giovedì 28 gennaio 2016

DARE IL PANE A CHI NON HA I DENTI




Se qualche lettore pensa che la storia che sto per raccontare non sia vera, sappia subito che si sbaglia.
La signorina Margareth non poté rispondere. Rispose, per lei, la madre. “Sono il notaio Harbord. Siete convocati nel mio studio, domani, alle 11!”. “Saremo puntuali!”, rispose la signora Aubyn.
La signora e il signor Aubyn erano, entrambi, figli unici e tutti e due avevano ereditato cospicui patrimoni immobiliari che fruttavano rendite tali da consentire loro di non svolgere nessun tipo di lavoro. L’unica occupazione: la loro unica figlia Margareth. Il resto del loro tempo era completamente assorbito da un attento e meticoloso controllo dei registri contabili, delle entrate e delle uscite. Nonostante la loro ricchezza conducevano una vita semplice, scevra di mondanità e di sprechi. Nulla veniva buttato, anzi tutto veniva riciclato, rammendato. Il personale domestico, con tacito accordo, veniva spiato da entrambi soprattutto nell’uso delle dispense collocate nel seminterrato della grande magione. Per questo motivo, non esistevano quantità abbondanti, ma solo moderate. Ecco: “Moderazione”, era il vero motto dei coniugi Aubyn. Però, non li si poteva accusare di avarizia. No, non erano avari. Almeno questo!
Solo circa un mese prima erano stati convocati, sempre dal vecchio notaio Harbord, per la lettura di un testamento a favore della loro unica figlia la signorina Margareth. Un lontano zio, scapolo e molto ricco, Sir Prescot, aveva lasciato i suoi allevamenti di bovini da latte e di cavalli purosangue da corsa alla sua unica nipote: la signorina Margareth. Il testamento a suo favore, come erede unica e universale, non fu per i signori Aubyn una sorpresa. Infatti, conoscevano la volontà di Sir Prescot da oltre tre anni tramite una sua lettera nella quale, questo loro pur lontano parente, li informava che prima di giungere la sua morte, che sentiva ormai prossima, aveva sottoscritto il suo testamento a beneficio della “piccola Marga”.
Anche in questa occasione, come in altre, avevano saputo attendere. In questi casi saper attendere che ci scappi il morto è quasi tutto. Dopo la lettera, nei riguardi del lontano Sir Prescot, non si erano mai lasciati andare in eccessi di affettuosità. Sir Prescot aveva ricevuto da loro solo una breve lettera di presa d’atto della sua volontà e di ringraziamento. Nulla di più. Morto tre anni dopo la stipulazione, il povero cadavere del ricco Sir Prescot non fu accompagnato né in chiesa né all’adiacente cimitero dalla famiglia Aubyn che davanti a parenti e conoscenti giustificarono la loro assenza con un telegramma che telegraficamente registrava la scusa della lontananza e, quindi, del viaggio troppo lungo e faticoso. Sir Prescot, che era tipo da non offendersi facilmente, pare che anche in questa occasione non si sia offeso e che, comunque, fu sepolto e la signorina Margareth divenne ancor più ricca.

Ma la fortuna della signorina Margareth, ormai quasi di dominio pubblico, sembrava non avere limiti. Infatti, oltre un anno prima era morta improvvisamente in una sperduta provincia della lontanissima India l’unica sorella della defunta madre del signor Aubyn. La signora Crosland, vedova, senza figli, del signor Crosland, possedeva una miniera di rubini e una d’oro. All’apertura del testamento nello studio londinese del notaio Bankes, i signori Aubyn ebbero la gioia di apprendere che la zia Sarah aveva intestato le sue miniere alla loro figlia Margareth “affinché – così recitava l’atto – i futuri proventi di queste assicurino una aristocratica educazione alla nostra cara nipotina Marga”. Si dice che la defunta signora Crosland non abbia mai visto neppure una foto della “cara nipotina Marga”.

Dunque, nel breve tempo di pochi anni la signorina Margareth aveva accumulato un patrimonio tale da fare invidia persino a Lord Grosvenor e a molti altri ricchissimi aristocratici inglesi.
Anche alcuni vicini parenti provavano e manifestavano un sincero sentimento di invidia e di rabbia, soprattutto, per non esser mai stati né baciati né sfiorati dalla stessa fortuna della signorina Margareth pur potendo rivendicare diritti, anche se a dire il vero molto deboli, sui citati testamenti. Le loro giuste attese e aspirazioni furono tutte e sempre tradite all’apertura e lettura dei testamenti.
In queste circostanze, i signori Aubyn ne prendevano atto, accettavano e firmavano, ovviamente sempre con il tacito consenso della loro figlia, la signorina Margareth, e andavano via dopo aver stretto la mano solo al notaio di turno. Invece, ai parenti presenti neppure uno sguardo, un mezzo sorriso di cortesia, un saluto di buon vicinato. La loro compostezza e freddezza gelava e bloccava tutti.

Nel salotto di attesa del notaio Harbord, dove fu fatta accomodare la famiglia Aubyn, le alte pareti erano tappezzate di antiche stampe di Gustave Doré raffiguranti scene tratte dalla Divina Commedia di Dante in particolare dalla cantica dell’Inferno. Alcune di queste scene erano veramente raccapriccianti. La signorina Margareth le osservava con i suoi occhi cerulei vuoti e smarriti e la bocca semi aperta che mostrava denti piccoli e storti.
“Continuo a non capire come queste orribili raffigurazioni possano piacere al vecchio Harbord!”, disse, sottovoce, con espressione disgustata la signora Aubyn rivolta al marito. Forse, il notaio Harbord le aveva fatte appendere nel salotto di attesa perché fossero monito almeno per la coscienza di qualcuno che vi avrebbe sostato, pensò tra se il signor Aubyn.
All’ora stabilita il notaio Harbord aprì la porta, li fece entrare accogliendoli con un gran sorriso e una decisa e vibrante stretta di mano e li invitò a sedersi davanti alla sua solenne scrivania stracolma di fogli, cartelle, libri. Il notaio, come sempre, non perse tempo in inutili convenevoli e dopo aver estratto da una busta, precedentemente aperta tolto un sigillo, alcuni fogli iniziò con tono grave a leggere scandendo le parole, una per una, come era suo solito fare.
Si trattava del testamento di una defunta amica della signora Aubyn, la signorina Lindsay, morta dopo una lunga malattia che l’aveva resa negli ultimi anni incapace di fare anche i movimenti più semplici. L’elenco dei beni in oggetto comprendeva: La sua tenuta con una redditizia fattoria, la sua collezione di quadri di impressionisti francesi, la sua biblioteca specializzata nel vasto campo della filosofia e un pacchetto di azioni di una società petrolifera americana. Il tutto lasciato “alla buona Marga perché aiuti coloro che soffriranno quanto e più di me”.

I signori Aubyn ascoltarono la lettura del testamento con lo sguardo fisso sugli occhi vispi del notaio senza perdere una sola virgola e una sola sfumatura di tono della sua bella voce. Durante la lettura il vecchio Harbord ebbe l’impressione che la signora Aubyn si fosse commossa, ma questa fu solo una sua segreta sensazione che non corrispondeva affatto al vero.

La signora Aubyn rimase immobile, impassibile, inespressiva, come sempre. Infatti, era stata sempre molto brava a trattenere e gestire qualsiasi emozione. Solo, mentre ascoltava pur attentamente, pensò per pochissimi istanti alla sua adolescenza vissuta anche con l’amica Katherine, la defunta signorina Lindsay. Questa fu, soprattutto, un’ottima compagna di studio prima che la malattia degenerasse privandola lentamente anche della facoltà di poter scrivere. Ma, oltre questo ricordo, nulla di più. Nulla di più si introdusse nella sua mente calcolatrice.
Terminata la lettura, il notaio li pregò di firmare per conto della loro figlia e firmarono subito con mano ferma, sicura, decisa. Questo perché la loro unica figlia, la signorina Margareth, era minorata mentale. Quindi, firmò anche il notaio apponendovi poi sopra il suo timbro sigillo.
Li accompagnò alla porta senza dire una sola parola. In fine, si accomiatò da loro con l’augurio: “Alla prossima!”. Usciti e chiusa lentamente la porta, il vecchio Harbord mormorò: “Eh sì, dare il pane a chi non ha i denti!”

(Tempio Pausania, gennaio 2016)

sabato 23 gennaio 2016

Sguardi sulla memoria in Libromondo 2/2016, pp. 11-13

recensione di Giuseppe Alessandro

scheda del libro www.faraeditore.it/arcipelago/sguardi_sulla_memoria.html

LIBROMONDO 
CENTRO DI DOCUMENTAZIONE 
PACE - AMBIENTE – INTERCULTURA 
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE 
GENNAIO (2) 2016 Newsletter n. 2/2016 

Eccoci al secondo appuntamento del 2016 con la newsletter di “LIBROMONDO”, Centro di Documentazione sull’Educazione alla Pace e alla Mondialità che si trova all’interno della Biblioteca del Campus Universitario di Legino a Savona. 
La Biblioteca o Centro di Documentazione è un servizio di completo volontariato. Le case editrici e gli autori offrono libri come Saggi Gratuiti per l’uso in Biblioteca. I ragazzi delle Scuole Superiori e alcuni adulti, in qualità di volontari, leggono per primi i libri nuovi e ne fanno la recensione che viene pubblicata su newsletter come questa e poi inviata a un cospicuo indirizzario. Le newsletter sono archiviate e sempre disponibili per consultazione su vari siti, come annotato sotto. 
Tutti gli autori di libri relativi alle nostre sezioni e le Case editrici che lo desiderino possono inviare libri in saggio alla Biblioteca. I libri saranno recensiti come sopra. Per informazioni si può scrivere a libromondo@hotmail.com 
Le sezioni della Biblioteca di Documentazione sono: Europa, Asia, Africa, Americhe, Italia, Donne, Bambini, Religioni, Cooperazione Internazionale, Migranti, Popoli, Diritti, Salute, Hanseniani, Educazione alla Mondialità, Pace, Economia, Sviluppo, Alternative allo sviluppo, Agricoltura, Ambiente, Terzo Settore, Mass Media, Protagonisti, Letterature, Fiabe, Favole, Narrativa Ragazzi. 
N.B. L’orario di apertura della Biblioteca segue l’orario della Biblioteca del Campus Universitario, dal lunedì al giovedì: 9.00-17.45; venerdì 9.00-12.45. Il servizio è interrotto durante le vacanze natalizie, pasquali, in agosto e il 18 marzo per la festa del S. Patrono di Savona
Mercoledì e venerdì, ore 9 - 12, sono presenti in loco i volontari AUSER. 

SOMMARIO NEWSLETTER 

Libri Sezioni: DONNE, RELIGIONI, LETTERATURE, FAVOLE, MIGRANTI, SALUTE (con Petizione contro lo spreco alimentare in Europa), COOPERAZIONE, EDUCAZIONE 
PETIZIONE AVAAZ PER LA CITTÀ DI MADAYA 

N.B. Le newsletter sono archiviate su: 
www.ildialogo.org nella sezione Cultura; 
Per informazioni è possibile visitare il sito dove si trova l’archivio delle precedenti newsletter (fino al maggio 2012): http://informa.provincia.savona.it/cooperazione/libromondo 
La Biblioteca è anche su http://www.campus-savona.it/biblioteca.htm e su 

VIVERE, come nuotare. Non importa nulla se sei a Parigi, New York, Firenze o a Calcutta. Se non sai vivere, come pure nuotare, muori, che tu ti trovi nella piscina comunale del tuo paesino di provincia come pure nelle acque più limpide di un’isola da sogno. (da Prendi il largo, di Federica Maifredi, La Memoria del Mondo, 2014) 

lunedì 18 gennaio 2016

ADULATORI E ADULATI

di Sandro Serreri
Leggendo
di Clive Staples Lewis



 Pieter Brueghel il giovane: Adulatori


Gli uomini hanno bisogno di essere adulati e nessuno fa eccezione, tranne i santi, forse! Eh sì, forse! perché anche loro sono caduti dentro la fossa della adulazione almeno nei primi giorni della loro personale guerra contro se stessi, contro tutti, contro il mondo.
Questo, perché si trova sempre qualcuno da adulare e questo qualcuno, nella maggior parte dei casi, è un uomo limitato, non meritevole, con tanti difetti. Eppure, vuole essere adulato e trova sempre adulatori.
Questi adulatori, anch’essi uomini assai limitati, s’inchinano, si genuflettono, piegano il ginocchio e abbassano la testa. Servizievoli, sempre pronti a leccare il dorso della mano del loro padrone e a scodinzolare come buoni ebeti cagnolini addomesticati, ricevono per questa loro gran fatica solo, e solo qualche volta, dunque non sempre, solo un mezzo sguardo, un mezzo sorriso, una parolina sbiascicata.

Cortigiani, ecco quel che sono e che amano essere, cicisbei ridicoli e deformi, caricature derise e oltraggiate. Quando i loro vanitosi padroni fan cadere, volutamente, ovviamente – nulla è lasciato al caso! –, solo qualche briciola e persino e per giunta insignificante, eccoli gettarsi addosso alla medaglietta, al titoluccio, e se son più di due, eccoli abbaiare, ringhiare, azzuffarsi, sbranarsi, divorarsi, offendersi, senza riguardo, senza contegno. Non ha forse l’Apostolo scritto: “Se voi vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri”?
Sono, a dir poco, ridicoli, e per questo fatti oggetto di scherno, di critiche pur velate affinchè il padrone non senta e si insospettisca, di dicerie malevoli, di pettegolezzi, persino di calunnie, ma loro, gli adulatori, di tutto ciò non si curano, non si danno pena, non s’interrogano, non si esaminano, non si battono il petto, non si emendano, non si lavano, non si purificano. La medaglia è sul petto, il titolo nel colore: questo, questo solo conta! Tutto il resto, no!

Amano esser adulati, solitamente, uomini vuoti, privi di sensibilità, di sentimento, d’intelligenza, di coscienza, di vero cuore e animo. Sono veri maestri solo in un’arte nella quale, disgraziatamente, eccellono, eccome: Quella della strategia di farsi adulatori a basso costo e con ridotto investimento. In quest’arte, che tanti danni ha procurato alla pace sociale in quanto arte atta a dividere e a generare rancori, invidie e odi sino a ferite e morti, questi uomini vuoti hanno espresso il loro unico talento per il quale nel giorno del Giudizio saranno giudicati assai duramente e per l’eternità.
Ah, l’adulazione! Bestia, bestia demoniaca, vizio, vizio capitale, piaga, piaga insanabile, abominio, abominio profondissimo, vergogna, vergogna incurabile, morte, morte nerissima. L’adulazione è uno dei veleni più omicidi che il cuore dell’uomo possa generare e iniettare.
Questo veleno una volta entrato nel sangue inizia a circolare così rapidamente che non c’è antidoto o antibiotico che possa fermarlo e debellarlo. È un virus canceroso, che porta alla morte della dignità, serietà, eticità, moralità, altruismo, generosità.
Il malato non sa di essere malato, di essere in fin di vita, anzi è baldanzoso, incosciente, beffardo, tronfio. Poverino!
Il virus continua a circolare liberamente, di giorno e di notte, mentre l’ignaro malato terminale continua a genuflettersi meglio di un giapponese, a sorridere forzatamente, a consigliare viscidamente, a ruminare bile.
Ma l’adulato non si prende cura dell’adulatore, mai! Anzi, lo vuole così: pallido, macilento o pingue e rubicondo, falsamente ascetico o sfacciatamente mangione e beone.

Gli adulatori non avranno mai fine. Sono della stessa genia di quei tumori, sebbene dormienti, che ti uccidono respiro dopo respiro. Dunque, falsamente dormienti. Sono come quei brufoli, nonostante schiacciati, che continuano ad emettere pus, come la ferita, tuttavia medicata, non si rimargina, come una peste bubbonica contagiosa e virulenta.
Sì, gli adulatori non avranno mai fine sino a quando ci saranno uomini ben disposti a farsi adulare, corteggiare, ossequiare, servire servilmente. Anche questi, purtroppo, non mancheranno mai.
Si troverà sempre qualcuno in cerca di favori e onori e sempre qualcuno pronto ad elargire gli uni e gli altri, ma mai in maniera munifica, ovviamente, ma, come cadono le briciole dalla cornucopiosa mensa del padrone così cadranno i loro favori e onori, come le gocce nel disgelo dalla vecchia grondaia inumidiranno le labbra untuose e le cortesie degli adulatori.

Dunque, mi par di capire che la radice di questo triste abominio siano gli adulati più che gli adulatori, i tentatori più che i tentati, i comandanti più che i comandati, i sovrani più che i sudditi, gli imperatori più che i vassalli, i padroni più che i servi, i direttori più che i diretti, i maestri più che gli alunni… E se è vero, come è vero, che gli adulati sanno che c’è sempre qualcuno pronto alla adulazione, è altrettanto vero, eccome se è vero! che gli adulatori sanno che c’è sempre qualcuno in attesa di farsi adulare.
Gli uni e gli altri si cercano e si trovano, si riconoscono subito, trovano subito l’intesa e l’accordo, stipulano una società segreta, tramano insieme, diffidano segretamente l’uno dell’altro, si spiano a vicenda, si reggono l’uno sull’altro senza dar dell’occhio. Sono, comunque – bisogna riconoscerlo! –, un capolavoro di relazione sociale.

Se, poi, son ben affiatati i due compari facilmente costruiranno una società a delinquere che perseguiterà un unico scopo: Quello del massimo profitto con il minimo sforza da parte di entrambi.
E bravi i due compari! Ovviamente, tutto questo non apparirà mai, ma sarà solo oggetto di dicerie, di pettegolezzi, di calunnie, di sospetti, di congiunture, di animosità, di invidie. E più si batte l’aria o l’acqua marina più è difficile riconoscere e discernere il vero dal falso, il buono dal cattivo, il bene dal male, l’amico dal nemico, il collaboratore dall’individualista, il generoso dall’egoista. E i due compari, che sì sono cattivi, ma non stupidi, assai si compiacciono di sì tanta confusione, nebbia, caligine, oscurità, chiaro-scuri. Anzi, di più, molto di più, vi navigano dentro con assoluta sicurezza, padronanza, da nocchieri coraggiosi e navigati.

E più v’è fumo, più v’è dubbio: “Sarà? Mmmhhh! ma, forse? No, no, è proprio così!”, più l’adulatore e l’adulato trarranno per entrambi risultati, vittorie, cifre, conquiste, mete. Per questo, si uniscono scelleratamente col vile scopo di mai far diradare le foschie per tutta l’estensione del loro regno, dominio, campo di azione e di influenza.
La nebbia sarà sempre una fidata alleata, un servizievole mantello dell’invisibilità, una barriera contro sguardi indiscreti e intelligenti. Là dove c’è il dubbio c’è sempre chi vorrebbe dire e agire, ma non farà né l’uno né l’altro perché bloccato, trattenuto, intimorito, frenato, dalla voce della coscienza che dice, sottovoce: “Attento! E, se non è così?”

Qualcuno sarà ad un passo dalla verità, dalla luce, dalla chiarezza, dai contorni nitidi, dalle prove oggettive, inconfutabili, schiaccianti, ma… nulla di fatto, se ci sarà anche un solo onesto ragionevole dubbio.
È anche a causa di questo razionale stato d’animo della mente e del cuore degli onesti, dei buoni, dei miti, dei giusti, dei seri, dei responsabili, dei sensibili, dei coscienziosi, che gli adulatori e gli adulati ci saranno sempre: ammorbando l’aria, avvelenando le placide acque, insinuando il pungiglione del rancore e dell’odio, seminando a piene manciate la zizzania della diffidenza, soffiando sul fuoco che brucia ustiona e distrugge, dividendo lacerando e strappando, erigendo steccati e mura di sospetto e incomunicabilità.

Oh, allora, quanto son felici! Quanto danzano, quanto ridacchiano, quanto sogghignano, quanto annuiscono, quanto si strusciano, i nostri buoni compari! Certo, non sono amici per la pelle, ma alleati per reciprocità d’interessi questo sì, eccome!
Di questi, credetemi, non ne avremo mai abbastanza. Continueranno a farci dubitare sul valore sociale dell’onestà, dell’altruismo, del disinteresse, della pura e genuina gratuità, dei nobili sentimenti e degli affetti umani, dell’amicizia, del dono reciproco del buon vicinato, della generosità, della collaborazione. Continueranno a minare le fondamenta della pace, della concordia, dell’armonia.
Nel bel mezzo di una bellissima sinfonia ci faranno stonare, andare fuori tempo, abbassar di tono. In un quadro perfetto saranno una macchia sputata nel cuore della notte quando tutti dormono e riposano e sognano, tranne loro, gli adulatori e gli adulati.

Fintantoché ci saranno loro continueremo a dubitare, e il dubbio è così potentemente omicida che qualche giusto e onesto pensa di essere dalla parte sbagliata, di aver sbagliato tutto. E tutti noi finiremo col convincerci che ha ragione, che è proprio così. Ecco perché c’è sempre qualcuno pronto ad abbandonare il proprio sentiero e ad allungare le fila degli adulatori e degli adulati.
Il danno è a dir poco enorme, devastante. È una chiazza d’olio che si allarga, allarga, allarga su un mare cristallino e pacifico.
E par che questi assassini non si rendano conto del male che fanno alle vite e all’agire dei giusti e degli onesti. Pare, e sì pare! perché anche in questo campo sorge il dubbio: E se sono incoscienti? Possono un adulatore e un adulato essere incoscienti e, dunque, non responsabili del crimine che genera il dubbio e l’inganno?

Siamo, tutti noi, così ingenui, sprovveduti da berci questo giudizio che, se giusto, scagionerebbe i nostri compari da qualsiasi colpa loro imputata? No, non lo siamo, non lo siamo realmente e, soprattutto, non vogliamo esserlo nella maniera più certa e assoluta.
Suvvia, vogliamo ridicolizzare la storia, quindi l’esperienza personale e collettiva? Vogliamo fare la pantomima di quei bambini che credono veramente di vedere Peter Pan volare su e giù?
Se loro vinceranno sulle nostre coscienze, sulle nostre fatiche, sul nostro passo fermo e deciso, allora sarà la fine, la fine dell’onestà, della giustizia, della moralità.

No! non lasciamoci ingannare, impietosire dal nostro buono e nobile cuore. Non dobbiamo permettere che il nostro animo gentile abbia il sopravvento sulla perfidia e i mal affari dei nostri compari buontemponi.
Permettere che questo accada realmente sotto i nostri occhi, dentro le nostre vite, va contro tutto il nostro giusto e onesto operato, la nostra casa costruita sulla roccia, la nostra famiglia, i nostri affetti, i nostri buoni sentimenti, il nostro lavoro, la nostra sacra dignità.
No, non possiamo e non dobbiamo permetterlo, e non lo permetteremo!
Continueremo, dunque, a combattere la nostra buona battaglia anche se questa ci costringerà a schivare i dardi velenosi, seducenti, vili, scagliati ora dall’uno ora dall’altro adulatore o adulato o da entrambi insieme, che inevitabilmente incontriamo, con i quali abbiamo a che fare, ci scontriamo direttamente o indirettamente.
Sarà una gran fatica, ma necessaria. Lo dobbiamo innanzitutto a noi stessi. Poi, lo dobbiamo a tutti coloro – e sono tanti – che hanno sempre creduto e contato sulla nostra coscienza e onestà, costi quel che costi, che si sono sempre e comunque fidati di noi.
Questi due motivi da soli bastano per farci resistere agli assalti da vero e proprio assedio militare dei dubbi, delle delusioni, delle amarezze, dei tradimenti, delle lusinghe, del “così fan tutti”!
Spetterà al singolo giusto e onesto non farsi abbracciare e baciare dagli adulatori e dagli adulati affinché un giorno, presto o tardi, non abbia da rimproverarsi e vergognarsi per aver venduto se stesso.

(Tempio Pausania, gennaio 2016)

sabato 9 gennaio 2016

La fulgida memoria di suor Lilia

di Vincenzo D'Alessio (fondatore del Gruppo Culturale F. Guarini)







Ci sono poche persone che, pur avendo un ruolo sociale importante, amano per scelta assumere la forza dell’umiltà per rendersi disponibili agli altri, sovente ai meno abbienti.

Una di queste persone speciali è scomparsa in questi giorni nella Comunità religiosa “Regina Apostolorum”, Figlie di San Paolo, ad Albano Laziale (Roma). Si tratta di suor Lilia MOLINATI, al secolo Rosa, nata settantanove anni fa nella piccola comunità di Borgo di Montoro.

Rispondendo alla chiamata di Nostro Signore ha svolto un ruolo comprimario nelle manifestazioni religiose a carattere nazionale e internazionale come, nel nostro caso, all’avvio della Fiaccola della Pace a Solofra.

Nel 1987 la prima Fiaccola della Pace, in onore del Santo Patrono San Michele Arcangelo, si svolse nei giorni dell’apparizione cioè 6,7e 8 maggio. Gli atleti, in tutto una cinquantina, su due pullman raggiunsero Roma e in Piazza San Pietro nella postazione papale attesero che S.S. Giovanni Paolo II accendesse la Fiaccola che da quel momento partì per far ritorno a Solofra e rinnovare la luce della Fede che da millenni splende nella Collegiata di San Michele Arcangelo.

Dietro la capillare organizzazione che muoveva la Fiaccola c’era suor Lilia e il nostro referente, Alberto Sica, allora segretario del Club Biancoverde Rischiatutto fondato dal professore Antonio D’Urso, già sindaco.

Da quel primo bagliore ogni anno seguirono tutte le altre mete scelte come luoghi simboli della Fede e ancora oggi la Fiaccola della Pace di Solofra continua il suo viaggio per illuminare i tempi bui che si profilano dinnanzi.

Suor Lilia si è spenta nell’umiltà che l’ha distinta , circondata dall’affetto delle consorelle, dei famigliari, del popolo della frazione Borgo che nella giornata di ieri ha accolto i resti mortali nella chiesa di San Leucio, i quali da oggi riposano nel cimitero della stessa frazione.

A lei, a tutte le opere di Misericordia che ha donato alle genti in nome dell’Apostolo dei Gentili che ha scelto di servire, va la nostra preghiera per tenere accesa la sua fulgida memoria.

Montoro, 6 gennaio 2016

venerdì 1 gennaio 2016

AL DIAVOLO I FARMACISTI!


  
La diarrea iniziò a sconvolgere e disturbare il suo da sempre debole stomaco e, se invece di assecondare il suo medico Dottor Gunning, pur amico di vecchia data, avesse dato ascolto al suo istinto, oggi non si troverebbe a dormire una notte sì e tre no.
Povero signor Champion, ormai andava avanti così da quasi un anno. Aveva perso oltre dieci chili, riusciva a consumare un solo pasto completo al giorno e le sue relazioni sociali, un tempo numerose, si erano impoverite di numero e di qualità. Ma, non poteva fare diversamente: a causa del suo stomaco, doveva declinare gli inviti soprattutto quelli a cena.
Il suo medico lo aveva convinto, a dire il vero con molto impegno, a imbottirsi di farmaci: tre prima della colazione, quattro prima del pranzo e quattro prima della cena. Li buttava giù sempre mal volentieri accompagnandoli con un pranzo più o meno decente e una cena più che frugale. La colazione, all’inglese, risultò essere il pasto meno preoccupante e faticoso. L’unico vantaggio della terapia fu la diminuzione delle scariche da due o tre a una o due alla settimana al ritmo di una ogni due o tre giorni. L’odore era sempre intenso e nauseabondo. Ragion per cui, questa, doveva rifiutare anche i più graditi inviti. Andare alla toilette per evacuare era una vergogna sopportabile a casa, ma non da ospite.

Sì, il suo istinto gli aveva suggerito, sotto voce, di non ingurgitare tutte le pastiglie prescritte. Sempre il suo istinto gli aveva detto che erano tutte solo farmici e, quindi, tutte solo veleni. Dai suoi vecchi studi classici sapeva che: φαρμακον, significava: veleno.
E questi veleni agirono chimicamente su di lui, giorno dopo giorno, avvelenandolo lentamente, ma costantemente.
Dopo quasi un anno, ebbe il coraggio di dire all’amico medico con un certo tono di voce: “Sento, che questi farmaci mi stanno uccidendo!”. Ma per tutta risposta si era sentito dire che avrebbe dovuto ringraziare e benedire i farmacisti anziché imprecare contro di loro visto che, dopo quasi un anno, le scariche erano notevolmente diminuite.
Ma la diarrea non era affatto cessata e il povero signor Champion continuò a dimagrire e, fatto ancor più triste, finì col diventare un misantropo contro quella che, invece, era la sua vera natura.

I vicini di casa – viveva in una villetta a due livelli in una via borghese nell’elegante quartiere dei notai e degli avvocati, in compagnia di un bellissimo e flemmatico siamese di nome Mosè – si accorsero del suo isolamento, della sua fuga dalle relazioni sociali impegnative tranne che da quelle che la vita quotidiana costringe ad avere: il fruttivendolo, il giornalaio, il fornaio, la commessa, il postino, la governante. Ma nessuno di loro si curò di fargli visita.
Agli inviti a cena rispondeva sempre: “Non posso! Problemi, problemi di stomaco!”, e ancor prima che si avesse il tempo di insistere lui si era già allontanato mormorando: “Problemi, problemi di stomaco!”.

E mentre la fedele e devota governante, la signora Barnett, al suo servizio da quasi venti anni, non ebbe mai l’ardire di dargli un consiglio su come evitare di dimagrire ulteriormente, la sorella Mary Betty, una arcigna e zitella maestra in pensione, che lo visitava tutti i martedì all’ora del tea, tanto insistette perché al posto del classico tea bevesse una tisana composta da una miscela di piante officinali sapientemente scelte e raccolte da certi monaci camaldolesi in Toscana, che lo convinse a bere una tisana alla gramigna composta tutti i giorni all’ora del tea e la sera prima di andare a letto.
La miracolosa tisana di Mary Betty aveva questi ingredienti: Cassia obtusifolia folium, Triticum repens radix, Mentha piperita summitates, Arctium lappa radix, Parietaria officinalis planta, Matricaria chamomilla flos, Coriandrum sativum semen, Foeniculum officinale semen, Melissa officinalis summitates, Smilax officinalis radix, Illicium verum semen.
Questa tisana risultò un ottimo coadiuvante per il transito intestinale e portò il signor Champion a smettere di dimagrire, ma non di fargli evitare le sue solite sedute di evacuazione quasi liquida.

Per timore che l’amico medico gli proibisse di bere la tisana camaldolese, non disse nulla al Dottor Gunning e, tramite l’affezionata sorella, ordinò ben dieci scatole della tisana che lo aiutava almeno a non perdere chili e a dormire qualche ora in più rispetto ai mesi precedenti. Le scatole arrivarono all’indirizzo oxfordiano dopo appena una settimana e furono messe nella prima dispensa della cucina – la seconda dispensa si trovava nel seminterrato che custodiva le marmellate e i vini italiani di annata –.
La signora Barnett provvedeva a far trovare la scatola della tisana sul tavolino tondo del soggiorno all’ora del tea e sulla scrivania dello studio la sera dopo un’ora dalla sempre frugale cena.
Dopo il primo mese il signor Champion apportò una aggiunta alla ricetta della sorella. Come dolcificante faceva sciogliere nella tisana bollente un cucchiaio di miele amaro proveniente dalla Sardegna.

Terminata la terza settimana le scariche di diarrea diminuirono al ritmo di una sola alla settimana. Non ne parlò al Dottor Gunning, ma solo alla sorella che festeggiò la buona notizia invitandolo a cena in un ristorante dove non metteva più piede da quasi tre anni.
Era solito consumare una cena molto leggera a base di passati di verdure, purea di patate, minestre di dado vegetale. Ma quella sera, convinto e incoraggiato dalla sorella Mary Betty, mangiò un antipasto, un primo, un secondo, un contorno di verdure grigliate, una fetta di torta ai frutti di bosco e bevve tre bicchieri di vino rosso italiano, un caffè e un bicchierino di acquavite austriaca. Il tutto accompagnato dalla continua ed allegra chiacchiera della sorella che finita la cena, pagato il conto – solitamente era il fratello a pagare –, disse, aiutandolo ad indossare il cappotto: “Credo, Christopher, che prima di andare a letto, dopo aver bevuto la tua solita tisana camaldolese, tu debba buttare nel cesso tutti quei schifosi veleni!”. “Credo proprio di sì!”, rispose offrendogli il braccio uscendo dal ristorante.

Rientrato a casa, dopo aver accompagnato la sorella sino al portone della sua abitazione – abitava due vie prima della sua, a due passi da un piccolo ma molto frequentato giardino pubblico –, non perse tempo. Aprì uno per uno i flaconi e versò l’intero contenuto di ognuno nel wc del piano terra. Facendo quei gesti semplici si sentì felice come non si sentiva dai primi anni della pensione quando, dopo aver lasciato il suo principale lavoro, quello di lettore e di correttore di bozze di una nota e prestigiosa Casa Editrice, si era immerso totalmente nel suo vecchio lavoro part time che amava da sempre: quello di critico letterario e di recensore.
I numerosi flaconi in plastica e in vetro furono buttati nel bidone della spazzatura, quello nel retro della casa, tra la legnaia e il box per gli attrezzi da giardino. Compiendo questa ultima operazione, chiudendo con fracasso il bidone con il coperchio metallico, disse: “Al Diavolo tutti i farmacisti!”
Quindi, si mise a letto, ma non prima di aver bevuto la sua tisana e di aver dato una ciotola di latte a Mosè, e si addormentò subito.

Quella notte ebbe un incubo. Sognò di fare colazione avendo davanti la faccia arrabbiata del suo amico medico, il Dottor Gunning, che lo obbligava ad ingoiare una dopo l’altra decine e decine di pillole di diverso colore e dimensione. Svegliatosi di soprassalto, sudato e ansimante, vide, seduto accanto a se, un monaco dal volto sereno e rubicondo, che lo guardava mentre girava e rigirava un cucchiaino d’argento dentro una tazza Delft fumigante. Il monaco, poi, scuotendo la testa e soffiando dentro la tazza alcune volte, disse con voce grave e solenne: “Ah, se avessi seguito il tuo istinto, non saresti morto!”

La sorella lo trovò riverso sul letto con Mosè raggomitolato vicino alla sua testa. Il medico legale dichiarò la morte per infarto. Mary Betty, accompagnata dalla signora Barnett piangente, prima di chiudere la porta a chiave, con in braccio Mosè, mise le restanti confezioni di tisana dentro la sua capiente borsa sicura di aver fatto tutto e solo il bene del fratello.

All’apertura del testamento, dieci giorni dopo, scoprì che il fratello Christopher aveva nominato eredi universali i monaci di Camaldoli.


(Racconto breve scritto a Tempio Pausania tra il 21 e il 28 dicembre 2015)