venerdì 19 settembre 2014

Padre Eugenio da Montefusco

Gerardo Figliolino, Padre Eugenio Caldarazzo da Montefusco, International Printing Editore, Avellino, 2014 


recensione di Vincenzo D'Alessio


Il tempo che viviamo è ricchissimo di vicende, poche attraversano il filtro stretto della Storia per divenire memoria collettiva. Alla costruzione del grande volume della memoria contribuiscono autori come Gerardo Figliolino, “medico per professione e storico per scelta” (cito la presentazione) nel volume: Padre Eugenio Caldarazzo da Montefusco, sacerdote francescano.
Montefusco ha offerto i natali a personalità che hanno travalicato i cancelli della dimenticanza e si offrono oggi, come allora, allo sguardo attento dei contemporanei. Cito ad esempio Eliseo Danza (sec. XVI) primo storico montefuscano, il quale ebbe i natali proprio in via San Pietro de’ Ferraris, la medesima strada dove è nato Aristide Caldarazzo, al secolo padre Eugenio e dove ha dimorato un’altra illustre montefuscana: Emilia Dente, poetessa, scrittrice, storica anche lei, e dove attualmente abita l’autore Gerardo Figliolino.
Il cuore antico della città mostra tutta la sua grandezza: per essere stata Capoluogo di Principato, per avere ospitato rappresentanti reali nel periodo dal XIV al XVIII secolo, per avere accolto le nobildonne del Regno di Napoli presso il Convento delle suore a Montefusco le quali apprendevano la nobilissima arte del “Tombolo”. Scrive il dottor Alessandro Lomaglio nella presentazione: “Presumo che lo scopo, non tanto nascosto dell’autore, sia stato anche quello di sottoporre all’attenzione dei compaesani le opere e le gesta, come a ragione possono definirsi, di un protagonista nativo di Montefusco e, attraverso il racconto della sua vita, la gloria di una antica e storica cittadina, un tempo fiorente centro culturale e artigianale, oggi un borgo negletto e quasi abbandonato.”
L’autore ha già consegnato altri lavori storici tesi ad avvalorare quanto è scritto nella presentazione. La passione per la ricerca che muove Figliolino è forte e sincera, vuoi anche per gli studi medici esercitati, forza che si rivela anche nella dedica apposta all’inizio del lavoro: “A mio padre di cui vorrei essere la memoria persa.” 

La figura di padre Caldarazzo emerge in tutta la forza della sua Fede: la biografia, gli studi, la vita monastica vissuta accanto a San Pio da Pietralcina, la testimonianza francescana come cappellano militare nell’ora buia della Seconda Guerra Mondiale. Questa è la parte eroica della sua esistenza: si svolge a Cisterna di Latina tra la gente sottoposta alla tragicità dei bombardamenti, delle rappresaglie naziste, delle morti dei tanti giovani sui fronti. Una esistenza vissuta accanto ai sofferenti, agli impauriti, a quanti sentivano rubata la Speranza.
La parola del sacerdote arriva a consolare gli afflitti, le sue opere raggiungono i bisognosi, l’Eucarestia accompagna quanti chiudono gli occhi sulla vita terrena. Un “padre” energico e mite accanto ai suoi fratelli, che ha incarnato l’invito di Frate Francesco: “Che il Signore vi conceda la Pace e il Bene!” 

Nel testamento redatto in punto di morte l’umiltà del Servo di Dio emerge nella testimonianza: “Santissima Trinità, Padre e figlio e Spirito santo non mi rifiutate alla Vostra felicità, per la quale così poco e malamente ho corrisposto. Amen!” (S. Chiara di Assisi, 1982).
Gerardo Figliolino, con santa pazienza e certosina scientificità, con questo nuovo lavoro sta faticosamente ricomponendo un frammento del merletto storico montefuscano maneggiando i fuselli della ricerca.

mercoledì 17 settembre 2014

La consuetudine dei fratumi di Fulvio Segato Primo al Premio Massa, città fiabesca di mare e marmo. I più vivi complimenti

Con la raccolta La consuetudine dei frantumi – pubblicata da Fara in quanto vincitrice assoluta del concorso Faraexcelsior 2013 –  Fulvio Segato si classifica Primo (€ 500 in quanto il più votato dalla Giuria) nella

Sezione B) - Libro di Poesie edito 
(pubblicato negli ultimi dieci anni)
del Premio Letterario Europeo intitolato
Massa, città fiabesca di mare e di marmo

http://farapoesia.blogspot.it/2014/01/una-lettura-de-la-consuetudine-dei.html

al link qui sotto il verbale della Giuria

Premiazione
Sabato 27 settembre 2014 ore 15.30
al Teatro Guglielmi di Massa 

Ho visto terre oltre il confine

testimonianza di LAURA CORRADUCCI pubblicata in MARGUTTE

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C’è un proverbio africano che recita così: nella vita incontrerai tre tipi di persone, quelle che ti cambieranno la vita, quelle che ti rovineranno la vita e quelle che… saranno la tua Vita.
Lo scorso luglio ho vissuto un’esperienza di missione grazie alla generosità dei Frati Cappuccini delle Marche, la regione in cui sono nata e abito, in Benin, piccolo paese dell’Africa subsahariana fra il Togo e la Nigeria, dove i missionari, in ventisette anni, hanno costruito da sud a nord del paese, tre conventi con relativi progetti di missione: dagli orfanotrofi, agli ospedali, alla direzione di “atelier” (laboratori di sartoria, falegnameria eccetera) e ancora, diversi programmi di formazione e inserimento per giovani, bambini e famiglie africane.
Restare in Africa per un periodo di tempo non troppo lungo, come è capitato a me, rischia di farti rimanere sospeso in una dimensione “altra”, i pensieri, il modo di guardare che hai sempre, inconsapevolmente o no, portato dentro, sembrano arretrare e lasciare posto ad un qualcosa che sai sta per arrivare e sarà potente ma che, ancora, si muove nell’incertezza, la vita è altrove diceva, non a caso, Rimbaud.
È l’inevitabile frizione di due culture lontane, all’apparenza incompenetrabili, assettate anche se in maniera differente, della stessa acqua, un rovesciamento di sguardo che, se in un primo momento risulta innaturale, finisce per entrarti dentro come qualcosa di ineluttabile, nonostante il tuo io, subdolamente, continui a fare di tutto per virare, per nasconderti.

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Nello stesso identico modo in cui si tratta il proprio corpo, coprendolo e ungendolo di repellenti con la speranza di sfuggire alle zanzare e alla loro dannata malaria, per ritrovarsi poi, in una mattinata di fine luglio, a lasciarlo totalmente scoperto, steso su una strada di un villaggio, affidandolo a Dio, al fato, alla vita, alla terra battuta al ritmo di bonghi e piedi nudi, o semplicemente, alla meraviglia del cielo della notte: un drappo incandescente bruciato da stelle in fiamme.
Tutti gli intensi colori dell’Africa si mescolano e nascono da un’unica polvere rossa, fine e argillosa che, ogni giorno, si alza dalle strade beninesi costeggianti i villaggi lungo i campi, per ispessirsi e divenire grigiastra, insieme ai gas delle infinite auto e moto che, furiosamente, attraversano le vie principali di Cotonou, capitale economica del Benin.
Proprio su queste strade le donne, segnate nel volto e nel corpo, da una regalità assoluta, camminano e portano sulla testa insieme al ferro delle pentole, la consapevolezza di una femminilità primordiale e inalterata, mostrando una leggerezza ed un’eleganza come mai mi era capitato di vedere prima.
Se mi si chiedesse quale fermo immagine userei per regalare uno schizzo di realtà beninese, fra i tanti, splendidi, sceglierei le mani di Frankie e con lui quelle di tutti i bambini disabili che ho visitato in un centro di accoglienza francescana, (struttura non adatta alle esigenze dei piccoli ospiti, i francescani, all’oggi, stanno infatti cercando un posto migliore). I bambini disabili nati nei villaggi vengono, spesso, barbaramente uccisi perché considerati incarnazione di spiriti malvagi, Frankie è uno di loro, un folletto furbo e attento, salvato dall’ignoranza delle tradizioni. Ha 15 anni, è affetto da sindrome di Down, uno sguardo obliquo e profondo, ti sorride se guardi altrove e ha un insaziabile desiderio di conoscere con le dita, di toccare corpi, scoppia a ridere all’improvviso, ride insieme alle sue mani, in quel modo ammaliante che hanno gli africani di far vibrare i corpi e la voce.
Negli occhi di questi figli “speciali”, negli occhi deboli e semichiusi di Frankie, si spalanca una madre Africa fragilissima ma fiera, un’Africa che ha un’incontenibile fame di esistere, non aspetta, non ascolta le mille giustificabili paure, ma apre la bocca e morde. Frankie nel riso della sua ciotola di legno stretta a forza sulle gambe, assaporava tutta la bellezza del suo essere unico, la percepiva ed io con lui.
Le decine, centinaia di visi che ti accolgono, ti stringono lo sguardo mentre percorri le strade, le vie, i sentieri che conducono ai villaggi, divengono nella memoria gli occhi, il naso, le labbra di un solo volto che si dilata, un’unica voce, forte, come le stoffe degli abiti, una voce che si accende in un canto, il canto tribale delle notti, per placarsi in un respiro silenzioso davanti alla luna, a Dio.
Un Dio gioioso che non ha paura di uscire dalle teche per accarezzare la pelle e danzare con le donne, un Dio che come Mosè, batte colpi di bastone sulla roccia della nostra autoreferenzialità per scuoterne gli automatismi e ritrovare un’acqua nuova, autentica.
Sarebbe banale e illusorio ignorare i problemi enormi di una terra segnata da una ferocissima povertà e, paradossalmente, da una gioia disincantata, le emozioni devono, giustamente, lasciare spazio e tempo a riflessioni ponderate, le esigenze, in particolar modo formative, di crescita e autonomia dell’Africa, sono urgenti e primarie.
Eppure, eppure nel caos che avvolge le città beninesi e in cui spesso, durante i lunghi e faticosi spostamenti, perdevo i pensieri e abbandonavo gli occhi in quelli sorridenti di chi scorgevo al di là del vetro, proprio in quello stesso turbinio di disordine e vita, ho visto sollevarsi il meraviglioso pensiero di Nietzsche “occorre avere molto caos dentro di sé per generare una stella che danza….“.
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ho costruito un bel battello all’amore*

ho raccolto legna dentro la foresta
non ho smesso di disegnarti il viso
nella polvere che saliva sulle gambe
la sete del sole ti piagava le labbra
io l’ho raccolta in vasi sulla testa
il vento l’ho spinto via per non farti cadere
e sulle strade ho sparso petali di fiori rossi
perché tu non esitassi a comprendere la via
il corpo l’ho profumato nell’oceano
vicino alla palma lascerò il mio vestito
ho costruito un bel battello all’amore
il mare sulla spiaggia ci attende da sempre
da questa terra salperemo con la luna.


* il verso è di un canto africano ascoltato in Benin da una corale di giovani a Cotonou.

IMG_2489 (id)Le foto sono di Federico Flamini, operatore televisivo e fotografo.
Laura Corraducci ha pubblicato le sue poesie qui.
lauracorra@hotmail.com

venerdì 12 settembre 2014

“Più grande del mare” a Rimini dal 25 ottobre al 7 dicembre 2014

presso la Galleria dell'Immagine
via Gambalunga 27, Rimini

sabato 25 ottobre alle ore 17.30 viene inaugurata la mostra di Ardea Montebelli sul grande missionario maceratese padre  Matteo Ricci S.I. (1552-1610)

intervista su Radio Vaticana di Rosario Tronnolone



Più grande del mare


堪比海阔



saluto di Massimo Pulini 
(Assessore alla Cultura del Comune di Rimini)

presentazione e visita guidata dell'Autrice

intervento di Gianni Criveller 
(storico, teologo e missionario)

testimonianza di padre Paolo Wu OFMConv 
(assistente spirituale della comunità cattolica cinese 
della Diocesi di Rimini)

la mostra sarà visitabile fino al 7-12-2014 
tutti i pomeriggi ad eccezione del lunedì 
dalle 16.00 alle 19.00

L'Autrice è disponibile il sabato e la domenica ad effettuare visite guidate per gruppi intressati, contattare




 
Partire significa andare lontano,
andare lontano significa ritornare.
(Laozi, Daodejing)


Prendo le distanze
dalle cose consuete.
Ciò che manca
a fatica sazia l’attesa
di una verità
che mi scruti
e continuamente mi domandi
dove sia il largo del mare.



«Desiderarono sempre i nostri padri entrare in questa terra a causa dello stato miserabile in cui si trova e aiutarli a venire a conoscenza di Dio; però essendo tanto serrata questa potenza, ogni sforzo fu vano.» (dalla lettera a Giambattista Román, Zhaoqing, 13 settembre 1584)











Questa «opera consente di cogliere le dimensioni fondamentali sulle quali si è mosso il grande missionario maceratese, il padre Matteo Ricci (1552-1610): la bellezza della natura espressa nell’arte, il pensiero dei saggi cinesi e l’annuncio del Vangelo.
Nella storia dei rapporti tra la Cina e l’Occidente è nota la figura del Xitai del Grande Occidente (Matteo Ricci), che trascorse gli ultimi 28 anni della sua vita in Cina (Regno Centrale) durante la dinastia Ming. A questo riguardo, offro una semplice riflessione.
Attratti dal fascino della sua persona e dalla “dottrina del Cielo”, la buona notizia del Vangelo alla quale Matteo Ricci aveva dedicato la vita, molti illustri personaggi si recavano a fargli visita. Si può senza dubbio affermare che egli sia stato, per così dire, un anello di congiunzione tra Occidente e Oriente, tra la civiltà confuciana e la sapienza cristiana» (Mons. Savio Hon Tai-Fai, Segretario Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli)

«Matteo Ricci viene ricordato attraverso l’estro artistico da Ardea Montebelli. Ricordo anch’io una rievocazione artistica di Ricci, attraverso la drammatizzazione della sua vita a cui ho assistito a Pechino il 31 ottobre 2010.
Matteo Ricci si spense nella capitale cinese l'11 maggio del 1610. Pechino era stata la sua meta, come anticipato in un sogno avvenuto nel giugno 1595, nel quale Gesù lo aveva rincuorato per le difficoltà che incontrava e gli aveva rassicurato che un giorno avrebbe raggiunto la capitale, ben sei anni prima del suo arrivo a Pechino. Qui Ricci, primo tra gli stranieri, fu sepolto, e a tutt'oggi il suo monumento sepolcrale viene conservato con rispetto e onore.» (Gianni Criveller)




Ardea Montebelli è nata a Rimini nel 1956, in questa città vive e lavora come insegnante. Si occupa di poesia e di fotografia ed è giornalista pubblicista. Propone percorsi di approfondimento della Sacra Scrittura utilizzando parola e immagine. Ha pubblicato numerose raccolte di poesie tra le quali si ricordano: Il paradosso della memoria (Fara Editore 2001), una meditazione in versi sulle lettere di San Giovanni; Ma tu non dartene tormento (Guaraldi Editore 2005), una riflessione sulla Shoah; Ma il cielo ci cattura (Fara Editore 2008), dedicato al tema della verità nell’Antico e Nuovo Testamento; Quel libero andare (Edizioni l’Arca Felice 2009), sulla prima lettera di San Paolo apostolo ai Tessalonicesi. Ha inoltre pubblicato due cataloghi fotografici l’ultimo dei quali, dal titolo Gli eremi del cielo (Arti grafiche Sammarinesi Editore 2012), è legato ad una mostra sugli eremi abruzzesi di Celestino V. L’ultima mostra dal titolo Più grande del mare è dedicata all’opera evangelizzatrice di padre Matteo Ricci. Nel 2013, il lavoro è già stato esposto nel seminario vescovile missionario diocesano Redemptoris Mater di Macerata, sempre nel 2013 è stato quasi integralmente pubblicato in Parola e Tempo. Annale dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose, Diocesi di Rimini, n. 12, anno XII, 2013. Ha effettuato numerose esposizioni fotografiche a livello nazionale.


Gianni Criveller è nato a Treviso nel 1961, missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere), da oltre vent'anni opera nella Grande area cinese (Taiwan, Hong Kong, Macao e Repubblica Popolare Cinese) dove collabora con diverse istituzione accademiche. Professore di teologia, storico e ricercatore, si è specializzato nella storia della ricezione del Cristianesimo in Cina, in particolare circa la missione gesuitica e le differenti strategie missionarie. Ha pubblicato numerosi studi in varie lingue, tra cui Vita del Maestro Ricci, Xitai del Grande Occidente (Brescia, 2010); 500 Hundreds Years of Italians in Hong Kong and Macau (Hong Kong, 2013, con altri autori). Ha pubblicato un saggio su Etty Hillesum in Chi scrive ha fede? (Fara 2013) e uno sul sogno profetico e la malinconia di Matteo Riccci in Letteratura… con i piedi (Fara 2014).




giovedì 11 settembre 2014

Miti e fiabe di metamorfosi tra Scilla e Cariddi

di Rosamaria Rita Lombardo

SOMMARIO
- INTRODUZIONE
- I RAPPORTI TRA MITO E FIABA

- LA NARADA: LA DONNA –ASINA E IL SUO ARCHETIPO MITICO
- COLA PESCE: L’UOMO-PESCE E IL SUO ARCHETIPO MITICO
- CONCLUSIONI
- BIBLIOGRAFIA


INTRODUZIONE

Il saggio di seguito riportato nasce dalla felice convergenza di personali interessi di ricerca archeologica e percorsi folklorici esplorativi da me condotti e sperimentati nell’ambito della gestazione e stesura del mio libro L’ultima dimora del Re . Una millenaria narrazione siciliana “svela” la tomba di Minosse – Fara Editore.
In particolare, quanto qui illustrato è il frutto di un’esperienza di ricerca realizzata in seno ad uno studio sulla fiaba finalizzato all’approfondimento di tale genere narrativo attraverso i variegati rapporti che questo, sin dalle sue origini, ha intessuto con il mito e con l’epos.
Questo lavoro si configura, pertanto, come un modello esemplificativo di approccio al prodotto fiabistico, imperniato eminentemente sull’analisi tematico-comparativa condotta su testi fiabistici e mitico - leggendari.
Una simile impostazione di ricerca ha consentito di testimoniare, attraverso la logica del confronto e il rinvenimento di analogie e affinità tematiche, l’evoluzione di particolari episodi o personaggi mitico-epici e la loro trasformazione nel tempo in paralleli prodotti fiabistici e folcloristici.


RAPPORTI TRA MITO E FIABA

È acquisizione ormai certa e incontrovertibile quella che riconosce nella narrativa fiabistica la conservazione caparbia e tenace degli elementi più arcaici della tradizione orale e anche letteraria di un popolo. A tal titolo si ricordino episodi e personaggi di fiabe di diversa epoca e anche latitudine del nostro pianeta che si ricollegano a motivi e temi delle antiche mitologie e tradizioni epiche. Sempre a tal riguardo non vanno sottaciuti gli studi condotti sull’ argomento da Theodor G. Gaster che è riuscito a dimostrare sicuri rapporti tra racconti mitologici degli Assiri, Babilonesi, Hittiti, risalenti ad alcuni millenni avanti Cristo, e la narrativa popolare tuttora viva nella tradizione orale di questi luoghi. Simili risultati, rigorosamente scientifici, sono venuti a consolidare la teoria romantica, sostenuta dai Fratelli Grimm e dai loro seguaci, che vedeva nelle fiabe frammenti e relitti di miti antichissimi, con i quali i popoli primitivi interpretavano simbolicamente i principali fenomeni della natura. Sulle origini delle fiabe sono state formulate tuttavia altre teorie. Alcuni valenti studiosi come l’insigne etnologo Vladimir Propp vi riconoscono non tanto i miti, quanto i riti; come ad esempio per le prove che il giovane eroe del racconto deve superare, sono stati chiamati a confronto i riti d’iniziazione e di passaggio, che caratterizzano il ciclo della vita umana delle città primitive dei diversi continenti. Infine, la scuola Freudiana fa derivare le fiabe dai sogni e altri fenomeni del subcosciente. Comunque sia, si devono riconoscere nella narrativa fiabistica altissime testimonianze di valore storico, religioso e culturale. Un fenomeno analogo a quello della “storicizzazione” delle fiabe è quello della loro diffusione e assimilazione in senso geografico e linguistico, in virtù delle quali diversi motivi e temi della narrativa popolare si selezionano e si ambientano assumendo una lingua e uno stile diverso da regione a regione, sì che in questo modo si può, a ragion veduta, parlare di fiabe siciliane o toscane o lombarde anche se i motivi ed i temi si trovano talvolta diffusi su aree vastissime. È solo nella seconda metà dell’Ottocento che la novellistica popolare viene in Italia raccolta con fedeltà dalla viva voce delle favolatrici e pubblicata in chiara coscienza da una documentazione di carattere scientifico.
Il patrimonio più ricco è offerto, appunto, dalle raccolte della Sicilia e dell’Italia meridionale per opera di valenti etnologi e e studiosi del folclore come G. Pitrè, V. Imbriani e L. Di Francia.
Ecco quindi che, in sintonia con lo spirito di queste premesse, il presente lavoro vuole testimoniare la diretta filiazione e mutuazione genetica di talune leggende e racconti di metamorfosi, diffusi nell’area del Messinese e del Reggino dal multiforme repertorio mitico-letterario del mondo egeo-cretese.
L’esame dettagliato di tali leggende e racconti nelle loro molteplici versioni, alla luce dell’analisi filologico-etnografica di taglio comparativo eseguita, sembrerebbe difatti confortare l’ipotesi di un nesso profondo intercorrente tra questi prodotti popolari e talune fonti classiche riferibili al vasto patrimonio mitico e folkloristico minoico.
Tale ricerca trae, difatti, la sua occasione generativa dalla scoperta nelle storie di Narade nell’area grecanica del Reggino di precisi riecheggiamenti della commedia aristofanesca e del folklore cretese e dal rinvenimento all’interno della celeberrima storia siciliana di Cola Pesce di alcuni echi di nuclei tematici della produzione poetica di Bacchilide ed Ovidio.
In particolare, le fonti classiche sopra citate, costituirebbero, a mio modo di vedere, i rispettivi exempla e archetipi tematici delle testimonianze fiabistiche oggetto di indagine.
Ma veniamo di seguito ad illustrare la storia della Narada e quella di Colapesce



LA NARADA: LA DONNA-ASINA E IL SUO ARCHETIPO MITICO
 

In occasione di un viaggio compiuto nell’area grecanica del Reggino, splendida “Isola alloglotta” della nostra penisola, ho avuto modo di raccogliere preziose informazioni sulle credenze, superstizioni e racconti favolistici del luogo.

Tra quest’ultimi si segnala, per la sua matrice e connotazione arcaica, quello relativo alla Narada, mostro dalle sembianze tra donna e quadrupede (asina o capra), che, secondo la fantasia popolare, si mimetizza per apparire più bella ed è incline a compiere atroci malvagità, come rapimenti e atti di cannibalismo.

Il racconto della Narada, essere maligno, perfido, furbo e antropofago, si tramanda in queste terre da secoli, narrato in famiglia da innumerevoli generazioni che si succedono sugli scanni attorno ai focolari domestici dai ceppi accesi.
Di essa a tutt’oggi si racconta che viva nascosta nei costoni delle montagne e si accosti a individui improvvidi e indifesi nelle ore che vanno dal tramonto al mattino fino al canto del gallo.
Con modi suadenti e lusinghieri tende, presso le fontane o nelle vie deserte dei paesi agli angoli delle case, rovinose imboscate a vittime ingenue e inconsapevoli.
Il suo aspetto esteriore è prevalentemente quello di una donna bellissima e affascinante.
L’unico aspetto negativo è la sua malvagità interiore nella quale si rispecchiano degnamente i suoi piedi d’asina, che atterriscono coloro i quali, imbattutisi in lei, posano fortuitamente lo sguardo sulle sue parti anatomiche animalesche.

La Narada grecanica



Ed ecco in grecanico una novella di Narade:

LI CUMMARI

Mi ‘a vradìa, mi ‘a naràda èghiavi schè mmia yinèca ce tu s’ipe: - cummàre purrò, elàte na plinome?

Cine ynèca ti ipe, manè. Ti imburrì i nnaràda èiavi sìmero ce tise ècrasce. Eghieròtissa ismìa me ta rùga, ce me to vrastàri.

Sa n’arrivespai sto Pizzipirùni, i yinèca ìvro ti i nnaràda èghi ta pòdia a sce gadàra. Tòtò àgronnie tuto, ti nnàrada èghi ta pòdia scè gadara, ti s’ìpe:

· Cummaàre, aminàte ce avlèstemu ta rùga ce to vrastàri, na pao sto spìti, iàti mu èmene ti zicchinia tum cumpàresse.

I nnaràda epìstesse, ce stàdi, ma yinèca de ne condòferre plèo, sa n’ècame impera ce in nnàrada ìvre ti yinèca ene condòferre, ti se anàscie ta màglia ce ti s’èpianne ta vrastàri me to lithàri.



Da una rapida ricognizione condotta su figure similari a quella della Narada esistenti nel patrimonio mitico-letterario e di tradizioni popolari ellenico, emerge con chiarezza un forte parallelismo figurale con il personaggio mitico di Empusa di memoria aristofanesca e con la Neraida del folclore cretese.
In particolare la Narada grecanica richiama fortemente la figura di Empusa, spettro del seguito di Ecate, dea dei crocicchi e delle strade, che, legata al regno dei morti e agli incantesimi, aveva la prerogativa di cambiare repentinamente aspetto.
Prendeva spesso le sembianze di una donna bellissima per attirare gli uomini ai quali succhiava il sangue e aveva una gamba di bronzo e una di letame, dice Aristofane (Rane 285-307):

… Mostri avrei piacere di incontrare qualcuno e avere un’avventura che valga la pena di questo viaggio.
XANTIA: Bravo! Sttt… sento un rumore…
DIONISO: Dove?
XANTIA: Di dietro.
DIONISO: Passa di dietro.
XANTIA: No, davanti.
DIONISO: Passa davanti.
XANTIA: Per dio, ecco un mostro gigantesco.
DIONISO: Com’è?
XANTIA: Tremendo; e prende tutte le forme, ora bue, ora mulo, ora donna bellissima
DIONISO: Dov’è, che mi ci fiondo?
XANTIA: Ma già non è più donna, è un cane.
DIONISO: Allora è l’Empusa!
XANTIA: In effetti ha tutto il viso in fiamme.
DIONISO: E una gamba di bronzo?
XANTIA: E l’altra di escrementi.
DIONISO: Dove posso scappare?
XANTIA: E io?
DIONISO: (al sacerdote di Dioniso, seduto tra gli spettatori in prima fila) Sacerdote, salvami, e poi ti pago da bere!
XANTIA: Eracle, signore, siamo perduti.
DIONISO: Non chiamarmi con quel nome!
XANTIA: Dioniso, allora.
DIONISO: Men che meno. “…”



Forse Empusa deriva il nome da empìno (bere-tracannare) oppure da empàizo, katempàzo (illudere-sorprendere).
Figura speculare alla Narada grecanica, diffusissima nel folclore cretese, è quella dell’incantatrice, la maga, la strega che frequenta le sorgenti e le caverne di Creta, con i nomi attuali di Narada, Neragda o Aneraida.
Tuttora a Creta, come ben testimonia lo studioso Paul Faure [1] si ritiene che le Neraide siano demoni terribili sotto le spoglie di giovani e graziose ragazze, di danzatrici e cantatrici straordinarie e che si incontrano soprattutto la notte nelle vicinanze di luoghi umidi. Esse attirano i giovani nella loro ridda circolare e ne fanno degli invasati.
Il loro nome è sempre considerato come derivato dalla parola “neto” (l’acqua), senza, però, ritenerle divinità del mare.
Vi sono centinaia di racconti annotati sulle Nereidi da P. Faure e da altri folcloristi a Creta dal 1945 fino ai giorni nostri.
Secondo alcuni esse rapiscono i bambini e fanno morire gli uomini attirati fino alle sorgenti delle loro caverne.
Secondo altri danzano sul sentiero vicino alla loro grotta, alla sorgente del fiume: trascinano gli uomini nel loro girotondo facendoli assistere alla loro metamorfosi beluine e, dopo averli privati della voce e dalla virilità, spariscono col canto del gallo.
Dall’analisi delle ricerche compiute da tali eminenti folcloristi risulta che il popolo cretese dei giorni nostri si immagina la Naraida come una creatura a tra la ninfa e l’asina, amante della musica e della danza ma, nello stesso tempo, rapitrice di anime e di bambini.

[1] P. Faure, Fonctions des cavernes cretoises, Parigi 1964 (pp. 229-232)
P. Faure, Ulisse il cretese, Roma 1985 (pp. 55-59)



COLA PESCE: L’UOMO-PESCE E IL SUO ARCHETIPO MITICO

Molto diffusa in tutto il Mediterraneo, specie quello occidentale, è la fiaba-leggenda dell ‘uomo-pesce.
La tradizione orale riferisce, appunto, di un personaggio che, a seconda delle diverse versioni, si presenta ora come essere mitico con connotazioni fisiche fra l’uomo e il pesce, ora come figura umana che per la sua abilità di nuotare e di sprofondare negli abissi marini viene soprannominato “pesce”.
Quest’ultimo è il caso della famosa leggenda di Colapesce che ha destato l’interesse di diversi studiosi italiani fra cui lo stesso Benedetto Croce [1].
Una delle tante lezioni di tale popolare e indigena leggenda siciliana dalle molteplici varianti [2], per i più databile ai tempi di Federico II di Svevia, ma forse ancora più antica come fra poco vedremo, narra di un giovane chiamato Nicola che amava vivere con i pesci ed era un valente e assiduo esploratore del mare.
Le sue inaudite imprese sottomarine richiamarono l’attenzione del sovrano che, a seconda delle versioni, è Federico imperatore o Guglielmo o Ruggero o altri ancora, il quale per mettere alla prova la bravura di Cola, gettò in mare un anello. Cola lo ripescò , ma il re volle ripetere la prova per ben tre volte a alla terza l’uomo-pesce non fece più ritorno dagli abissi marini.
Secondo un antico testo “… fu la sua destrezza e forza nell’acqua tale, che ancora che fosse gran tempesta in mare, egli lo nuotava senza timore…”. Ma è in particolar modo la sua fine che dà al racconto una suggestione poetica e leggendaria: “… essendo adunque costui tenuto in pregio dai cittadini di Messina e riguardato come un miracolo egli in un certo giorno solenne, in presenza di un grandissimo popolo aiutò a ripescare un tazza d’oro, che aveva gettato in mare Federico re di Sicilia, il quale avea comandato a questo Cola che andasse per essa. E avendola egli presa due volte, la terza volta che il re la gettò egli si tuffò per riaverla e non ritornò mai più su, benché fosse aspettato dal re e dal popolo gran pezza invano…”.
Insieme alla sopra citata testimonianza va ricordato che la prima menzione letteraria della leggenda si rinviene in un poeta provenzale del XII secolo d.C., Raimond Jordan.
Fra i successivi chiosatori e cantori della storia si annoverano Fra Salimbene, Gioviano Pontano, Athanasio Kircher, Francesco Pipino, Friederich Schiller, Giuseppe Pitrè, Italo Calvino, Ignazio Buttitta, Dario Bellezza e diversi cantastorie siciliani.
Gioviano Pontano in Urania ne fece una narrazione in versi latini. Il poeta F. Schiller rivisita la storia di Colapesce nella ballata Der Taucher. In tale componimento Colapesce muore per volere riportare ancora una volta alla superficie la coppa preziosa che il suo re per sfida e capriccio, si ostinava a ributtare in mare, con la promessa che avrebbe concesso in sposa la figlia a chi l’avesse recuperata.
Un ricco repertorio di versioni letterarie nella storia di Colapesce si trova poi nell’opera di G. Pitrè, Studi di leggenda popolari in Sicilia e nuova raccolta di leggende siciliane.
La più bella delle diciassette versioni popolari siciliane della famosa leggenda di Colapesce, pubblicata dal Pitrè, Lu Piscicola raccontata da un marinaio della contrada “Vergine Maria”, ai piedi del monte Pellegrino (PA), venne in seguito raccolta da Italo Calvino e inserita in Fiabe Italiane [3].
La riportiamo per esteso:

Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva:
- Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?
E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione:
- Cola! Che tu possa diventare un pesce!
Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì.
La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re; e il Re ordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare.
Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando.
- Cola! – gli disse. – C’è il Re di Messina che ti vuole parlare!
E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re.
Il Re, al vederlo, gli fece buon viso.
- Cola Pesce, – gli disse, – tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede!
Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia.
Dopo un poco di tempo fu di ritorno. Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo.
- E allora Messina su cos’è fabbricata? – chiese il Re. – Devi scendere giù a vedere dove poggia.
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò a galla e disse al Re:
- Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta.
O Messina, Messina,
Un dì sarai meschina!

Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Cola scese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce.
Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce. Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse:
- Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno.
Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò sù disse che il fondo non l’aveva visto, perché c’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua. Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse:
- Gettati dalla cima della Torre del Faro
La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò da lassù in cima.
Il Re ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido.
- Che c’è, Cola? – chiese il Re.
- C’è che sono morto di spavento, - disse Cola. - Ho visto un pesce, che solo nella bocca poteva entrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire m son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina!
Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo il Faro non gli era passata.
E Cola:
- No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura.
Visto che non riusciva a convincerlo, il re si levò la corona dal capo, tutta piena di pietre preziose, che abbagliavano lo sguardo, e la buttò in mare.
- Va' a prenderla, Cola!
- Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno!
- Una corona che non ce n’è altra al mondo, - disse il Re. – Cola, devi andarla a prendere!
- Se voi così volete, Maestà, – disse Cola - scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più.
Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare.
Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie.
Cola Pesce s’aspetta che ancora torni. 







[1] Benedetto Croce, La leggenda di Niccolò Pesce in “Giambattista Basile”, 1885 n.7, Napoli.
[2] Si ricordi a tal titolo, che in Spagna, ad esempio, i vecchi pescatori della costa narrano ancora di un “pesce Niccolò” nato nel villaggio marinaro di Rota presso Cadice e che Cervantes nel Don Chischiotte (episodio in cui il cavaliere si ritrova nella dimora di Don Diego Dal Verde Gabbano) sostiene che egli vive ancora.
[3] Italo Calvino, Fiabe Italiane, Einaudi, Torino 1957



Renato Guttuso, Mito di Colapesce (1985), Teatro Vittorio Emanuele di Messina


In Colapesce di Ignazio Buttitta, indimenticabile poeta dialettale siciliano, è degna di particolare attenzione la scena in cui Ninfa, la fanciulla incinta di Colapesce, si scaglia contro il suo amato con dolorosa furia insultandolo e supplicandolo: Vinisti pi scipparmi l’arma e iu ti cridia n’angilu, un santu, un patri, n’amanti: un galofaru ti cridia!
(trad. “Sei venuto per strapparmi l’anima, io ti credevo un angelo, un santo, un padre, un amante: un garofano ti credevo!”).
Segue la celebre versione da cantastorie della storia di Colapesce :

La genti lu chiamava Colapisci
pirchì stava 'nto mari comu 'npisci
dunni vinia non lu sapia nissunu
fors' era figghiu di lu Diu Nittunu.

'Ngnornu a Cola u re fici chiamari
e Cola di lu mari curri e veni.

O Cola lu me regnu a scandagghiari
supra cchi pidamentu si susteni

Colapisci curri e và.
Vaiu e tornu maestà.

Cussì si jetta a mari Colapisci
e sutta l'unni subitu sparisci
ma dopu 'npocu, chistà novità
a lu rignanti Colapisci dà.

Maestà li terri vostri
stannu supra a tri pilastri
e lu fattu assai trimennu,
unu già si stà rumpennu.

O destinu miu infelici
chi sventura mi predici.

Chianci u re, com'haiu a fari
sulu tu mi poi sarvari.

Su passati tanti jorna
Colapisci non ritorna
e l'aspettunu a marina
lu rignanti e la rigina.

Poi si senti la sò vuci
di lu mari 'nsuperfici.

Maestà! ccà sugnu, ccà
Maestà ccà sugnu ccà.
'nta lu funnu di lu mari
ca non pozzu cchiù turnari
vui priati la Madonna
ca riggissi stà culonna
ca sinnò si spezzerà
e la Sicilia sparirà.

Su passati tanti anni
Colapisci è sempri ddà
Maestà! Maestà!
Colapisci è sempri ddà


Si richiama a tale titolo la pregevole versione cantata da Otello Profazio (1966)





Analizzando le figure dei diversi personaggi mitici del patrimonio letterario ellenico si può riscontrare una certa somiglianza fra il personaggio mitico di Teseo, eroe greco nato a Trezene e figlio del re ateniese Egeo, e quello fiabesco di Colapesce, i cui caratteri sono già stati illustrati in precedenza.
In particolare la vicenda occorsa a Teseo e che richiama quella di Colapesce è narrata nel XVII ditirambo del lirico greco Bacchilide.
Egli nacque a Ceo nel 520 a.C. e vi morì nel 450 a.C. Poco si sa della sua vita: nipote di SImonide (altro lirico greco, gran maestro del ditirambo), seguì probabilmente le orme dello zio negli spostamenti presso le varie corti e città.
Si narra che ci sia stata una rivalità tra il poeta e Pindaro, famoso lirico greco, testimoniata anche nelle loro stesse opere.
L’episodio mitico di Teseo che ha attirato prepotentemente la mia attenzione fa parte de “I giovani”, XVII ditirambo di Bacchilide.
In esso Teseo, figlio di Poseidon, accompagna a Creta il triste tributo di sette giovani e di sette vergini da sacrificare al Minotauro; dinanzi a Minosse vanta la sua discendenza da Poseidon e il re cretese, per mettere alla prova le sue affermazioni, lo sfida a recuperare un anello d’oro da questi gettato in mare.
Teseo riesce nell’impresa e riemerge dai flutti fra le grida gioiose delle fanciulle e i canti di vittoria dei giovani.
Ecco di seguito riportato il passo di Bacchilide nella traduzione del mio compianto e indimenticabile professore di Letteratura greca, Dario Del Corno:
 

e disse “Potente Zeus
padre, ascolta: se a te la sposa
fenicia dalle candide braccia mi generò,
ora manda dal cielo veemente
il fulmine con la sua criniera di fuoco,
certissimo segno; e se tu, Teseo,
nascesti a Poseidon signore dei terremoti
da Etra di Trezene,
quest’aureo fulgente
ornamento della mano
riporta dagli abissi del mare,
calandoti arditamente nella casa di tuo padre.
Vedrai se il Cronide
ascolta la mia preghiera,
il signore del mondo che regna sul tuono.”

Udì l’irreprensibile voto Zeus onnipotente,
e suscitò a Minosse onore
sublime, che tutti riconoscessero
al figlio amato;
e scagliò il fulmine. Ed egli vedendo
il prodigio ambito dall’animo tese la mano
verso il cielo radioso, l’eroe forte nelle battaglie,
e disse: “Teseo, questo dono
di Zeus tu vedi, che è chiaro:
lanciati dunque nel mare,
tra le onde che fremono: il padre
Cronide, Poseidon signore, ti compirà
gloria eccelsa
sulla terra feconda di alberi.”
Così disse: ed a lui non si piegò
l’animo, ma salito sul fianco
solido della nave
si tuffò, e lo accolse
propizio la foresta del mare.
Restò attonito nel profondo del cuore il figlio
di Zeus, e diede ordine di affidare
al vento la nave robusta:
ma altro percorso compiva il destino.

Correva la nave veloce, sospinta
dal soffio robusto di Borea.
Tremarono i giovani –

Di Atene, allorchè l’eroe
si fu lanciato nel mare,
e dagli occhi di giglio versavano
pianto, aspettando la sorte crudele;
ma i delfini abitanti dei flutti
rapidamente portarono il grande Teseo
alla casa del padre, dio dei cavalli,
ed egli entrò nella sala
dove stanno gli dèi. Timore lo prese
al vedere le Ninfe, figlie
di Nereo signore: poiché dagli splendidi
corpi riluceva un fulgore
come di fiamma, e intorno alle chiome
fluttuavano bende
intrecciate d’oro; e danzando con agili
piedi allietavano il cuore.
E vide la cara sposa del padre,
la veneranda Anfitrite dagli occhi fondi
nella dimora mirabile.
Essa lo avvolse in un manto di porpora,
e pose sulle chiome ricciute
una corona stupenda,
fitta di rose, che allora nel giorno di nozze
le diede Afrodite, la dea che ammalia d’amore.
Nulla che vogliano gli dèi
è incredibile agli uomini che usano ragione!
Presso la nave veloce apparve: ah,
in quale sgomento precipitò
il guerriero di Cnosso, allorchè
sorse asciutto dal mare,
stupore per tutti, e a lui lucevano
intorno alle membra i doni divini,
e le vergini dai fulgidi troni
di nuova allegrezza
lanciarono un grido, ed echeggiò
il mare! E di risposta i giovani compagni
cantarono il peana con limpida voce.
Signore di Delo, ai cori di Ceo
gioisci nel cuore,
e assegna sorte divina di nobili eventi.


(trad. di Dario Del Corno)


Un riflesso della fiabesca spedizione di Teseo sul fondo del mare e del suo prodigioso recupero dell’anello ivi gettato dal re Minosse si trova altresì nel “cratere” del Pittore di Siriscos proveniente da Agrigento e conservato al Cabinet Des Medailles di Parigi.
Una eco di tale impresa eroica si rinviene anche nel fregio pittorico del Theseion di Atene, opera di Micone, oggi andata perduta, di cui fa menzione lo scrittore- periegeta Pausania.
Nell’episodio di Teseo riferitoci da Bacchilide credo giustamente di aver rinvenuto l’archetipo mitico della storia di Colapesce, date la concordanza e le affinità tematiche rilevate e di seguito elencate: una prima affinità è la prova che i due eroi devono superare. Nelle diverse versioni della storia di Colapesce, infatti, il ragazzo deve recuperare un oggetto prezioso gettato in mare dal re; nella più antica l’oggetto è un anello, lo stesso che deve recuperare Teseo per dimostrare a Minosse che suo padre è il re del mare, Poseidon.
Un altro elemento in comune è l’assistenza prestata dai delfini ai protagonisti: questi animali aiutano gli eroi a superare la prova; essi rappresentano l’appartenenza al mare dei due personaggi.
Un’altra presenza comune alle due leggende è quella della principessa che si innamora del protagonista: difatti nella leggenda di Teseo la principessa è Arianna, figlia di Minosse, e spesso anche in quella di Colapesce c’è la figura della figlia del re dal nome quasi mai specificato.
Un’altra caratteristica comune è la discendenza di Teseo da Poseidon e di Colapesce da Nettuno secondo quanto testimoniato nelle versione orale di taluni cantastorie siciliani (“Forsi era figghiu dillu diu Nettuno”). 





Da tutte queste concordanze si può dedurre che la storia di Colapesce abbia origini da un mito preellenico, per l’appunto cretese, che poi si è largamente diffuso in Sicilia durante il periodo della seconda colonizzazione greca.
Infatti in quell’epoca si diffusero ampiamente in Sicilia dei racconti portati in quella regione dai primi coloni minoico-micenei che avrebbero narrato, ognuno a suo modo, la vicenda mitica di Teseo.
Questa, come ho cercato di dimostrare, potrebbe quindi costituire l’archetipo mitico della leggenda di Colapesce sviluppatasi nei secoli, con numerose varianti, dal ditirambo di Bacchilide.
Una ulteriore eco tematica della storia di Colapesce, che conforterebbe ancor di più la tesi da me sostenuta di una derivazione di essa dal mito classico ,sarebbe rinvenibile nella Metamorfosi di Ovidio.
Nel XIII libro delle Metamorfosi, difatti, il poeta latino Ovidio narra la storia di Glauco, pescatore di Antedone in Beozia, che da mortale, per il suo smisurato amore per il mare, divenne un dio dell’acqua dalle fattezze a metà tra uomo e pesce. Innamoratosi di Scilla, fu da questa respinto.
Ecco di seguito riportata la fonte ovidiana:

Galatea aveva finito il suo racconto. Le Nereidi,
sciolto il convegno, si allontanano nuotando nelle onde tranquille.
Se ne va anche Scilla, ma non osando avventurarsi in mare aperto,
vaga senza vesti addosso sulla spiaggia assolata
e alla fine, ormai stanca, trovata una caletta appartata,
si rinfresca le membra nell'acqua che lì ristagna.
Ed ecco che fendendo i flutti, arriva Glauco che, mutate
le membra ad Antèdone in faccia all'Eubea, solo da poco viveva
nell'oceano; vede la vergine e per il desiderio si arresta,
le rivolge tutte le frasi che pensa possano trattenerla.
Ma lei, resa veloce dal timore, fugge, fugge
e raggiunge la cima di un monte che sorge vicino alla spiaggia.
È una grande altura che, salendo con un lungo pendio dall'acqua
verso il cielo, culmina in un'unica punta di fronte al mare.
Qui lei si ferma e, da quel luogo sicuro, indecisa se quell'essere
sia un mostro oppure un dio, ne guarda stupita il colore,
i capelli che gli coprono le spalle giù sino al dorso
e si meraviglia che dall'inguine si affusoli come un pesce.
Glauco se ne accorge e, aggrappandosi a uno scoglio lì vicino:
“Non sono un mostro, vergine, né una belva feroce,
ma un dio dell'acqua” dice. “E di me non hanno sul mare
più potere Pròteo, Tritone o Palèmone, il figlio di Atamante.
Prima però ero un mortale, ma a dire il vero già allora
il mondo mio era il mare profondo e già allora lo dominavo.
A volte trascinavo reti ricolme di pesci,
altre, seduto su uno scoglio, pescavo con canna e lenza.
Al margine di un prato verde c'è una spiaggia:
su questa si riversa il mare, il prato è coperto di un'erba
che nessuna giovenca selvatica ha mai violato coi suoi morsi,
che voi, placide pecore o irsute caprette, avete mai brucato.
Mai lì, col loro zelo, le api colsero dai fiori il polline,
mai lì si son fatte ghirlande per le feste, mai una mano armata
di falce vi è passata. Io fui il primo a sedermi
su quelle zolle, mentre facevo asciugare le reti bagnate,
e per contarli in bell'ordine sopra vi disposi
i pesci catturati, quelli che il caso aveva sospinto
nelle reti o la loro ingenuità sugli ami adunchi.
Parrebbe un'invenzione, ma inventare che mi gioverebbe?
a contatto con l'erba, la mia preda cominciò ad agitarsi,
a mutar lato e a guizzare sulla terra come fosse nell'acqua.
E mentre trasecolo impietrito, l'intero branco
si rituffa nel mare abbandonando la spiaggia e il nuovo padrone.
Rimango attonito, a lungo in dubbio e cerco la causa:
se opera sia stata di un nume o del succo di un'erba.
'Ma quale erba può avere questo potere?' mi dico, e con la mano
ne colgo un ciuffo e, quando l'ho colto, lo mordo con i denti.
La gola aveva appena assorbito quel succo misterioso,
che improvvisamente sentii dentro di me un'agitazione
e in petto il desiderio travolgente di un'altra natura.
Non potei resistere a lungo. 'Addio, terra, addio!' dissi.
'Mai più ti cercherò!' e con tutto il corpo mi tuffai sott'acqua.
Gli dèi del mare mi accolsero, onorandomi come loro pari,
e pregarono Oceano e Teti di togliermi ciò che di mortale
potevo ancora avere. Purificato sono da loro
che, pronunciata la formula contro le impurità nove volte,
ordinano che ponga il mio petto sotto il getto di cento fiumi.
E di colpo fiumi scendono da ogni parte
e mi rovesciano addosso un diluvio d'acqua.
Questo è tutto ciò che posso narrarti di quell'evento incredibile.
Solo questo ricordo: di altro non serbo memoria.
Quando rinvenni, mi sentii diverso in tutto il corpo,
diverso da com'ero, e mutato persino nella mente.
Allora mi accorsi di questa barba color verderame,
di questa chioma che trascino sulle distese del mare,
di queste grandi spalle, delle braccia azzurre
e delle gambe che attorcigliate terminano in pinne di pesce.
Ma che mi serve questo aspetto, l'esser piaciuto agli dei marini,
essere un dio, se tutto ciò ti lascia indifferente?". Stava ancora
parlando, e avrebbe detto di più, se con sdegno Scilla
non l'avesse abbandonato. Lui s'infuriò e irritato dal rifiuto
si diresse verso il palazzo incantato di Circe. 


Teseo e Anfitrite. Coppa attica a figure rosse, opera del vasaio Eufronio e del pittore Onesimo (ca. 490 a.C.). Parigi, Louvre.
 


CONCLUSIONI

Con l’elaborazione di questo breve saggio ho cercato di dimostrare attraverso la disamina attenta di numerose fonti mitico – letterarie che esistono sovente stretti rapporti di filiazione e mutuazione tra i miti antichi e la fiaba popolare.
Dapprima si è analizzato la figura della Narada grecanica e si è notato che la struttura della sua leggenda e la natura del suo aspetto fisico e della sua personalità, sono ricollegabili ad una figura del pantheon greco classico, quella appunto di Empusa, descrittaci da Aristofane nella commedia Le rane, nonché al personaggio omonimo del folklore cretese odierno.
Studiando poi minuziosamente anche la fiaba-leggenda di Colapesce, specialmente nella versione tramandataci dai cantastorie siciliani, si è riscontrato nella sua articolazione narrativa e nella descrizione dei luoghi e dei personaggi che la connotano, elementi riconducibili ad un episodio del mito di Teseo descrittoci da Bacchilide nel XVII ditirambo I giovani. Non mancano in essa, tuttavia a mio avviso, echi letterari del mito di Glauco riportato da Ovidio nel XIII libro delle Metamorfosi.
Ritengo pertanto che gli archetipi mitici delle storie da me esaminate (Narada e Colapesce) siano costituiti da arcaiche storie elleniche diffusesi con molta probabilità in Magna Grecia ed in Sicilia sin dai tempi della prima colonizzazione minoico- micenea (XIV-XII secolo a.C.).
Nelle terre ellenizzate, difatti, le popolazioni indigene assorbirono e acquisirono, spesso trasformandole, le leggende e i miti, che i coloni greci colà diffusero. Col passare dei secoli, questi miti subirono delle modificazioni tematiche e furono tramandati oralmente a tutte le generazioni successive fino a giungere a noi come “relitti” affascinanti riaffioranti dal “mare della Storia antica”.
A conclusione di questo mio studio, mi auguro che gli esiti delle ricerche da me condotte incontrino l’interesse e il favore di chi vorrà riservarmi l’onore di leggere il presente saggio.
Auspico altresì che quest’ultimo contribuisca, anche se in misura modesta, ad accreditare e convalidare ulteriormente il bellissimo pensiero dell’insigne studioso P. Faure, elemento spia e cometa di tutta la mia ricerca: “Una grande civiltà non può morire tutta intera, colare a picco con tutti i suoi uomini e tutti i suoi apparecchi. Di un naufragio resta sempre qualche cosa”.


BIBLIOGRAFIA

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· Bacchilide, XVII ditirambo “I giovani
· Bellezza D., Colapesce di Torre Faro, “XXV artisti per un mito: Colapesce” , Messina 1995
· «Bell’Italia», aprile 1996, speciale Calabria.
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· Diodoro Siculo, Biblioteca storica
· Di Francia L., Fiabe e novelle calabresi, Torino 1929- 1934
· Dorsa V., L’origine greco-latina delle tradizioni calabresi, CBC edizioni
· Eliade M., Trattato di storia e delle religioni
· Faure P., Fonctions des cavernes crétoises, Parigi 1964 (pp. 229-232)
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· Pitrè G., Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, Palermo
· Pitrè G., La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano
· Pitrè G., Studi di leggende popolari in Sicilia, Torino 1804
· Poestion J., C., Lapplandische Marchen, Wien 1886 (pp. 122-126)
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· Propp V., Edipo alla luce del folclore, Torino 1975
· Propp V., Le radici storiche dei racconti di fate, Torino 1972
· Propp V., Morfologia della fiaba, Torino 1966
· Rohlfs G., Dizionario dialettale delle tre Calabrie, Halle, Milano 1933-1939
· Rohlfs G., Studi e ricerche su lingue e dialetti d’Italia, Firenze 1972
· Schiller, Der Taucher

mercoledì 10 settembre 2014

Il tempo delle mani di Patriza Rigoni III al Premio Michelangelo!

http://www.faraeditore.it/html/siacosache/tempomani.html


Il tempo della mani si classifica terzo nella sez. Narrativa Edita del Premio “Michelagelo” (Associazione Il ventaglio di Ovada, AL) presieduto da Bruna Sbisà. Ecco la recensione di Angelo Garavagno:

“Mani Grandi, Mani senza fine” diceva Paoli e non aveva bisogno d’altro per definire tutto.
Leggendo Patrizia Rigoni spesso fui percorso da intensi brividi, sorprendendomi così simile a Lei, per il solo fatto di possedere anch’io due mani, per ricordarmene decine d’altre , di quanto da queste fui condizionato, quante ne odiai e quante ne amai.
Odiai le mie quando da quattordicenne la mia insegnante di piano mi diceva: “Hai la testa di Listz, l’estensione di Thalberg, ma le dimensioni di un maniscalco. Le mie dita non entravano fra il do diesis ed il re diesis, per prendere il re naturale e pertanto avevo difficoltà nel Gradus ad Parnassum. Ma neppure riuscivo nel lento e maestoso Preludio n° 20 di Chopin. Ma facendo “Trasporti”? Vabbè c’è sempre un rimedio a tutto, ma la musica non vuole succedanei. Molto tempo dopo vidi il calco delle mani di Rachmaninov e mi rammaricai di avere gettato la spugna: Serghiei aveva mani peggio di un minatore!
Il cervello dei primi ominidi iniziò ad ingrandirsi sia a causa del “Processo Pelvico” che consentì alla testa del femore di rendere eretta la postura umana, ma anche a causa delle mani, così versatili, così forti e prensili, così delicate nel carezzare e così possenti e minacciose nel brandire un sasso, un bastone, una punta di lancia.
Pensate come rimasero indietro gli altri primati che di mani prensili ne avevano addirittura quattro?
Loro sono rimasti all’utilizzo di qualche ramoscello infilato nei fori di un termitaio o al massimo a qualche sasso per spaccare il guscio delle noci. Tuttavia l’inizio fu lentissimo per il metro attuale e ci vollero almeno un paio di milioni d’anni perché l’Homo Erectus imparasse ad accendere il fuoco, mentre ne bastarono meno di 60 per passare dalla prima transvolata della Manica di Bleriot al volo trans planetario.
Se fu tutto disegno divino perché il Creatore immaginò tempi così stranamente diversi?
Perché le nostre due mani funzionarono così bene, mentre così poco le quattro mani degli scimpanzè?
La nostra Rigoni non si impantana in cose del genere e fa delle SUE MANI tutto il proprio microcosmo relazionale, affettivo, intellettuale e caratteriale.
Le mani a Lei vicine sono lo specchio dell’anima, quasi la ragione dell’essere.
Sicuramente la reminescenza di un mondo escatologico.
Il tutto condito con un italiano frizzante, poliedrico, ammiccante, incalzante e gradevolissimo.
Peccato che il flûte di Dom Perignon finisca troppo presto!

lunedì 8 settembre 2014

UNA CONVERSAZIONE SUL PAESAGGIO CON VITALIANO TREVISAN


di Alessio Franzin


Padova, 26 agosto 2014, Teatro Verdi

Vitaliano Trevisan è puntuale, arriva alle 10 del mattino, come promesso. Chiede di bere un caffè prima di cominciare. Poi saliamo assieme all'ultimo piano del Teatro Verdi, mi fa strada verso l'ufficio del direttore del teatro. Ci accomodiamo e iniziamo una lunga chiacchierata sul paesaggio.

ALESSIO: Ne “Il paesaggio – dalla percezione alla descrizione”, in un suo saggio Salomon Resnik dice: “Ogni percezione è allo stesso tempo una proiezione sulla cosa percepita. Ogni percezione è dunque intenzionale (Brentano). Percepire è così un modo di proiettarsi su una certa realtà, sintetizzarla e introiettarla e rappresentarla attraverso lo spazio e il tempo.” 
E poi ancora: Ogni percezione è un'interpretazione intenzionale della cosa.” Per quanto riguarda la percezione del paesaggio lei è d'accordo? Le nostre visioni e interpretazioni del paesaggio sono sempre determinate da un atti intenzionali, voluti?

VITALIANO: No, non sono molto d'accordo, francamente. Quello che io cerco di fare è non pensare, specie quando cammino. Poi gli stimoli arrivano certo, e io cerco di interpretarli secondo una qualche griglia logica. Questo deriva probabilmente dai miei studi tecnici, mi sono diplomato come geometra. Poteva andare diversamente, avrei potuto diventare un geometra per professione, invece scrivo, è andata così. Oltre che sul paesaggio comunque leggo molto anche di architettura, anche questo forse è un retaggio dei miei studi tecnici. Quando leggo libri o saggi sul paesaggio spesso mi arrabbio, perché mi trovo in disaccordo con chi scrive, specialmente sul tema della percezione. Di questo ho anche discusso con Franco Zagari, un paesaggista molto famoso. A differenza sua io mi attengo al vocabolario: per me il paesaggio è ciò che appare simultaneamente alla vista. Per quanto poi riguarda la percezione, questo non è il mio campo, è più un argomento da affrontare a Scienze della Comunicazione.

A: L'uomo è da sempre portato in maniera innata a confrontarsi con il paesaggio, a legarsi ad esso e a indagarne i significati. Secondo lei da cosa è determinato questo legame? Qual'è questa forza che ci lega al paesaggio naturale?

V: Questa è una questione già più complessa. Ormai il paesaggio non è più una questione solo naturale, anche se così può sembrare, ma anche artificiale. E qui entra in gioco molto la cultura del luogo, o almeno credo. Guarda ad esempio le colline toscane o i colli veneti nelle zone del Prosecco. La cultura del prosecco, e la devastazione che provoca, è tutto tranne che naturale. Sì, di base c'è la coltivazione delle viti, ma poi ci sono elicotteri, pesticidi... Il problema è che per definire questioni importanti sul paesaggio, in Italia si saltano gli ultimi sessant'anni, di storia e di cultura. Anche solo per definire l'ideale di paesaggio veneto, si ritorna sempre a Zanzotto, saltando chi è venuto dopo, per quanto importante possa essere. E questa è una negazione della realtà. C'è un grosso sforzo per definire il paesaggio, ma è una sforzo destinato a rimanere vano finché non si smetterà di saltare a piè pari gli ultimi sessant'anni.
La domanda era sul legame con il paesaggio. Il fatto è che questo legame ora è molto legato anche all'immagine. Guarda ad esempio i video musicali di Zucchero o Vasco Rossi, girati in vecchi capannoni fatiscenti. Loro però si guardano bene dal vivere in posti come quelli, in quelle periferie abbandonate. Vivono in grandi ville, lontano da tutto e tutti. E, per uno come me, cresciuto in periferia, è un motivo di grande fastidio.

A: Secondo lei la parola, quindi il linguaggio, è un buon metodo per raccontare il paesaggio? Ad esempio, secondo Pavese, era un metodo perdente, che finiva per evidenziare il limite umano e provocare una crisi allo scrittore.
 
V: Ho avuto un sussulto alla parola “raccontare”. È un termine col quale ho un rapporto difficile ultimamente, perché è sempre più legato alla comunicazione, cioè alla pubblicità. Oggi si racconta un prodotto, un brand. Preferisco parole come descrivere o evocare. Ecco, evocare è forse il termine migliore per descrivere il mio mestiere. Evocare immagini dal nulla. Io voglio fare tutto tranne che comunicare quando scrivo. Ed è la stessa ragione per cui non leggo romanzi, perché ci sento dentro comunicazione e non scrittura. La scrittura però si può usare per realizzare un progetto, come ne I Quindicimila Passi: con la scrittura si può costruire, ad esempio una torre di vetro, in quel caso.

A: Esiste secondo lei un modo per poter convivere pacificamente col proprio paesaggio? O si può essere in pace solo con un paesaggio che non ci appartiene, al quale siamo quindi meno legati?

V: Questa è una bella domanda… Ad esempio, un buon metodo per convivere pacificamente con il proprio paesaggio è quello di non vederlo, ed è esattamente quello che fa la grande maggioranza delle persone. La gente non vede il paesaggio. Il modo migliore per vederlo è quello di camminare in mezzo ad esso, attraversando la periferia diffusa; ma nessuno o quasi cammina più, e i pochi che lo fanno sono costretti a seguire piste ciclabili o aree pedonali, quindi non vedono il paesaggio. Direi che la maggioranza della gente vive assolutamente in pace.

A: Dalle sue pagine traspare un tangibile disagio per il disfacimento del paesaggio veneto. É un disagio che lei sente sulla sua pelle, o è un disagio che immagina comune e del quale si fa solo portavoce?

V: Il disagio che descrivo è assolutamente personale. È il disagio che sento sulla mia pelle.

A: È d'accordo che un rapporto maturo e sereno con il proprio paesaggio debba passare inevitabilmente per una fase di crisi? E che quindi una maturazione possa derivare solo dalla crisi, dal dolore? 
 
V: È una questione difficile… Io credo che fondamentalmente si debba accettare la realtà. E soprattutto non ancorarsi al passato, di cui i centri storici sono un triste esempio.

A: Lei ha coniato un'espressione: “tristissimi giardini”. Potrebbe spiegare cosa intende con essa?

V: Io parlo dei giardini del mio paese. L'espressione “tristissimi giardini” è stata usata inizialmente da una scrittrice che conoscevo, per descrivere dei giardini di una periferia che lei non conosceva pienamente. Io intendo dire che sono tristi i giardini standard di oggi, in cui si cerca il più possibile di eliminare la crescita spontanea delle piante. Si tende a creare un unico grande prato, possibilmente all'inglese. Al massimo c'è lo spazio per qualche ulivo secolare. Niente a che vedere con i bei giardini di una volta, che stanno scomparendo. Erano ricchi di alberi, di piante anche spontanee, erano personali, e soprattutto erano espressione di una cultura che si è persa.

A: Lei vede qualche via d'uscita, qualche soluzione al progressivo disfacimento del paesaggio veneto?

V: Credo che, come primo punto, si debba prendere coscienza della situazione reale in cui viviamo. Poi, si dovrebbero censire in qualche modo tutte le costruzioni di cui il territorio è costellato. Infine, conseguenza diretta dei primi due punti, si deve smettere di costruire. Abbiamo strutture in abbondanza, e alcune sono anche belle. Non c'è bisogno di aggiungere altro, semmai di togliere.

A: Ha una parola di speranza o di conforto per chi, come lei, avverte il dolore per la distruzione del proprio paesaggio?

V: Speranza, in generale, zero. Perché le politiche edilizie del nostro Paese sono totalmente sbilanciate e non sono all'altezza della situazione. Inoltre, c'è da aggiungere che, da Machiavelli in poi, la corruzione è una costante. A tutti i livelli, non solo ai vertici. E questo non mi consente alcuna speranza in un miglioramento.

A: Le propongo, per chiudere, una specie di gioco: se lei dovesse salvare un solo elemento del paesaggio veneto dal disfacimento, dalla rovina, quale sceglierebbe? Può scegliere un luogo, un paese, un fiume, un albero, qualunque cosa faccia parte del paesaggio che lei conosce e ama.

V: Salverei sicuramente la “Rocca Pisana” di Vincenzo Scamozzi, che si trova a Lonigo, in provincia di Vicenza. È la mia casa preferita in assoluto.

Il nostro tempo è concluso. Ci salutiamo cordialmente con una stretta di mano.