lunedì 23 novembre 2015

“Le parole ti cambiano mentre le scrivi”

su La narrazione originaria, Galaad Edizioni, Natale 2014

recensione di AR







È indicibilmente intenso, nella sua brevità, questo testo di Michele Toniolo, che può esser a buon titolo definito una narrazione filosofica platonicamente dialogante, intrigante e profondamente bella. Già in Premessa troviamo queste parole-chiave: “Scrivere è il mio modo di perdermi” (p. 11). 


Deserto di Taklamakan

La riflessione, che ha il tono e la pregnanza di una prosa poetica, è un dialogo implicito fra padre e figlio (con un doppio ribaltamento dei ruoli in quanto il figlio feconda il padre, anziché la madre, con le sue parole/azioni): “Le parole ultime che un figlio getta in grembo al padre, per il padre sono sacre. Il padre le accoglie con fede, anche se sa che sono una prigione, una passio passiva” (p. 13).
Inoltre è evidente il riferimento alla passione: “Le parole che mio figlio mi ha gettato in grembo (…) «Padre, aiutami a morire». Potrebbero essere la parafrasi estrema, ma rispettosa, delle parole di Gesù in croce (…). Ma le sento anche come una seduzione, (…), nel senso di Kafka: la parola giusta conduce, la parola non giusta seduce. Scrivere è entrare nel Takla Makan” (p. 14). In poche righe abbiamo una serie di suggestioni di grande peso specifico: quali sono le parole giuste e come discernerle? Perché scrivere è entrare nel deserto? 
Un figlio chiede di essere aiutato a morire… e il padre si trova sedotto, meglio “accerchiato da parole furibonde” (ivi). Il figlio, per uno scrittore, è anche quanto ha creato: lo scritto può sedurre il suo autore? La lettura allora è: “Lo spazio che le parole aprono e nel quale cadono” (p. 15); “Scrivere è entrare nella colpa” (p. 17); “La narrazione di un fatto è incompatibile con il fatto che l'ha originata. Scrivere è allontanarsi” (p. 18).
La voce narrante dice: “Ogni parola porta in sé il corpo della propria origine, ma non lo può conoscere se non morendo” (p. 22); “L'esilo è il luogo che resta alla mia parola. La richiesta di mio figlio mi sgusciato da me stesso” (p. 26); “Sono caduto nelle parole di mio figlio come Giona dalla nave” (p. 29); “Abramo non ha nessuna speranza da opporre a Dio: la promessa di dargli un figlio era stata un libero dono. (…) È incatenato alle parole di Dio (…) ma sa che nell'abbandono [a Dio] non si è mai soli” (p. 30).
Ci troviamo in un vertiginoso, accelerato viaggio dantesco: non sappiamo se immedesimarci nel padre o nel figlio, se considerare la “parola” l'ombra della Parola, se ci vengono indicati percorsi possibili o piuttosto da evitare, se valga la pena di affrontare il deserto o se restarne titubanti ai margini.
Nella Parte seconda ci viene detto che questa è “una narrazione che non vuole sedurre né può condurre” (p. 36). Le parole del figlio portano il padre a un esilio in cui avrebbe “trovato una [nuova] lingua. Questa lingua sarebbe stata una identità nuova” (p. 37);“Spogliato ed esiliato (…) devo cancellare le sue [di mio figlio] parole. Non sono più un luogo nel quale stare, né una soglia da abitare. (…) Mio figlio è diventato mio padre” (p. 43).
Questo ribaltamento finale dei ruoli, ci dice che siamo generati/originati da un esilio, da un essere chiamati ad attraversare il nostro personale deserto, abbandonandoci a una chiamata che implica lo spogliamento/rinnegamento di una identità (superficiale) per trovare la nostra identità profonda, che è immagine del Padre e impronta della Sua sostanza (Eb 1,3).  
Questo testo offre molte altre letture, essendo intriso oltre che di echi biblici, di molteplici richiami filosofici e letterari: ogni lettore vi scoprirà senz'altro “indicazioni” che sentirà/potrà far sue per affrontare il suo esodo da sé e ritrovarsi grazie all'Altro e agli altri compagne/i di viaggio.

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