vincitori!


Pubblica con noi 2017
sez. Racconto/saggio



I. classificato


Architetture di Simone Zanin (Formigine, MO)

I.
Non ricordo quando ne sentii parlare per la prima volta. Pensandoci bene, potrei dire che quella storia la conoscevo da sempre, o almeno da quando posso tornare indietro con la memoria. E forse per questo che mi aveva sempre affascinato e mi era entrata dentro così in profondità, che ogni sera, da piccolo, dedicavo una parte dei miei pensieri a immaginare come sarebbe stata la prima volta che mio padre mi avrebbe accompagnato alla cattedrale di Aletheia per vedere lo Specchio della Verità.
Sì, me lo aveva promesso.
«Quando mi porti?» ogni sera la domanda era la stessa.
«Sei ancora troppo piccolo.»
«Cosa vuole dire? Quando potrò andarci anch'io? Leo l'hai già portato.»
«Lui è più grande, lo sai. Ci andremo quando sarai pronto.»
«Ma non è giusto.»
«Che cosa?» la sua voce si faceva d'un tratto severa nella sospensione di quella domanda. Il tono era definitivo. L'espressione del viso era quella della fine di ogni discorso. Non ammetteva repliche.
«Niente…» cedevo arrendendomi.
Non ho mai capito fino in fondo perché avesse aspettato tanto, prima di accompagnarmi. Mio fratello Leo c'era andato quando era più piccolo di me. Forse era un modo per proteggermi, forse mio padre si era pentito di averlo portato così presto e non voleva ripetere lo stesso errore con me. In effetti, da quando Leo era stato alla cattedrale, era cambiato. Era diventato più taciturno, a volte si isolava nei suoi pensieri, come fosse distante miglia e miglia. Erano momenti brevi e nemmeno così frequenti. Quasi nessuno se ne accorgeva, in verità. Poi, come se si risvegliasse da un sonno, ricominciava a fare quello che stava facendo. Era come se, in pochi secondi, compisse un viaggio lunghissimo nelle profondità della propria coscienza per poi riemergere come niente fosse, portando solo dentro ai suoi occhi un lieve velo del proprio io. (…)





Simone Zanin (Pordenone, 1977) ha pubblicato diversi libri di poesia e prosa poetica, tra i quali Ultima notte alla collina di Megiddo (Raffaelli) nel 2012. Del 2013 è Nuova Vandea (Officine Ultranovecento), scritto con S. Adernò, M. Baj e G.R. Manzoni. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo Arbeit macht frei (Guaraldi). Vive in provincia di Modena.



«L’autore di questi racconti ha una lucida capacità descrittiva. Le scene, gli avvenimenti, scorrono davanti agli occhi come di fronte allo schermo di un cinema. La scrittura è fluida, ritmica, consapevole uso della punteggiatura. C'è sempre un’atmosfera poetica, si legge ogni parola con piacere. Ho particolarmente amato il primo racconto: Orchestrata sapientemente la ricerca della verità di un bambino curioso. Dopo appena dieci righe ero lui. Immedesimazione totale. Ma più di tutto mi ha colpito l’armonia di questi racconti, che si fanno leggere e amare non per trovate sensazionali e colpi a effetto, ma per la fluidità della scrittura, il pudore delle storie raccontate, la volontà di dire qualcosa d’importante, di lasciare una traccia di bellezza nel cuore dei lettori.» (Massimiliano Bardotti)



«Il viaggio sembra essere il filo rosso che lega questi racconti. L’architettura narrativa è sempre solida, quasi circolare. Tuttavia, non è tanto l’impianto narrativo a catturare il lettore, ma la meraviglia del viaggio, i particolari puntuali eppure sognanti e irreali dei paesaggi. Il viaggio trapassa dall’attesa al ricordo, è ricerca di senso, ricerca di sé, intravista, elusa, raramente compiuta. Restano le immagini del viaggio, colte quasi in uno stesso istante dal lettore e dai personaggi in cammino: l’arco infinito delle foglie autunnali in cui si perde la figura incerta di una ragazza inseguita e mai conosciuta, le notti ventose del deserto “dall’odore agrumato”, il “fumo azzurro e denso” del the, le vetrate della cattedrale nella “veste azzurra del mattino”.» (Natascia Ancarani)



«Che belle storie, di viaggi e spostamenti del corpo e dell’anima. Dove la vetta non è altro che un segno sulla mappa, per accompagnare l’alfa con un omega, e per pensare di avere tutto sotto controllo. Riecheggia il ricordo della mia prima escursione; il silenzio di mio padre e i consigli lasciati a mio nonno; la cura e la consapevolezza del passo. Tutto per essere pronto a toccare la Croce con la massima decenza possibile.» (Stefano Martello)



«Storie un po’ fuori dal tempo che raccontano i passaggi dell’animo umano di ogni tempo. Allegorie del perdere e del trovare, dell’immaginare, del sognare che… Allegorie di quel cammino misterioso che è la vita.» (Nino Di Paolo)



«Architetture di un cammino che ti prende e non ti lascia: alla ricerca di quella bellezza che tiene insieme la verità. Lo guardi da lontano e ti affascina, ti attende giusto il tempo di cui hai bisogno. Ti accorgi che per realizzarlo hai bisogno di tratti indeterminati.» (Adalgisa Zanotto)





II. classificati ex aequo



Mestieri di Barbara Rosenberg (Milano)



Il pittore



La mamma dice che papà è un fallito.
Tutte le mattine a colazione glielo ripete.
Io intanto mangio i biscotti e gioco a sub.
Papà ha inventato questo gioco. Bisogna intingere un biscotto nel latte e farlo uscire intatto. Se si rompe o diventa poltiglia il sub muore e si perde un punto.
A me e a papà non piacciono le poltiglie.
Alla mamma sì.
Quando sente la parola fallito, papà si gratta il mento e diventa triste.
Rimane in silenzio e smette di mangiare.
Io vorrei dirgli che non è vero, che lui è un papà bravissimo, ma non riesco a farlo, perché non mi guarda.
La mamma continua a parlare da sola e dice che è stufa e che se non lavorasse lei la nostra famiglia andrebbe a rotoli.
Papà allora sorride e disegna nel quaderno verde, che è sempre sulla tavola, una casetta travolta da rotoli giganti di carta igienica.
Io rido e la mamma si arrabbia ancora di più.
Papà disegna sempre, lo fa per lavoro. Ma la mamma dice che fare i quadri non è un vero lavoro e che gli artisti non dovrebbero sposarsi.
Però, quando erano fidanzati, le piacevano i suoi disegni.
Lui la ritraeva come una fatina con i capelli rossi e le lentiggini. E anche adesso, quando non è truccata, le lentiggini si intravedono.
Ora però lui non la ritrae più, non so perché.
Una volta papà mi ha confidato di fare un altro lavoro.
Io ho promesso di non dirlo, neppure a Federico, perché potrebbe essere pericoloso.
Papà è un supereroe.
Di notte, quando i cattivi compiono rapine e omicidi, lui interviene.
Indossa una tuta nera e dorata, mette la maschera per non svelare la sua vera identità e si cala dalla finestra.
Nessuno lo ha mai visto, ma io so che è vero: al mattino ha sempre i capelli in disordine e il pigiama non stirato, perché di notte ha indossato il travestimento da supereroe.
La mamma dice che è trasandato, ma se sapesse che avventure deve affrontare!
Una volta ha dovuto ammanettare due ladri a un lampione. Ne ha messo uno K.O. con un pugno e ha fatto lo sgambetto all’altro. Poi ha chiamato la polizia e si è nascosto.
Un po’ come l’Uomo Ragno.
Papà dice che Devil, Iron man e l’Uomo Ragno hanno dei bambini come me e che ogni tanto tra supereroi si trovano sui tetti a parlare dei propri figli. Si preoccupano se loro si ammalano e se non fanno i compiti, come fossero papà normali.
Per questo io cerco sempre di non prendere il raffreddore e di essere bravo a scuola, papà ha già tanti problemi. (…)

Barbara Rosenberg è nata a Milano nel 1971. Ha studiato scrittura creativa, frequentando laboratori di Raul Montanari e i corsi presso la Scuola Civica Paolo Grassi di Milano. Ha vinto il concorso “Pubblica con noi” con la raccolta di racconti Piccolo canzoniere di città (Fara 2005). Ha pubblicato Storie con un altro finale (Fara 2007) e La sedia di Nettie nel volume Ilfilo di Eloisa: vite da raccontare (LietoColle 2010). Nel 2006 ha fondato l’Associazione culturale Equinozio, di cui è vicepresidente e si occupa della programmazione delle attività culturali relative alla narrativa e poesia. Convinta dell’importanza di unire arte e educazione, nel 2011 ha conseguito la sua seconda laurea in Scienze dell’educazione, a indirizzo interculturale, all’Università di Milano Bicocca.



«Volenti o nolenti. Consapevoli o inconsapevoli. Ma è così. Il mestiere che abbiamo scelto, il mestiere che ci ha scelto, diventa specchio della nostra vita. Legittimazione del nostro (saper) stare al mondo. Che non è lineare. Che non contempla il Bene e il Male ma solo una poltiglia di colore indefinito. Diciamo un grigio indistinto. Sono racconti semplici, autentici, sintetici, spietati. Nell’intercettare quella distorsione di cui, prima – quando nessuno ha ancora scelto, quando niente ti ha ancora scelto – nessuno parla mai.» (Stefano Martello)



«I racconti. Ed in ogni racconto uno spaccato nei nostri lati bui e dell’ “eroismo inconscio” di molte nostre   azioni. In ciascuno un finale a sorpresa, spesso amaro ma sempre verosimile. Fantasia e realtà mai disgiunte.» (Nino Di Paolo)





Terraaagònia di Giorgio Massi (Ascoli Piceno)



Cap 1

Terraaagònia è un paese fantasma incastonato tra le sinapsi. Un luogo immaginario dove pulsa un’unica passione: il tennis.



È venerdì, ho in calendario una seduta dal mental coach. L’ennesima.

L’ansia da prestazione sul rettangolo ormai è diventata un giro di boa, inteso come serpente.

Scarico l’ansia inghiottendo aria.

Ho appuntamento alle ore 11.

Arrivo con anticipo da cardinale.

Parcheggio l'auto e m’infilo in un bar.

I camerieri sono gentili, il proprietario lo è meno.

“Vuoi l'acqua?” mi dice con faccia gutturale.
Non gli rispondo, mentre continuo a guardare il soffitto.

Asciugo con le labbra la tazzina che puzza di rancio.

Ascolto i commenti dei presenti.

Alcuni parlano delle recenti tragedie che hanno colpito il paese.

Altri evocano l’arrivo dei salmoni di fiume.

Altri prospettano un immediato cambio di governo.

Qui non si ciarla di sport.

Calcolo dieci minuti prima dello start up.

Raggiungo l’ambulatorio all’interno di un cortile.

È una specie di “hortus clausus” come direbbe un mio amico iberico.

Sono dentro.

Il professionista tarda ad arrivare.

Si presenta nello studio con calma rassicurante.

Lo saluto con il bavero dell'occhio attorcigliato.

Ci sediamo. L’uno di fronte all'altro.

La stanza è colorata come una sala indiana da tè.

Ci sono immagini sacre affisse alle pareti.

Mi piazzo nel punto dove si sfogano i tennisti demotivati.

A 43 anni e 4 mesi sono convinto di non decollare nella classifica ignobile.
“Resterò a vita nei bassifondi” dico.
“Sei troppo fragile” risponde lui.
Mi auto-assolvo descrivendo i miei pensieri in modo caotico.

Il professionista sbadiglia per riflesso.

È un puro di cuore che odia lo sport.

Tira pugni ad ogni mia apertura di stomaco.

Dopo un'ora scappo da quel guscio di riflessioni.

Il cane del vicino spiattella alla mia uscita un ululato di fastidio.
Il padrone è un agricoltore con il vizio della meccanica.
Il suo garage è un'officina al buio.
Gli manca soltanto l'insegna al neon, stile motel per assassini. (…)


Giorgio Massi è nato ad Ascoli Piceno nel 1973, maturità classica, laureato in Giurisprudenza. Appassionato di cinema, musica rock e letteratura moderna. Si interessa di scrittura creativa e iniziative culturali.



«Ho apprezzato di questo racconto lo stile coerente: una sintassi franta, quasi analogica, ricca di metafore originali. Altrettanto coerente è il tema, già annunciato dal titolo: il gioco del tennis rappresenta una condizione umana, dove esistenze isolate entrano in rapporto e si riconoscono solo sul terreno di una momentanea lotta. Si esiste solo nel dolore e nella fatica di emergere, nello sguardo dell’avversario che soccombe o vince. Non c’è tavolata a cui sedersi in compagnia, verzura, terra verde e vitale che possa nutrire veramente. La terra rossa, terra bruciata, sangue e agonia, è l’unico campo di incontro e scontro, a cui sempre il protagonista ritorna, come un’ossessione, per sfuggire alle notti di gelo che scandiscono, nel passaggio da un anno all’altro, il tempo dell’esistenza umana.» (Natascia Ancarani)



«Interessante e anche divertente flusso di pensieri. Ho cominciato a leggerlo un po’ svogliato, con pregiudizio a partire dal titolo, per poi leggerlo fino alla fine senza pause, d’un fiato, come forse è stato scritto, come forse andrebbe letto, senza mai noia e anzi, scoprendomi mio malgrado compiaciuto. E poi, insomma, il racconto inizia così: Terraaagònia è un paese fantasma incastonato tra le sinapsi. Un luogo immaginario dove pulsa un’unica passione: il tennis.  E finisce così: Il tennis è il primo pensiero dell’anno. E a me il tennis piace.» (Massimilano Bardotti)




III. classificato



Come un padre di Giovanni Mangarelli (Trento)



Appena entrato in casa di Roberto, non ci ho pensato più di un attimo e mi sono sbracato spudoratamente sulla poltrona vuota. Malgrado il caldo di questo pomeriggio, per fortuna, in questa stanza si sta relativamente freschi e ne approfitto senza imbarazzi. La finestra aperta dà sul piccolo orto, al riparo dal sole e lontano dalla strada, non arrivano rumori molesti, solo ogni tanto il verso di qualche animale da cortile o il canto di un uccello. Sembra che l’unico in attività in tutto il paese in questo momento sia Tonino, il fabbro, che ritmicamente batte sull’incudine, ma il rumore è piuttosto lontano, arriva attutito alle mie orecchie.
Sarebbe il momento ideale per una pennichella pomeridiana, ma non sono a casa mia e Roberto riesce a fare casino anche quando gioca a carte con suo nonno Giuseppe. Ogni volta che fa scopa, come un bambino, sbatte rumorosamente la carta sul tavolo e urla il punto come se il suo avversario fosse sordo. Purtroppo, invece, ha l’Alzheimer, ma è nella fase iniziale, al momento è in una situazione  relativamente tranquilla. È vero che dimentica già alcune cose, ma per fortuna è ancora in grado di riconoscere le persone e quindi anche quel debosciato del nipote che, tra parentesi, non sarebbe in grado di badare a se stesso, figuriamoci ad un’altra persona. Fino a poco tempo fa la situazione era praticamente al contrario, è stato sempre il nonno a occuparsi di Roberto e di suo fratello Enzo che hanno perso il padre da piccoli, il secondo in pratica non lo ha mai conosciuto visto che aveva solo pochi mesi quando è morto. Insieme alla madre, sono stati accolti quasi subito dal nonno ed hanno sempre vissuto con lui, per questo è naturalmente considerato dai due fratelli come un padre. Oggi però non deve essere una delle sue giornate migliori, questa è la terza volta che chiede a Roberto:
- Ma perché non c’è nessuno in casa? È successo qualcosa?
- Nonno, sono andati tutti alla veglia funebre.
- Ma chi è morto?
- Alfredo, tuo nipote.
- Alfredo?
- Il figlio più grande di tuo fratello.
- Madonna, era così giovane …
A questo punto, a Roberto scappa da ridere, il parente defunto aveva più di 70 anni e per Roberto a 50 si è già nel pieno della vecchiaia. Non è riuscito a trattenersi, non immaginando sicuramente la reazione del nonno. (…)

Giovanni Mangarelli, nato a Napoli, l’11 novembre 1969, residente a Trento. Scrive racconti dall’adolescenza, alcuni pubblicati su riviste letterarie, altri con diverse case editrici su antologie legate a concorsi letterari.



«Una storia semplice e sobria. Una amicizia semplice, in un luogo dove tutti si conoscono. Dove il dolore di uno è ancora il dolore di tutti. Dove la battuta – che, come tutte le battute, deve essere sempre pesante – proviene da una finestra aperta di cui non temi nulla. Anche chi scrive – come molti in un mondo abituato a dopare il cervello per poi lasciarlo improvvisamente in astinenza – si è arrabbiato per non essere stato riconosciuto. E ha dovuto fare i conti con una città dove guardi con sospetto alla finestra aperta e dove – alla battuta che ti piove addosso – rispondi sempre con un vaffa alto e tonante. Per precauzione e per far sapere che il tuo getto di pipi è sempre il più potente di quella via anonima.» (Stefano Martello)



«La convivenza quotidiana con la sofferenza della malattia o anche “solo” della malattia da invecchiamento è lo sfondo di questo racconto dove l’unica via di uscita è quel sentimento che, al giorno d’oggi, pare “demodè” : l’amicizia. Ci si vergogna ad ammetterlo; non se ne vergogna l’autore, che lo mette in risalto con tenera poesia.» (Nino Di Paolo)



«Un giorno sarai adulto? E dopo cosa c'è? Righe incalzanti, coinvolgenti, piene di forza, dentro la partita della vita che lascia sempre margini di crescita.» (Adalgisa Zanotto)



opere votate



Finestra di Marco Bertoli (Pisa)



«Riferite al vostro signore Jacopo che il prossimo martedì, subito dopo aver pregato l’uffizio mattutino, noi e il cardinale Riario partiremo per raggiungere la sua villa di Montughi. Abbiate inoltre sollecita cura d’informarlo che il piano procede come stabilito» esclami con alterigia all’indirizzo del messaggero in piedi davanti allo scranno sopra cui sei accomodato. L’uomo assomiglia a un palo da vigna ricoperto di pece tanto è alto e ossuto nei suoi abiti dalle sfumature di neri cumuli temporaleschi.
«Sarà fatto come vostra eminenza comanda» ti risponde una voce il cui timbro risuona affilato quanto la lama di uno stocco. «Troverete a ‘La Loggia’ tutto apparecchiato per accogliervi al meglio e soddisfare le esigenze vostre e quelle del vostro accompagnatore».
Annuisci compiaciuto, assaporando la dolce e appagante sapidità del potere. Passa il tempo ma non ne sei mai sazio pur se non tralasci occasione per abbuffarti al suo banchetto. La tua ingordigia, anzi, è aumentata con il trascorrere degli anni sino a diventare il faro che guida la galea della tua vita, la tua stessa ragion d’essere al mondo.
Porgi l’anello simbolo del tuo status per ricevere il dovuto saluto cerimoniale ma rimani come un idiota con la mano sospesa: una testa dai lisci capelli corvini si limita a un leggero inchino della fronte prima di ritirarsi e uscire dalla stanza.
Arricci con una smorfia di disappunto i baffi biondicci che disegnano una linea sottile sopra il contorno delle tue labbra carnose. Ecco che cosa si ottiene a mettere da parte la propria condizione d’aristocratico per giocare con gentaglia in grado solo di menare le mani: se non prevali, la sconfitta ti ruba il rispetto oltre che il denaro!
«Che il diavolo ti porti!» è il tuo augurio di felice ritorno a casa per il corriere.
Lanci uno sguardo fuori dai vetri bagnati della finestra.
Nell’umido abbraccio della pioggerella primaverile i marmi chiari della tua cattedrale rifulgono di splendore ma non apprezzi lo spettacolo. Al contrario! La nostalgia per un duomo dalle vesti colorate è un succhiello che ti trapana lo stomaco.
Alla vista, poi, del campanile che pende da un lato come un marinaio ubriaco sbotti in un commento sarcastico: «Pisani buoni a nulla! Non siete stati nemmeno capaci di tirare su una torre diritta. Meritate il destino che è toccato in premio alla vostra superbia».
Un moto di rabbia ti divampa improvviso nell’animo. (…)

Marco Bertoli è geologo. Vive a Pisa. Il suo romanzo La Signora chevedeva i morti ha vinto il Premio Scrittore Toscano 2012 selezione on-line e quello della Giuria al Concorso “Città di parole”, 2013. Nel 2014 ha pubblicato il secondo romanzo L’avvoltoio. Delitti all’alba della scrittura, nel 2015 Gilgamesh. La storia di un eroe sumero, una riduzione del poema originale sumero con illustrazioni di M. Sesti, l’antologia cartacea Eroina suo malgrado e le antologie epub Frammenti di vita e Delitti nella Storia. Nel 2016 ha pubblicato, insieme alla figlia Serena, Ivano.Il cavaliere del leone, una riduzione del poema originale cavalleresco con illustrazioni di A. Bálint. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo ‘Steampunk’ 1886. Quando le Lunatermiti invasero laTerra. Suoi racconti sono inclusi nelle antologie “365” Delos Books, Ali pubblicato su Romance Magazine 13, - 40°C su Terre di confine Magazine 1, Processione sul Writer’s Magazine (41), Lampo nero su Il lettore di fantasia (5) e Pesca delittuosa sul (10). Numerosi altri hanno vinto concorsi, o classificati finalisti, e pubblicati in oltre centodieci antologie.



«Il racconto tratta del fatto storico detto “La congiura dei pazzi” e lo fa in modo originale e avvincente… Scrittura dai ritmi alti che tiene il lettore ancorato allo svolgimento della trama. L’uso della seconda persona (molto efficace) costringe il lettore a immedesimarsi col protagonista (disegnato egregiamente) e provoca sensazioni controverse. Ben scritto.» (Massimiliano Bardotti)





Odradek di Roberto Morpurgo (Bulgarograsso, CO)



Die Sorge: Kafka dice proprio così - né si limita a dirlo. Il termine che alcuni rendono con cura, altri con non minore arbitrio mutarono in cruccio. Proprio così, a detta di costoro, Kafka avrebbe intitolato la vicenda di Odradek (sebbene lui, Franz, non scrisse mai Il cruccio del padre di famiglia ma invece e certo altrettanto impropriamente Die Sorge des Hausvaters). Il solo a ricevere in quel caso un nome proprio - e a non vedersi così tradotto (ridotto come già era ad un groviglio desolatamente privo di identità) - è lui, Odradek. Anonimo dunque, il padre soffre, al punto da commutare quel cruccio, in sé  banale e ovvio, in un più severo e impegnativo corruccio. Per cosa, infine? Un agglomerato di materia semmai più informe e negletto - se possibile - del già meno sventurato Gregor Samsa. Ma le cose vanno sempre così. Di mattone in mattone e di parola in parola - prima o poi si arriva al tetto: e cosa garantisce che sia sempre un cielo azzurrino? La nostra ipotesi è cresciuta come una nube, docile e bensì non asservita preda dei capricci astrali. Padre o non padre, quel che allora fece la differenza fu il figlio: il frutto. Tanto orrore scaturì dal nome di Odradek quanto dovette suscitarne il portatore al tempo della sua cagionevole origine. Di cosa poté mai trattarsi, dunque, se all'Odradek venne inflitto un nome tanto patetico e spigoloso - malgrado il deplorevole ammiccamento della vocale con cui si piccava di esordire -  da finire sulle bocche di tutti come la sola caricatura possibile dello scioglilingua nonché l'unico esercizio efficace nell'addestramento dell'oratore alla raffinatissima arte della balbuzie? Né mancarono - oh, se non mancarono! - quanti si votarono all'aspro cimento dell'anagramma; della variazione combinatoria: della mera e tanto più insolente ripetizione. Sino a quando - esaurite le forze, prima delle possibilità - si arresero. Alla cruda evidenza, Odradek era - nel nome come nel corpo - una combinazione criptata, e di quella infelice serratura, la chiave era ormai perduta. Chi in cuor suo, in appendice alle due scarse pagine che l'autore di quel suo padre putativo volle dedicare all'inconsueto nipote avrebbe osato, anche soltanto per scommessa o invece non più che per intrattenere una prostituta di periferia alle prese con un astuccio di rossetto restio a concedere la sua rossa prominenza, congetturare, a titolo di esempio, che sotto l'inedita complessione di Odradek si celasse come un fossile intimidito dai microscopi un ben più leggiadro Kodarde?



Ecco un buon momento per congedare Franz Kafka. (…)


Laureato in filosofia, Roberto Morpurgo scrive poesie, aforismi, saggi, racconti, soggetti cinematografici, pièces. Ha pubblicato con Joker L’azzurro del mare (poesie) e Pregiudizi della libertà I (aforismi); con Puntoacapo El Djablo (racconti). Ha diretto per la scena e per la radio i suoi atti unici Tubor e L’Autoritratto (edito poi in volume da Falsopiano, 2013). Per Schegge d’Autore (RM) e La corte della Formica (NA) ha curato nel 2008 la messinscena e la regia del suo monologo L’Isola. Al teatro Tordinona di Roma ha allestito e diretto le sue pièces Bogey (2009), L’Appello (2010), Pioggerellina nella stanza (2011), L’Intervista (2012). Ha vinto il concorso La vita in prosa 2012 con il racconto Muette, e con il libro Pregiudizi della libertà I-II il Premio Città di Como 2015 e (ex aequo) il Premio Torino in sintesi 2016. Monte Conero è inserito come finalista nell’antologia Racconti Marchigiani (Historica Edizioni 2016). Con Fara ha pubblicato nel 2017 la raccolta di racconti Lodola.  Mail: oceluspide@gmail.com



«La forma è ibrida, sperimentale, mescola diversi linguaggi, il personaggio principale del testo è, in un certo senso, extratestuale, dunque fin dall’inizio inafferrabile. Nulla favorisce il lettore che si immerge nel groviglio solo per intelletto e conoscenza, attratto dai giochi di parole, dai rimandi culturali che il testo ricama. Eppure, pazientemente, dalla complessa costruzione linguistica, gli occhi dipanano nuove immagini e nuove avventure, stupefacenti frammentazioni e trasformazioni, linguistiche e non, dell’antico personaggio: quando, ad esempio, Odradek sconfina e si accomoda in un nido di rondini, si trasforma nel suono di un registratore o di un petardo, in orde maschili o femminili. Sempre indefinibile e viandante per eccellenza.» (Natascia Ancarani)





Come una dea di Paola Lena (Ardea, RM)



Me la ricordo affacciata alla finestra che dava sulla campagna sterminata. Il suo sguardo vagava tra il verde dei prati alla ricerca di qualcosa che aveva perso da tempo. Passava le ore a inseguire il volo di un uccello o il ronzare di una vespa solitaria.  Osservava l’insetto nel suo tentativo ostinato quanto vano di entrare in casa, impedito dalla fitta rete della zanzariera.  Lei non provava  nemmeno più a cacciarlo via, lo guardava e basta. Poi volgeva lo sguardo altrove, si riempiva gli occhi di cielo e il cuore di vento. Adorava osservare la danza degli alberi, quando soffiava il libeccio caldo e non staccava gli occhi dalle nuvole,  quasi che volesse saltarci sopra,  per cavalcare l’orizzonte.  Di tanto in tanto si muoveva a scatti, come chi è indeciso sul da farsi e vorrebbe prendere e andare via ma è bloccato da non si sa quale impedimento.  Altre volte si allontanava per bere un po’ d’acqua o piluccare del cibo, ma alla fine ritornava sempre davanti a quella finestra, a guardare il cielo e i prati, gli uccelli e le nuvole.
Me la ricordo la prima volta che ci incontrammo: era così piccola e indifesa, diffidente e schiva, circondata dai suoi fratelli, controllata da lontano da sua madre e le sue zie. Non appena mi vide,  scappò. Andò a nascondersi dietro un mobile, in cucina, col terrore negli occhi. Io l’avevo vista rifugiarsi lì, ma non mi ero mossa, ero rimasta impalata di fronte alla padrona di casa, incapace di fare o dire alcunché. Avevo giusto accennato un sorriso.
Alla fine un tizio l’aveva tirata fuori di peso, afferrata con decisione e spinta verso di me. Tra le braccia dell’uomo non aveva fatto resistenza, né si era lasciata sfuggire un lamento. Mi aveva guardato con quei suoi occhi grigi spauriti e io mi ero sentita impotente e inopportuna. L’avevo portata via.
A casa erano tutti svegli ad attendere il suo arrivo, trepidanti di emozione e curiosità. Era bella. L’avevano detto tutti in coro. Bella. Come una dea.
Si chiama Diana, annunciai loro.
Ero sicura che si sarebbe ambientata in fretta, pronti come eravamo a volerle bene, ad accoglierla con affetto e coccolarla, ero sicura che sarebbe entrata a far parte della nostra famiglia senza difficoltà, con allegria. E così sembrò accadere, sin dai primissimi giorni: era dolce, gioiosa, vivace. Eppure a volte la sorprendevo con la mente altrove, distante, il corpo immobile, catturato da un pensiero fugace, passeggero. E allora raggiungeva la finestra e rimaneva lì, tanto di quel tempo, a guardare fuori e a riempirsi gli occhi di verde e di azzurro e guai ad avvicinarsi, guai a tentare un approccio: quasi sempre, al mio farmi vicina,  scappava via.
L’ho sempre sentita distante, non si è mai fidata di me, ero stata io a portarla via, in fondo, a strapparla dall’amore dei suoi cari. Poco importava se viveva nella sporcizia, se i ragazzini la torturavano, se doveva dividere sua madre con i suoi cinque fratelli. Quella era la sua casa, quella era la sua famiglia ed io un  mostro becero  e crudele,  che l’aveva separata da loro.
Me la ricordo di spalle, la sua figura in controluce, che contemplava il tramonto dalla finestra sul lato ovest della casa, sembrava volesse rincorrere il sole, tuffarsi nel rosso del suo inesorabile declino. Aveva un’espressione così triste, sofferente. Sembrava una prigioniera in una gabbia d’oro, un ostaggio in balia dei suoi carcerieri. (…)

Sono una donna di quarantanove anni, madre di tre ragazzi di diciassette, quattordici e undici anni. Nel 1988 mi sono diplomata come perito turistico e fino al 2007 ho lavorato per un villaggio turistico, continuando a scrivere per diletto o per sfogo, riempiendo di inchiostro pagine e pagine di vecchie agende rimediate qua e là.  Dopo aver perso  il lavoro questo bisogno  si è fatto più forte, ho iniziato a scrivere dei racconti e a rimpiangere di non aver scelto gli studi classici, come voleva mia madre. Di me dicono che sono idealista, anticonformista, buona e gentile, forse lo ero un tempo, prima di conoscere le brutture di un ambiente di lavoro che frequento da tre anni e al quale non appartengo, anche se ne subisco la negatività. Nella mia attività di raccontatrice di storie ho all’attivo diversi racconti, alcuni premiati in concorsi letterari, altri pubblicati in raccolte a tema. Ho pubblicato anche due romanzi collettivi. L’ultimo è uscito il 23 aprile 2016 con il titolo Bestseller, cronaca di una vendetta, edizioni Il Viandante che abbiamo scritto in dieci e che più che collettivo sarebbe  da definirsi “sinergico” per il modo in cui abbiamo lavorato insieme, senza mai incontrarci di persona.



«Racconti "dentro" i giorni della gente che ci vive accanto. La conferma del bene che gira e che non si vede: che bello poter accorgersi che ognuno cerca il meglio di sè e degli altri.» (Adalgisa Zanotto)



Segnalazione



Isole Salomone di Giuseppe Caridi (Pontetaro di Noceto, PR)







“Welcome to the Solomons!!! You find yourself in a really different place!…” Eccomi  appena atterrato proveniente da Brisbane al termine di un lungo volo proveniente da Milano via Dubai, e il mio primo contatto con le Isole Salomone si verifica ovviamente al cospetto dell'ufficiale di frontiera che mi rilascia il visto di ingresso. A voler essere sinceri il primo vero benvenuto in questo arcipelago dell'Oceano Pacifico, che a differenza dei più famosi paesi vicini solo ora sta iniziando ad imporsi tra le mete d'elezione di viaggiatori esigenti, mi è stato offerto da un gruppo di musicanti che , come avviene del resto in altre località della zona, accolgono i passeggeri strimpellando l'ukulele, il tipico strumento a corda  diffuso in tutta l'area del Sud del Pacifico. Ma è una sorpresa che, appunto, cessa di essere tale dopo un certo numero di volte che se ne fa esperienza: la prima volta che si ravvisano gli entusiasti suonatori, appena dopo l'atterraggio, ci si sofferma sulle loro camicie sgargianti, sui pantaloncini corti, sul sorriso spontaneo, sulla lieta melodia. Vissuta poi ad ogni atterraggio ( in quasi tutti gli aeroporti internazionali delle isole situate nel Pacifico i viaggiatori vengono accolti da una banda che riproduce le ballate caratteristiche della regione), l'esperienza assume il solo valore di tonificare un pochino il corpo e lo spirito al termine di un volo protrattosi molto a lungo e intervallato da interminabili soste e cambi di aeromobile.

Ma prima di espletare le formalità di rito, l'uomo che già mi ha accolto con un contegno informale, esordisce con una formula di benvenuto che inizialmente appare nient'altro che una furbesca  frase rituale rifilata agli stranieri da parte di un ente del turismo avvezzo ad ammaliare i visitatori. Ogni località turistica tende infatti a presentare sé stessa come unica e imparagonabile. Ringrazio dunque l'uomo in divisa dimostrando un contenuto entusiasmo, tuttavia riconoscente per l'accoglienza riservatami: quando si sbarca dopo un lungo volo in un paese straniero un qualsiasi sorriso di benvenuto è sempre un toccasana di valore incalcolabile per un passeggero affaticato dal viaggio. Ma su ogni altro aspetto prevale la gioia  di trovarmi nuovamente nel Pacifico, e ancor più in questo arcipelago al largo del quale Hugo Pratt ha presentato ai suoi lettori per la prima volta Corto Maltese ( lo stereotipo di viaggiatore contraddistinto dall'irrequietezza innata del nomade, il marchio di fabbrica che tutti noi vorremmo poter esporre), che promette avventure superlative, incontri accattivanti ed immersioni di livello incomparabile.
Tuttavia, quando ti ritrovi alla frontiera, quale che sia il paese visitato, finché il servitore dello stato che scorre tutte le pagine del tuo passaporto non si decide ancora a timbrarti il via libera, ti senti un po' come se fossi stato colto in mendacio flagrante: i visti dei vari paesi mediorientali inducono spesso gli ufficiali di frontiera al sospetto nei miei confronti, un viaggiatore individuale col passaporto ricolmo di visti poco comuni ( in Australia ho dovuto indicare al mio interlocutore su Google Map dove si trovava il Nagorno-Karabakh…) a quanto pare desta qualche sospetto. Ma questa volta le pratiche vengono espletate rapidamente, ottengo il permesso ufficiale per restare nel paese il periodo voluto e mi accingo a recuperare il bagaglio, affrontando così il secondo momento ad alto rischio cui ogni viaggiatore a lungo raggio si trova giocoforza esposto: l'attesa  di fronte al nastro trasportatore! la valigia, ancora, non arriva… l'avranno smarrita? (…)


Sono laureato in Giurisprudenza a Parma, dove vivo e lavoro come impiegato di banca. Sono un appassionato di viaggi – ho visitato più di 150 paesi e tutte le aree geografiche del pianeta – e ho deciso di scrivere un libro relativo ai miei viaggi.



«Considero il memoriale una forma a sé, ben distinta dal racconto e dal saggio, in quanto tale dovrebbe essere valutata insieme ad altri scritti dello stesso genere. Segnalo quindi il memoriale di viaggio sulle isole Salomone come un testo a parte che può rivestire un valore di documentazione e di esperienza. È un testo dal linguaggio sobrio, ma accurato. Il viaggio compiuto è raccontato in modo onesto e completo; con quello stupore che sempre si prova di fronte alla meraviglia del nuovo. Mi auguro che il testo trovi una collocazione adeguata, pubblicato a puntate in una rivista di viaggi o nelle pagine web di un blog specializzato, accompagnato da quelle foto, certamente esistenti, che il lettore ha quasi creato da sé, durante la lettura.» (Natascia Ancarani)

1 commento:

Paola Lena ha detto...

Grazie mille per il riconoscimento. Sono soddisfazioni che spronano a fare sempre di più. E l'emozione che si prova, nutre!