domenica 31 agosto 2014

Su Un senso del viaggio: il ritorno di Francesco Di Sibio

recensione di Vincenzo D'Alessio




Scorrendo le pagine dell’immenso diario di viaggio intitolato Letteratura … con i piedi pubblicato da Fara Editore 2014 e curato da Alessandro Ramberti si scorgono le diverse testimonianze presentate alla Kermesse che si è tenuta a Perugia dal 21 al 23 marzo di quest’anno. La dolcezza per antonomasia della città dei “baci perugina” e l’immenso dolore dei testimoni dei viaggi dei propri antenati, delle esperienze dirette, dei cammini interiori affidati all’anima.
Francesco Di Sibio è figlio di un ritorno: dalla Toscana fremente di attività e patria della Lingua Italiana, all’Irpinia verde di Speranza, del dialetto, e limitata dalle forze ctonie sempre pronte ad aggredire i giovani: «Viene fuori ancora quella propensione al viaggio, declinato a volte in senso romantico come di salvezza, (…) e passeggiare lungo “via Limiti” per scorgere un orizzonte lontano che spinge a guardare altrove e a sentirsi pronti al prossimo viaggio» (pag. 70). Limiti imposti da millenni, dalla dominazione di Roma sui popoli del Sannio-Irpino, lezioni della distruzione di una Civiltà che si oppose all’espansionismo fondato sulla violenza.
Dalla lezione fornita in più occasione dai Romani, dalle dominazioni straniere successive; dai baroni padroni della maggior parte delle terre (vedi il toponimo territoriale “Baronia” diffuso in tutta la Regione Campana), fino alla subita Unità d’Italia, la popolazione dell’Irpinia ha conosciuto l’allontanamento dai luoghi natali, il rivolgersi ai politici e ai preti di turno per ottenere un posto di lavoro e finalmente restare nella propria terra. Ma per chi non sceglie questa strada di sottomissione quale sorte è riservata?
Di Sibio nel suo forte intervento lo indica nei Versi Panoramici: «(…) Il primo barlume dei sogni / nel tornare con la mente prima che col corpo / ed eccola all’apice del bosco / una linea che si staglia offendendo il cielo / un’antenna che capta i segnali del sangue» (pag. 71). Com’è profondo il senso dell’appartenenza corpo/anima/sogno impossibile dividerli, impossibile dominare il fiume carsico del sangue che ci unisce da millenni agli emigranti, all’offesa che appartiene ai popoli costretti a varcare la sicurezza della soglia domestica.
Nella lezione attualissima del Nostro tornano le testimonianze dell’ottimo lavoro di Zina Righi Il coraggio dei sogni (Fara Editore, 2005) che scriveva: «(…) E soprattutto che l’equivalenza emigrazione-disoccupazione che abbiamo assunto fin dall’inizio come una bandiera sul terreno dell’emigrazione, è ancora valida. La disoccupazione si ripropone continuamente e ciò costituisce la riprova del fatto che l’emigrazione non rappresenta quel rimedio, quella risorsa che si è sempre creduto» (pag. 39). Di Sibio trasmette dai versi contenuti nel suo intervento sul viaggio la stessa intensità morale: «(…) Eppure non è teatro, è vita di un giorno che va / e vita di un giorno cui mi preparo» (pag. 72).
Il senso dell’andare, dell’ignoto necessario, che traspare dai versi di Francesco Di Sibio sono cari a tutti i poeti meridionali primo fra questi Rocco Scotellaro nella ballata Sempre nuova è l’alba: «(…) Ma nei sentieri non si torna indietro. Altre ali fuggiranno dalla cova, / perché lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova.»

Non si torna indietro dal viaggio immemore perché il tempo ferma il dialetto, la fede, le abitudini alimentari, gli odori, la musica, i colori al momento del distacco. Quando si torna molto è cambiato ed è difficile, se non impossibile ricollocarsi. Si soffre l’inganno del tempo che domina come il barone dei luoghi che abbiamo lasciato.
Il Nostro lo trasmette nel paragrafo 3 “Andata e ritorno”: «L’andata è composta dalla preparazione, (…) Il ritorno è in breve sostanza il bearsi di quanto vissuto senza assilli e/o affanni. (…) Quindi il ritorno è ritrovarsi a casa, qualunque essa sia. Per me casa è la terra che mi ha generato, non dove sono nato, ma dove vivevano i miei genitori e dove ora vivo anch’io. È la terra che mi parla senza bisogno di altro, se non di camminarci sopra» (pag. 74). Forte è la contraddizione nei pensieri dell’Autore: «terra che mi ha generato, non dove sono nato», il dissidio che accompagna tutti i ritorni, la memoria che cerca di annodare i fili, le radici che ascoltano la voce dei propri morti per continuare a sentirsi partecipi. Ma non sempre ci riescono!: «(…) Come sono lontani da qui, l’inganno si sporge, / i deserti di sentimenti, / le emozioni represse.» (La campana e l’inganno, pag. 74) 

Francesco Di Sibio raccoglie nel suo intervento la voce dei tanti migranti e ripete: «Io sono figlio di un ritorno» (pag. 75). Lo zio emigrato a Buenos Aires, i genitori emigrati vicino Santa Croce sull’Arno, l’Oceano mare e il Mare Nostrum: «(…) la musica / straziante come un lamento antico e lontano»(pag. 69). Il miracolo italiano era un miraggio, lo sarà sempre, perché le forze oneste emigrano, emigrano sempre. L’Autore segna questa propensione al distacco con l’anafora nei suoi versi: «(…) Da qui partirono i miei genitori, / qui tornava mio nonno alla fine dell’estate, / qui l’altro nonno riposava dopo la tournée europea col circo, / qui giunsi bambino con una parlata diversa, / qui appresi le parole che hanno senso, / qui nacquero sogni quasi tutti infranti.» (Nella terra d’Irpinia, pag. 75)


Sergio Pasquandrea vince il Concorso Faraexcelsior 2014!

Fara Editore e i giurati della sez. Romanzo breve o raccolta di racconti (per la sez. Poesia v. farapoesia.blogspot.it) Ardea Montebelli, Giorgio Massi, Gloria Visani, Silvia Sanchini, Stefano Martello sono lieti di comunicare che 
 

Primo classificato e unico vincitore
 
del concorso Faraexcelsior 2014 è


Volevo essere Bill Evans  di Sergio Pasquandrea (Perugia)

 



Sergio Pasquandrea è nato nel sud-est della Penisola, in uno degli ultimi decenni del secolo scorso. Il destino, che egli corteggia spassionatamente, lo ha poi portato a trasferirsi nel centro esatto dello stivale. La poesia, da lui amata di un amore che sconfina nel masochismo, a volte gli ditta dentro. Lui scrive. Lei scuote la testa, sconsolata. Quando la Musa tace, Sergio dispone di numerosi altri modi per far danni: l’insegnamento, il giornalismo musicale, la ricerca universitaria, il disegno, la tastiera di un pianoforte. Ha due figli che adora e una moglie che si guadagna la santità sopportandolo. Fra le ultime pubblicazioni, un racconto/saggio inserito in Letteratura… con piedi.




Trenta secondi di pura bellezza

“Quando ascolti la musica, dopo che è finita,
è andata nell'aria, non puoi più catturarla di nuovo”.
(Eric Dolphy)

Il jazz è musica di attimi. È fatto di illuminazioni fulminee, di bellezza che lampeggia e poi svanisce nel volgere di secondi; o frazioni di secondo. L’importante non è mai il prima o il dopo, ma l’ora. Here and now. To be in the moment è una delle espressioni più usate dai musicisti per descrivere il perfetto stato mentale, quello indispensabile per creare grande musica.
E ci sono momenti, nel jazz, che sembrano condensare la bellezza in dosi quasi insopportabili: la prima nota dell’assolo di Miles Davis su So What, l’inizio del riff in fa minore di A Love Supreme, l’introduzione di Louis Armstrong su West End Blues.



Era il cinque dicembre del cinquantasette.

Sugli schermi americani andava in onda un programma intitolato “The Sound of Jazz”. La rete televisiva CBS aveva messo insieme un cast di giganti: Ben Webster, Lester Young, Gerry Mulligan, Roy Eldrige, Coleman Hawkins, Count Basie, Pee Wee Russell, Thelonious Monk, Mal Waldron. Una sfilata di leggende.

A un certo punto, a circa metà del programma, cominciò a cantare Billie Holiday. Il pezzo era un blues, intitolato Fine and Mellow: uno dei rari blues del repertorio di Billie, grande blues singer che di blues veri e propri non ne cantò quasi mai.

Nella band, tra i sassofonisti, c'era anche Lester Young. Che quel giorno stava male e non avrebbe voluto nemmeno suonare. Aveva quarantotto anni, ma era come se ne avesse avuti cento. Troppa vita, troppa sofferenza, troppa musica, troppa robaccia nelle vene. Billie ne aveva quarantadue, ma non è che cambiasse molto: non aveva più che un filo di voce, la sua arte si era consumata nell’alcool, nella droga, in una vita vissuta senza risparmiarsi niente.

Pare che i due, una volta amici fraterni (qualcuno dice anche amanti), da qualche tempo non si parlassero quasi più.

Ma arriva un momento, dopo il tema cantato da Billie, dopo l’assolo di Ben Webster; un momento in cui Lester Young si alza, raggiunge il microfono e comincia a suonare, ciondolando un po’ da una parte all'altra.

E fa uno degli assolo più belli della sua vita.

Sono poco più di trenta secondi: quattro o cinque frasette blues, semplicissime, elementari. Non più di una cinquantina di note, in tutto. Ma ognuna sembra spremuta dal midollo di un’intera esistenza passata tra il fumo dei locali e il fondo delle bottiglie, ognuna arriva leggermente in ritardo, come se non volesse lasciare lo strumento, cedere il passo alla successiva (il termine tecnico è to lay back, ma da solo dice poco o niente).

E  poi, la faccia di Billie. Appena Lester comincia a suonare, lei si volta e lo guarda, inclinando la testa, con una tenerezza da stringere il cuore: socchiude gli occhi, annuisce. Sì, sembra pensare, è sempre lui, è il vecchio Prez. Che cosa sarebbe il mondo, senza quel sax?

È un attimo. Ed è stato definito “il più bell’assolo muto della storia del jazz”.

Poi, appena l'assolo di Lester è finito, Billie ricomincia a cantare



A tutti e due, Billlie e Lester, restava poco da vivere, e forse lo sapevano. Lester Young avrebbe trascorso i suoi ultimi mesi in una stanza, sigillato in un mutismo autistico, senza più suonare, guardando il mondo che passava dietro i vetri, nutrendosi solo di whisky. Morì il quindici marzo del cinquantanove.

Billie lo seguì poco dopo: il treuntun maggio dello stesso anno fu ricoverata per una crisi epatica. Un poliziotto stazionava davanti alla sua camera, perché era sotto arresto per possesso di droga, per l’ennesima volta. Se ne andò il diciassette luglio, sola. In banca aveva settanta centesimi, addosso settecentocinquanta dollari in contanti.

Due morti squallide. Eppure basta, da solo, quell’attimo; bastano quei trenta secondi di bellezza abbagliante, a riscattarle di fronte all’eternità.

È tutta questione di attimi. (…)

Giudizi

Brutte bestie gli appassionati. Di qualunque genere. Con il loro assolutismo, la loro autoreferenzialità di genere, i loro continui maledettissimi rimandi a fatti ed eventi che i loro interlocutori spesso bollano come insignificanti. Con qualche rara eccezione. Questa. Un magnifico viaggio, apparentemente privo di mappe e bussole, con un punto di partenza difficile (per un profano che, come me, percepisce qualche cosa di buono in una giornata buona) che diventa improvvisamente semplice. Pieno di rimandi e note a pié di pagina facili da individuare. Pieno di nomi, di vita, di strane manie e di luoghi. Appassionante e appassionato. (Stefano Martello)

Il Jazz è una questione di feeling: non ci sono mezze misure, o ce l’hai o non ce l’hai. In questo racconto, pieno di passione, l’autore trasmette perfettamente la corporeità della musica, il suo entrare quasi prepotentemente nella vita scandendone il ritmo. (Ardea Montebelli)

Per la competenza e la passione. Perché, con una prosa chiara e moderna, ha solleticato la mia curiosità umanizzando un genere musicale col quale non sono mai andata d'accordo. (Gloria Visani)

Chiunque ami la musica (in particolare il jazz) non potrà che rimanere sbalordito e divertito da questi racconti che testimoniano una fortissima passione, grande competenza, sincera curiosità e profondo rispetto per le biografie dei più grandi musicisti jazz della storia. (Silvia Sanchini)
 
Opere selezionate
 
Hermann mille anni dopo di Alessandro Domenighini (Valcamonica)

Alessandro Domenighini è nato nel 1974, vive in Vallecamonica. Ha svolto varie attività professionali, più o meno connesse con una laurea in Giurisprudenza e un master in Economia. È sposato con Anita e padre di Marta, Saverio e Giovanni. Gli piace scrivere brevi racconti, canzoni, teatro, vignette, blog. Gioca a scacchi e ama la sintesi.

La vita del beato Hermann ha qualcosa di meraviglioso e terribile, come capita spesso per le fiabe dei tempi che furono. Bambino deforme di una nobile famiglia del Medioevo, venne abbandonato in un monastero per la vergogna che provocava. I parenti suggerirono più sbrigativamente di ucciderlo, perché allora, si sa, regnava la barbarie. Contro ogni previsione Hermann sopravvisse, divenendo un monaco tra i più colti e capaci del suo mondo. Lo chiamarono miraculum saeculi: consigliere di papi e imperatori, scienziato e poeta, astronomo e musicista. Ogni volta che cantiamo il Salve Regina dovremmo pensare a lui. Forse lo scrisse immaginando la carezza della mamma che non ebbe.


Il giorno fissato Sarah e Agostino vanno in clinica al mattino presto. Passano accanto a un grande albergo con la sua insegna blu. È così difficile dire “H di Hotel”? Un neutrale, corretto, laico “H di Hotel”?

Sarah e l'acca non sono mai andate molto d'accordo. Quand'era bambina gli amichetti di scuola la deridevano chiamandola “Saracca”. Saracca, Saracca, non capisce un'acca... (e taciamo per eleganza il resto della filastrocca). Un pomeriggio dei suoi sette anni tornò a casa in lacrime e piagnucolando chiese spiegazioni alla mamma per quel suo nome bislacco.

«Ma... era il nome della nonna!» disse la mamma con un filo di voce.

«Non è vero, la nonna si chiamava Miriam!»

«Mia nonna!» specificò la mamma. Le avevano dato il nome della bisnonna, che era di Soncino e da Birkenau non tornò più.


(…)


Giudizi

Con una prosa commovente e disincantata, poetica ma non patetica, l'autore ci fa entrare nella vita di un uomo come tanti con un lavoro, degli amici, una famiglia e un figlio supereroe, facendoci vivere la straziante quotidianità di un padre speciale.
(Gloria Visani)

Un racconto fresco e piacevole alla lettura che mette a fuoco uno dei problemi più diffusi nel nostro tempo: l’estrema difficoltà a gestire le relazioni, gli affetti e la vita di coppia. Il dramma della solitudine scaturisce dalla profonda incapacità di amare gli altri. (Ardea Montebelli)

Non solo mi ha colpito perché è il racconto che ha scelto il tema più vicino alla mia sensibilità e alla mia esperienza, ma anche perché è una storia raccontata in maniera autentica, disincantata e al tempo stesso piena di sentimento. Una storia senza retorica, che non vuole suscitare compassione, ma raccontare di un grande e sincero amore che supera la fragilità, la malattia e il dolore. (SilviaSanchini)

  
La linea della nuca di Fabio Orrico (Rimini


Fabio Orrico è nato a Rimini, dove vive e lavora, nel 1974. Ha pubblicato le placquette Langolo (La stamperia, 2000) e 20 poesie sullo spaesamento (Santarcangelo, 2002). Con Giulio Perrone Editore ha pubblicato nel 2005 la raccolta di poesie Strategia di contenimento e, per lo stesso editore, nel 2006 ha curato l'antologia Il resto immaginarselo che raccoglie il meglio della produzione del sito letterario www.scrittinediti.it da lui fondato nel 1999 insieme ad alcuni amici. Nel 2013 è uscita la raccolta di saggi in formato e-book L'indicibile nella narrativa italiana, scritta insieme a Simone Cerlini e pubblicata per i tipi di Epublica.

Giudizi

Un testo che spicca di agilità descrittiva e visionaria nel solco del lubrico. La carne che s’arrende e che si dischiude a metafora con la forza di un rogo passionale. Una scrittura libera, forte, d’impatto, di denuncia che colora il buio con i chiasmi dell’amore clandestino. (GiorgioMassi)
 
Vita. Una anarchia che fai finta di governare, giusto per poter dire che sei coerente e il tuo destino riposa nelle tue scelte sapienti e giuste. Forse con dei dialoghi troppo “costruiti”, considerando che comunichiamo ossessivamente tutto quello che ci passa per la testa. Perché oggi, forse, è proprio il silenzio a dettare la linea. (Stefano Martello)
 
 

La MADRE di Antonio Melillo (Almese, TO)


Antonio Melillo, nato ad Atripalda (AV) il 26/06/1976, residente ad Almese (TO), è nel comitato scientifico del sito di filosofia della letteratura philosophyofliterature.org  Direttore delle collane Memoire e Cervo volante presso Liminamentis. Poesia: Durata del mezzogiorno (Carabba, 2011); Lento incendio (LietoColle, 2007). Traduzioni: Resta un’orma, un’ombra..., traduzione da Catullo (L’Arca felice, 2014); ha curato traduzioni poetiche per ClanDestino. Ha curato i volumi Memoire (Liminamentis, 2014), Mito nel Novecento letterario (Liminamentis, 2012).
  
la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore
(D. Alighieri)

Quando accade, accogliere la morte e il dolore significherebbe non inspirare gli afrori della decomposizione? Le parole dette prima sono un autoinganno, come legate a brandelli di speranza.

***

Torcere il naso dalla pelle e dai gesti salati non era carino, ma il lenimento delle carezze era uno sforzo sul cuoio ruvido del capo scosso da un lato. Il letto, non d’una sposa, sconsacrato dalla malattia, dal corpo umiliato; il marito gli porgeva gli occhi che ricordano e s’immaginano la solitudine: i figli avevano comunque ancora una vita intera.
Qualcosa che non potesse essere orribile in quel momento non vi era; lei continuava a guardare – ad accusarmi – mentre quella maschera che l’aiutava a respirare s’impregnava di rosso come lagrime, un rantolo interminato.
Tre anni prima mi confessò il malore, le dissi di non preoccuparsi: era lo scirocco che secca la vita dal di dentro; senza sapere cosa significasse. La mattina, eccitata, mi aveva chiesto più volte di andare con lei in campagna, ricordava soltanto com’era camminare in mezzo al grano, aveva lo sguardo scintillante, una bimba; la madre le era morta in novembre e sembrava volersi ingannare con una passeggiata, interrotta, sempre un novembre, con i campi venduti e la vita possibile solo nella città del nord.
Le dissi di no, volevo correre gli amici, non contemplare, del resto non avevo ancora nulla da ricordare. Quando ritornai all’imbrunire, era in casa, sfiancata su una sedia; insistetti, come lei al mattino, ma con gli occhi sfioriti, di dirmi cosa avesse, invece mi evitava; la cena mancava sul tavolo, solo a quel punto, quasi volesse chiedere scusa, mi disse che aveva avuto un mancamento; non capii che lo stomaco la stava rigettando.

***

Forse rigettava non cibo. Se l’egoismo avesse permesso di intuire, avrei pregato, nonostante già sapessi da mia madre che la fede va a braccetto con la disperazione e che il dolore non permette di abbandonarsi al nulla.

(…)




Giudizio


C’è purezza, c’è sangue, c’è infinito. La morte e l’inestricabile desiderio di eterno raccontati con la profondità dell’amore mutilato di un figlio. Un piacere lento, gravitazionale, rapace che cattura il cuore in un effluvio di dolore e auto-consapevolezza. Una meravigliosa catabasi da leggere e rileggere con spirito sempre diverso o immutabile. Un esempio di prosa commista a poesia di alto livello che scavalca l’agonia personale e intima. (Giorgio Massi)
 


Come la mia vita di Giovanni Mangarelli (Trento)

Giovanni Mangarelli è nato a Napoli nel 1969, risiede a Trento, frazione Gardolo. Salernitano di adozione, impiegato pubblico, scrive racconti dall’adolescenza, alcuni pubblicati su riviste letterarie, altri con la casa editrice Ibiskos di Empoli.
 


Partire è stato un errore. La riunione è finita più tardi del previsto, ma non avevo nessuna voglia di fermarmi un’altra notte a Bologna. Mi sono messo in viaggio, ma mi son bastati pochi chilometri per capire che la stanchezza era più forte del desiderio di tornare a casa. Subito dopo aver superato gli Appennini, ho deciso che alla prima uscita, fosse stata anche quella per Frittole, avrei lasciato l’autostrada per andare alla ricerca di un albergo o un motel dove poter dormire.
Ho trovato solo una pensione invece, ma la piccola hall mi ha dato immediatamente un’idea di pulizia e la prima impressione ha sempre contato molto per me.
– Buonasera, è possibile avere una camera, solo per questa notte? 
La giovane donna, dietro al bancone, mi risponde con gentilezza: - Certo! Ha qualche esigenza particolare?
– Che ci sia un materasso, tutto il resto stasera è superfluo!
– Allora non c’è alcun problema a soddisfarla -, ribatte sorridendo.
Ho un’illuminazione, il suo sorriso mi ricorda una persona, mi bastano pochi attimi per collegarla ad una vecchia compagna di scuola.
– Può darmi un documento, per cortesia?
Mentre glielo porgo, non riesco a trattenermi dal chiamarla per nome: – Con piacere, Lina!
Lei si blocca immediatamente, resta con la mia patente in mano e senza neanche pensare di aprirla per leggerne il nome, mi guarda, immagino, cercando di ricordarsi di me.
– Ci siamo già conosciuti?
– Più o meno quindici anni fa, ma devi immaginarmi senza occhiali, baffi e con qualche capello in più.
Lina socchiude gli occhi come se potesse in questo modo concentrarsi meglio, solo dopo qualche secondo si rende conto che ha una via più facile per risolvere il piccolo mistero. Apre la patente e non ha bisogno di leggere il nome, la foto sbiadita di un ragazzo appena maggiorenne le apre la mente: – Matteo? Oddio, sei proprio tu!
Lina perde immediatamente quell’aria professionale che ha tenuto fino ad ora, fa il giro del bancone e si avvicina con le braccia protese. Non mi lascio scappare quest’abbraccio inaspettato e spontaneo. (…)



Giudizi

Evito sempre di addentrarmi nel Passato, e se proprio devo/voglio farlo cerco di dotarmi di salvagenti liquidi potenti che mi stordiscano prima che il rito diventi una auto inflizione di dolore. I due punti, dunque, non sono tanto per lo stile (sobrio e rassicurante, come dovrebbe essere una chiacchierata tra due persone che non si parlano da un po’) quanto per il coraggio. (StefanoMartello)

Un racconto che intreccia presente e passato e ci mostra che a volte le scelte più importanti prescindono dalla nostra volontà e che la vita è un miscuglio strano di fattori imprevedibili. (Silvia Sanchini)


Il treno da Versailles di Oreste Bonvicini (Casal Cermelli, AL)



Oreste Bonvicini è nato ad Alessandria nel 1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Dice di sé: “Ho sempre volto barra alla scrittura, ma il tempo, durante la navigazione, ha visto errori di rotta, con il vento o la burrasca rimandarmi al largo o verso sconosciuti lidi. Ora, benché s’alternino lunghi periodi di bonaccia con l’illusione che patria sia l’ovunque, scorgo il tramonto che s’allunga mentre Itaca non è più la meta…”


Radici

Benché le avessimo definiti radici quasi per divertimento, tutte le foto di famiglia erano conservati nel cassetto della sala, sotto le tovaglie che venivano spiegate solo nei giorni importanti, fosse una festa o una commemorazione.
Quella sequenza di immagini che ad occhi profani non avrebbe avuto significato alcuno, a noi apparivano come la cronologia perfetta benché un po’ sbiadita del passato, invecchiata con noi e per noi. Foto di bambini, di adolescenti, di giovani ormai anziani, di morti da anni di cui pochi ricordi riaffioravano o solo particolari che ci consentivano di rinnovare il luogo e la stagione in cui le fotografie erano state scattate. Erano l’archivio della memoria, ma rappresentava altresì la prova concreta delle nostre radici. E mai termine ci parve tanto adeguato quando lo imponemmo in prima pagina, tra le foto più vecchie e ormai stinte, dove volti da un irrecuperabile passato ci osservavano confusi ma anche orgogliosi.
I contorni delle foto in bianco e nero erano frastagliati, un decoro che sembrava valicare, con la qualità della carta ed il contrasto dell’immagine, il tempo concesso al ricordo e faceva mostra di sé con il bollo in rilevo del nome del fotografo.
Le radici passarono di casa in casa per salvaguardarne la nostalgia che infondevano ad ogni sguardo. Erano le domeniche d’autunno i giorni deputati al riordino, al “ripasso della storia”, appuntando nel contempo, nelle ultime pagine, poche nuove fotografie degne di memoria dell’ estate appena trascorsa. Una parola, un sorriso, destavano qualche interrogativo e spesso, per un rito che si ripeteva, le domande si riproponevano ogni anno, quasi fosse necessario ascoltare, dalla voce, quanto le immagini non potevano più raccontare.
Erano i particolari non colti dall’obbiettivo, era la presenza di qualcuno a pochi passi non rientrato nell’inquadratura, era la storia di un ritorno dopo un lungo viaggio, avendo in quelle foto profuso tutte le emozioni, tutto il racconto. Le stesse domande, rivolte da bambini, poi dai figli, ora dai nipoti, erano i nomi che non solo volevamo rammentare, ma ascoltare dalle labbra di chi, prima di noi, li aveva conosciuti, quando il tempo era ormai trascorso, per sentirli una volta ancora tra noi vivi.
(…)

Giudizio
La metafora del viaggio e il ricordo ci guidano in questo tenero racconto ricco di spunti per riflettere sul senso del tempo e gli affetti famigliari. (Ardea Montebelli)


Furto con pianto di Paolo Calabrò (Caserta
)
lunedì, tarda mattinata 



Paolo Calabrò è laureato in Scienze dell'informazione (Salerno) e in Filosofia (Napoli). Dal 2009 gestisce il sito ufficiale in italiano del filosofo francese Maurice Bellet. Redattore del settimanale «Il Caffè» di Caserta e del mensile «l’Altrapagina» di Città di Castello (PG), collabora con il bimestrale «Testimonianze» e con i mensili «Lo Straniero» e «Sapere» e con le riviste online «Filosofia e nuovi sentieri» e «Pagina3». Ha pubblicato Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e diversi articoli sulla filosofia di Panikkar e Bellet, l'ultimo dei quali è “Il pensiero è impuro. L’epistemologia relazionale di Raimon Panikkar oltre il 'nuovo realismo'” («Filosofia e nuovi sentieri», dicembre 2013).

Da quando mio padre ha risolto il “caso” della rettoria di San Leopoldo, sono diventato una piccola celebrità a Puntammare. È successo solo due settimane fa, ma ogni giorno quando vado a scuola vedo qualcuno guardare nella mia direzione e poi mettersi a sussurrare qualcosa al vicino, con la mano davanti alla bocca. È vero che è facile diventare famosi qui: non succede mai niente neanche a Caserta, figuriamoci in un paesino come questo, sulla costa, schiacciato fra Mondragone e Sessa Aurunca. Ed è vero pure che quasi sicuramente fra due settimane già si sarà smesso di parlarne. Comunque sia, da quando il tg locale ha dato quella notizia, facendo il nome di Nico Baselice, tutti parlano di me come del figlio del comandante della polizia municipale (e il fatto che poi mio padre sia l’unico vigile urbano del comune, perde ogni importanza).
Quello che mi sembra strano, invece, è che Delicata (la figlia di Antonio Bartiromo, il postino che ha collaborato con papà), che sa bene com’è andata, possa credere non solo che mio padre sia un grande investigatore, ma perfino che anch’io ne abbia le doti.
«Devi aiutarmi a risolvere il problema di Sisina» mi dice. Alla sua compagna di classe hanno rubato un anello prezioso, due settimane fa. Proprio all’inizio dell’anno scolastico. È successo durante l’ora di educazione fisica, mentre tutti erano in palestra. Lei dice di averlo lasciato nello zainetto per evitare che si sfilasse con il movimento, e accusa Miki, un loro compagno.
«Miki ha avuto l’occasione, e anche il movente» mi dice.
“Se hai questa dimestichezza con i delitti e i moventi, perché non te lo risolvi da sola il problema?”. È la prima cosa che mi viene in mente, e mi sembra così azzeccata che a momenti gliela dico davvero. Per fortuna riesco a trattenermi.
«A scuola danno tutti la colpa a lui» aggiunge.
«Lo so. Non si parla d’altro».
Il mio commento la induce a pensare che è giunto il momento di fornire quello che probabilmente reputa un dettaglio-chiave:
«Anche Serena lo ha lasciato».
Serena, una ragazza ricca di quelle che quando vanno da qualche parte l’aroma dei loro soldi le precede e le annuncia. Per le sue compagne di scuola funziona un po’ come la carta moschicida, però al contrario; mentre quella non le attrae ma finisce con l’intrappolarle, lei invece le attrae: ognuna vorrebbe essere sua amica, ma lei le respinge tutte. O quasi. (…)

Giudizio

Un ragazzino si improvvisa detective… per amore. Tenero e divertente, originale e non superficiale, nella sua semplicità. (Gloria Visani)



Il paradiso sulla terra di Ivano Mugnaini (Massarosa, LU)

Ivano Mugnaini si è laureato all'Università di Pisa. È autore di narrativa, poesia e saggistica. Scrive per alcune riviste, tra cui «Nuova Prosa», «Gradiva», «Il Grandevetro», «Samgha», «L’Immaginazione». Cura il blog letterario DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario. Ha curato la rubrica “Panorami congeniali” sul sito della Bompiani RCS. Suoi testi sono stati letti e commentati più volte in trasmissioni radiofoniche di Rai – Radiouno. Collabora, come autore e consulente, con alcune case editrici. Cura e dirige i “Quaderni Dedalus”, annuari di narrativa contemporanea. Ha pubblicato le raccolta di racconti LA CASA GIALLA e L'ALGEBRA DELLA VITA, i romanzi IL MIELE DEI SERVI e LIMBO MINORE. Tra i critici ed autori che si sono occupati della sua attività letteraria ricordiamo: Vincenzo Consolo, Gina Lagorio, Ferdinando Camon, Raffaele Nigro, Giorgio Saviane, Paolo Maurensig ed altri.


 

Qua sotto il buio è vivo: c'è aria, ci sono ombre, suoni, odori. Noi abbiamo una radio. Oggi ci siamo toccati le mani, la punta delle dita, bianca, calda. Ho sfiorato le dita forti di Assan e quelle sottili di Salim, ballando con loro nel buio, sognando ciascuno il suo sogno, ad occhi chiusi, anche se abbiamo ancora paura gli uni degli altri. Dopo qualche secondo, con un riso esploso come una bomba contro le pareti, ci siamo offesi in varie lingue e dialetti e ci siamo presi a pugni, con violenza, con amore. Ci siamo seduti a terra, distrutti, fumando le sigarette più sporche e più buone che si siano mai respirate in questo angolo di mondo.
Assan, con i capelli fradici e gli occhietti rossi come il fuoco, mi ha scrutato per un minuto intero, ghignando. Mi ha chiesto di raccontargli ancora una volta quella che lui chiama "la cazzata del secolo": la storia di come sono arrivato sotto il suolo di Milano e il motivo per cui non ho mai camminato nel sole, mai in vita mia.
Cerco una via di fuga, ruoto lo sguardo intorno, verso un bagliore, il sogno di un riflesso nuovo, qualcosa che ieri non c'era. Ma qui il buio è lento e cieco. La luce è solo negli occhi dei miei compagni, fissi su di me come coltelli puntati, forse per gioco, forse per uccidermi, o forse per tagliare a fette l'oscurità e trasformarla in pane di parole. Inizio a raccontare. Perché non ho scampo, perché qui dentro non c'è niente altro da fare, ora, in questa notte che si stringe forte al corpo della terra. Ad essere sincero mi piace dare fiato e voce alla mia storia: ogni volta aggiungo un particolare, vero o inventato, non lo so neppure io. I miei due ascoltatori non se ne accorgono, o fanno finta di niente: è il nostro gioco, nessuno ci controlla, la notte è sorda e la vita quaggiù non arriva, gira al largo, veloce, schifata. Mi piace raccontare ciò che mi è successo in questi anni: finisco quasi per crederci anch'io, e mi convinco a momenti di avere capito, finalmente, di avere visto con chiarezza tutte le scene, da ogni lato. Dura solo un secondo, un attimo dopo mi viene da ridere. Ma Assan e Salim non devono accorgersene. Questo, almeno, deve restare segreto, qualcosa di solo mio. Il racconto è sacro, è il solo tesoro che abbiamo quaggiù: nessun riso, nessun dubbio lo deve intaccare alle loro orecchie e alle loro menti. Dev'essere un sogno più vero del vero. Anche se, io lo so bene, è una verità che con il sogno ha poco a che fare. E' una realtà pazza e dura che mi ha trascinato a forza a giocare in questo sgabuzzino buio grande quanto il mondo. Mi ha chiuso qui, ha sghignazzato un po', poi se n'è andata e m ha dimenticato. O forse no, forse si ricorda di me e mi osserva ancora, nascosta da qualche parte: vuole vedere come mi comporto, come me la cavo. Magari è così, ed io non so se riuscirò ancora a lungo a sopportare il suo sguardo addosso, i suoi occhi di bambina viziata che scruta l'insetto che ha imprigionato sotto un bicchiere sudicio. Non so come mi comporterò domani. Per ora so solo che riesco ancora a sorridere, a guardare i miei compagni quasi con amore, e a parlare. (…)


Giudizio

Vita di strada vissuta con chimica lucidità. Luoghi estatici della memoria che sembrano virare al presente con la furia del bello. L’ansia che tempesta l’ordinario, che profonde di fluida emotività e coriaceo orgoglio esistenziale. (Giorgio Massi)  

venerdì 22 agosto 2014

Su Guido Passini in Letteratura… con i piedi

recensione di Vincenzo D'Alessio

Scrive il curatore dell’Antologia Letteratura… con i piedi (Fara 2014) Alessandro Ramberti: “Lo spirito delle kermesse fariane è quello dell’ascolto, della condivisione, della convivialità, dello scambio empatico di conoscenze ed emozioni” (pag. 7) e ci dobbiamo credere se i risultati sono quelli che leggiamo dalle pagine di questo agile volume, accompagnato come accade ai libri dell’editore di Rimini, da una significativa copertina: una strada stretta tra argini pietrosi antichi dove altri hanno realizzato il proprio cammino.
Immaginate i millenni trascorsi e i milioni di pellegrini che hanno attraversato le contrade in cerca del Dio dell’Infinito, della guarigione dell’anima e del corpo, della solitudine dialogante scomparsa nei secoli successivi. La Fede ha smarrito i suoi passi in mezzo agli uomini paghi dei loro progressi e pronti a subire il supplizio finale del fine vita. Il cammino della spiritualità è quello che gli scrittori, i poeti, i musici, i folli accolgono quando “Fara Editore” invita. L’invito di questo convito afferma la validità “dei piedi” che sostengono con forza l’insieme del corpo nel viaggio compiuto con la propria esistenza insieme agli altri.
A rendere bene l’argomento dell’incontro è valso il contributo del poeta/scrittore Guido Passini che si è misurato con la favola. Una storia raccontata ai piccoli per dare alla fine della lettura il senso gnomico agli adulti. L’apologo delle scarpe: questi calzari che da millenni ci aiutano a superare le difficoltà dei percorsi affrontanti. Oggetti antropomorfizzati si rivelano metafora dei diversi tipi umani in cammino nell’esistenza. “In via del tutto eccezionale”, a pagina 130 del libro, scatena una profonda ironia in un tempo sospeso, il kairos greco, tipico della favolistica che si ripropone a distanza di secoli.
I personaggi sono “le claquettes ” (scarpe con l’aggiunta di metallo alle punte e sul tacco); “gli anfibi” (scarpe per la montagna, le esercitazioni militari, le parate dei giovani nelle notti cittadine); “tennis” (scarpe eleganti, leggere, utili per diversi sport). Trasposizione delle classi sociali oggi quasi scomparse: ricchi, poveri, borghesi. Assistiamo ad un dialogo intonato tra passato e presente: il passato ricco di esperienze costruttive e il presente nel quale il futuro è stato cancellato dalle mani nascoste dei potenti di turno: “Ragazzi ma voi ci pensate mai al futuro?” (anfibi, pag. 132).
La voce è degli “anfibi”, il ceto una volta definito proletario, che non ha più nulla in cui sperare: non più il posto fisso, non più l’apprendistato, non più l’artigianato, non più la terra da coltivare. Chi ha un’attività tenta di lasciarla ai figli. Chi ha un posto nelle Istituzioni cerca di far subentrare in mille modi i figli. Chi è in politica cerca di far entrare i parenti. Così in tutte le altre attività sociali, senza contare quelle che vengono definite “caste” le quali convivono da secoli, silenziosamente onnipresenti, nel tessuto sociale senza mai demordere.
A lasciarci comprendere bene questo disagio vissuto dal ceto alto ci pensano “le claquettes”: “Avete mai provato la sensazione che qualcosa dentro di noi spinga, spinga, spinga e sei costretto ad aggrapparti a tutte le cuciture possibili per restare al tuo posto?” (pag. 132). I poveri invece risultano sempre perdenti perché: “Io penso spesso al futuro, penso agli errori commessi per non ripeterli, penso a cosa ci succederà quando diventeremo vecchie e usurate” (anfibi, pag. 132). Quest’ultimo pensiero è quello che viene sottratto ai giovani oggi. In alternativa viene proposto il mito del “cogli l’attimo” e consuma quello che hai, tanto devi scomparire dalla scena terrena.
Le differenze del viaggio raccontate da Passini in questa fiaba sono pungenti e intrise di morale. Riportano alla mente le belle favole degli autori antichi oggi completamente dimenticate. La necessità di riallacciarsi a quel mondo ideale costituito dal passato, anche se in parte doloroso: “(…) io sogno di vedere i piedi che ci indossano, vorrei non ci fossero limitazioni tra noi, vorrei fossimo tutt’uno, condividere tutto” (anfibi, pag. 134). Ma questo è il mondo scomparso della Civiltà Contadina, la parte gnomica della vita di quelle persone; come per “i pidocchi”: i personaggi del bellissimo film di Ermanno Olmi: L’albero degli zoccoli (1978).
I dialoghi delle tre scarpe ci offrono tanta dignità. Come nel passaggio che ci viene offerto ancora una volta dagli “anfibi”: “ Io… a volte penso di voler cambiare, (…) vorrei davvero vivere la vita di un altro? Basterebbe davvero cambiare identità per sentirsi migliori? Siamo nate così, prima accettiamo la nostra identità e prima impareremo a gustare il nostro cammino” (pag. 135). Sembrerebbe quasi una resa di fronte al destino che si genera con la nascita nella società alla quale apparteniamo. Invece no! La risposta è affidata questa volta alle scarpe da “tennis”: “Ci sono tanti piedi che non hanno il loro cammino… ma ci sono cammini che non hanno viaggiatori. Io voglio percorrere uno di quei cammini e vedere dove mi porta: sento che è giunto il momento” (pag. 136).
Morale della favola: “una letteratura… con i piedi” che ci invita a varcare la soglia di casa e di andare incontro al vero volto del Pianeta che ci ha accolto insieme agli altri.

domenica 10 agosto 2014

Dialogo notturno con F. KAFKA sulla figura del padre

di Vincenzo D'Alessio


Iniziare un dialogo con te che hai scritto nel 1919 una bellissima Lettera al padre è per me difficile: uno scrittore del quale la bibliografia mondiale ha raggiunto una quantità di testimonianze enormi, alle quali è difficile aggiungere altro. Mi provo a dirtelo semplicemente. Ho scelto la notte, quando intorno la marea umana dei giovani si lascia trasportare dalla “movida” cittadina, per accarezzare l’idea che tu prenda corpo in quest’ombra e possiamo finalmente dialogare sul tema del padre senza essere segnati dal Tempo. In quel momento era finita la Prima Guerra Mondiale e nei popoli prendeva corpo l’idea che servissero poteri forti per uscire dall’amara miseria sociale, di ritorno anche oggi le crisi economiche mondiali ravvivano idee nazionalistiche in questa direzione.

Scrive Italo Alighiero Chiusano nell’introduzione al tuo libro che reca il titolo La disperazione si racconta: “Oggi siamo meno ottimisti (o faziosi, che spesso è la stessa cosa). Sappiamo che il cancro della convivenza familiare non è legato che superficialmente a determinati regimi e statuti socio-politici.” 

Proprio per il dolore che non manca mai di mostrare il suo volto violento oggi il sociologo Massimo Recalcati ha preso in considerazione il pensiero lacaniano, nel suo buon libro Cosa resta del padre? (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011), l’idea che la figura del padre sia evaporata da tempo.

Prendo dal suo libro: “ (…) L’esperienza del venir meno del padre e della sua funzione simbolica non è un’esperienza nuova, specifica del tempo ipermoderno, ma caratterizzava già l’epoca di Freud. Arditamente Lacan in I complessi familiari prova a pensare che tutta la teorizzazione freudiana dell’Edipo possa avere sullo sfondo questo sbriciolamento dell’Imago paterna e del suo potere simbolico. Orfano di questo rifugio, caduta l’autorità paterna come punto di riferimento ideale, saldo e inamovibile, l’uomo occidentale ricerca figure autoritarie capaci di offrire stabilità e identità. Il grande corpo della Comunità sostituisce quello smembrato della famiglia senza centro e minacciata dalla precarietà economica e sociale successiva alla crisi legata alle vicende della prima guerra mondiale. Esso assicura appartenenza e protezione della vita in cambio della rinuncia all’uso della ragione critica. Lo spazio già segmentato e disorientato della famiglia borghese sembra così trovare una ricomposizione folle nell’identificazione a massa” (pag. 39).

La realtà di oggi, Kafka, è questa descritta e quotidianamente esasperata dalle guerre che agitano il nostro pianeta. Guerre intraprese soprattutto per sopravviverci: energie, acqua, terra per seminare e disgraziatamente continuare a costruire, alimenti. Una follia collettiva che porterà alla distruzione totale di questo padre/madre pianeta. Scriveva nel 1984 David Attenborough nel suo prezioso libro Il pianeta vivente (Istituto Geografico De Agostini, Novara): “Soltanto due grandi ambienti sono rimasti fisicamente immutati per periodi di tempo immensi: la foresta tropicale e il mare. Persino qui però le condizioni biologiche si sono modificate gradualmente quando l’evoluzione, all’interno o all’esterno dei loro confini, ha prodotto nuovi tipi di organismi, ponendo perciò ai loro precedenti abitanti nuovi problemi di sopravvivenza.” 

Abbiamo perso il dialogo padre-figli perché i mercanti del denaro ci hanno fatto credere che ci si salva solo mediante quest’unica strada.

Credimi, in anni difficilissimi e di paura atomica appena trascorsi, da studente partecipe dei movimenti scolastici dettati sul tema del Sessantotto vedevo passare su una delle ultime carrozzelle tirata da un cavallo, in una città moderna, un signore che reggeva un enorme cartello: “Se i figli non ti obbediscono è perché hanno troppi soldi in tasca!” Più tardi ho saputo che era un professore al quale era scomparso un figlio giovane a causa della droga. Quella scritta mi accompagna ancora oggi e le tue parole sostengono di più le mie idee: “(…) Da sempre mi rimproveri (quando siamo soli e di fronte ad altri, non hai mai avuto sensibilità per l’umiliazione insita in questo secondo caso, i fatti dei tuoi figli sono sempre stati pubblici) che grazie al tuo lavoro ho vissuto senza privazioni nella tranquillità, nel calore e nell’abbondanza. (…) Da casa non ho mai avuto un soldo, nemmeno durante il militare, ero io che mandavo soldi a casa; Eppure, eppure… il padre era sempre il padre. Chi le sa, oggi, queste cose! Che ne sanno i figli ! Nessuno ha patito queste cose! Le capisce oggi un figlio?”
In altre circostanze questi racconti avrebbero potuto essere un eccellente strumento educativo, avrebbero incoraggiato, con una sferzata di energia, a superare le piaghe e le privazioni che già il padre aveva subìto.

Kafka oggi le tue parole risuonano come un presagio terribile verso i figli che si debbono vestire come fanno tutti gli altri, tanto che è difficile distinguerli. Chiedono soldi senza desiderare, noi ci siamo riscattati da subito con poco guadagno dalla miseria degli anni Cinquanta del secolo appena trascorso attraverso l’apprendistato anonimo, per una sola volta l’umiliazione di un lavoro dipendente. Noi abbiamo cercato di portare qualche soldo a casa o a metterlo da parte per le piccole spese. Da padre ho dovuto assecondare la paghetta senza lavoro che oggi ha assunto il volto del ricatto.

Le donne, come scrivi, non sono più le mamme che descrivi: “(…) Occorre però tenere sempre in mente come la posizione della mamma nella famiglia sia sempre stata straziante e, fino all’ultimo, snervante. Si strapazzava nel negozio e a casa, soffriva doppiamente per tutte le malattie della famiglia, ma a coronamento di tutto ciò c’era quello che ha dovuto patire nella posizione di intermediaria tra noi e te.”
Oggi la posizione delle donne “in carriera” sovrasta di gran lunga quella del padre che mi descrivi nella tua lettera: “(…) Non contribuiva certo positivamente all’educazione dei figli il modo in cui tu – senza colpa da parte tua, naturalmente – la tormentavi a causa nostra.”

Il tormento della ricerca della mia identità di padre passa per quel terribile meccanismo della rimozione dei disagi subiti nell’infanzia e che Massimo Recalcati nel lavoro che abbiamo richiamato descrive nel capitolo “Eredità e trasmissione del desiderio”. Nel chiudere questo breve dialogo notturno riprendo le parole dell’introduzione al tuo lavoro di Italo Alighiero Chiusano: “(…) E questa Lettera al padre è un documento terribile e per nulla letterario, meno ancora filosofico-razionale, di questa spaventosa incongruenza, di questa ostinata follia
senza metodo che fin dalla notte dei tempi avvelena ogni nostra più promettente giornata.”

venerdì 8 agosto 2014

UN PAESE CHE ABBRACCIA I POETI

articolo pubblicato nel blog di Piero Carbone Archivio e pensamenti

Commenti, non anonimi; grazie. Direttamente sul blog o all'indirizzo: archivioepensamenti@virgilio.it


Il regista Giovanni Volpe
Poeti@Racalmuto è stato il filo conduttore.

Dall'Etna ad Ortigia, dai Templi allo Stagnone, da ben cinque province ma anche dalla Calabria il 3 di agosto sono giunti a Racalmuto per incontrarsi, i poeti, amanti insomma della poesia, da soli, in gruppo, in compagnia dei loro familiari. Un piccolo gruppo o grande drappello: oltre una cinquantina. Alcuni a ranghi sparsi sono arrivati la sera prima per intrattenersi in amabili convivi.

Tutti si sono dati appuntamento  a lu Cannuni, in Piazza Castello,  alla volta del Castelluccio per una visita sapientemente guidata al culmine di un tragitto campagnolo e dopo le disavventure di una strada da terzo mondo.

Sono ritornati in paese per il pranzo.

Alle tre del pomeriggio, nella deserta canicola agostana, il paese lo hanno passeggiato, lo hanno visitato, hanno fatto tappa all'atelier del carradore Dino Agrò.

Si sono fotografati davanti alla Matrice, hanno svolto il loro raduno nella sala al primo piano del Castello Chiaramontano.

Al termine della manifestazione, dopo avere assaggiato taralli e vino locale, alcuni hanno pernottato in paese, altri hanno raggiunto le sedi di origine, con il tacito appuntamento di ritornare nel paese che ha li abbracciati come visitatori, come ammiratori, come poeti.

Si poteva fare altro, si poteva fare meglio, ma con zero risorse economiche si è ugualmente data una dignitosa "casa" al sogno di chi organizzando, partecipando o recitando, ha voluto testimoniare la propria fede nella bellezza. Nonostante tutto.

 Anche la poesia, seppur impastata di nuvole, ci spinge a nuove consapevolezze delle concrete realtà terrene.
Eterea la poesia, forse impalpabile, astratti i poeti, ma possono essere direttamente o indirettamente propugnatori di processi virtuosi. Concreti. Produttivi.

In primo piano Rosamaria Rita Lombardo

Segue il racconto fotografico dell'evento, corredato di parziali didascalie,  altre foto e altre didascalie con altri nomi, per supplire alla mancanza di tempo o alla parziale memoria, verranno aggiunte successivamente. Ma la migliore integrazione sarebbe quella scaturita dagli apporti di chi, con qualsiasi ruolo,  ha vissuto quest'esperienza.
Chi incontra difficoltà a postare eventuali commenti sul blog, in coda al post, può inviarli all'indirizzo di posta elettronica  archivioepensamenti@virgilio.it


La locandina-avviso


La locandina col programma definitivo





Arrivi del giorno prima e accoglienza
Da sx: Mario Gallo, Mimmo Staltari  (proveniente da Locri) con la sua signora
Chi è arrivato prima e chi è arrivato dopo: l'incontro in Piazza

Verso l'albergo

Accoglienza con aperitivo

La cena in campagna


I preparativi
















Piazza Castello







Al Castelluccio










Tony Causi ed Enzo Patti

Notizie storiche sul Castelluccio di Racalmuto
e videoproiezione sui Castellucci federiciani in Sicilia
 a cura di Angelo Cutaia

Ci ha fatto visita al Castelluccio Giuseppe Guagliano,
presidente del consiglio comunale di Racalmuto (il secondo da sinistra)






Pausa pranzo e caffè




Brindisi col gruppo di Castellammare del Golfo








 


Per il paese






In primo piano Rosamaria Rita Lombardo
All'atelier del carradore Dino Agrò
Gaspare Pipitone, ispirato dai carretti, recita un suo componimento 
Con il carradore Dino Agrò (il primo da sinistra)
Foto davanti alla Matrice



Incontro con la statua di Sciascia





Al Castello Chiaramontano








Momenti dell'incontro:
Saluto del Presidente dell'ANPOSDI, dr. Mimmo Staltari
Consegna del trofeo dell'ANPOSDI   all'assessore alla cultura
Salvatre Picone per l'amministrazione comunale 
Il gruppo folcloristico
Orchestrina del gruppo folcloristico "Città di Racalmuto"

Il gruppo al completo


Proiezione di foto antiche

Nino Vassallo illustra le foto antiche di Racalmuto
raccolte dal Gruppo fb "Sali d'argento"

Poeti e declamatori

(Rassegna fotografica incompleta)
Nino Barone (Trapani)

Enzo Vitale (Castellammare del Golfo TP)

Stefano Ferrantelli (Castellammare del Golfo)

Rino Tamburello (Castellammare del Golfo)

Gaspare Pipitone (Castellammare del Golfo)

Giuseppe Gerbino (Castellammare del Golfo)


Michele Falci (Caltanissetta)

Maria Nivea Zagarella ( Francofonte SR)

Maria Gabriella Messana
declama i versi della madre Isabella Martorana (Racalmuto AG)

Daniela Sciarotta (Ramacca CT)

Marcello Scurria (Palermo)

Tony Causi (Palermo)
Gero Miceli (Grotte AG)

Rosa Maria Lombardo (Milano, originaria di Raffadali AG)


Liliana Arrigo (Agrigento)
Salvatore Gaglio (Santa Elisabetta, AG)


Marco Scalabrino (Trapani)
e ancora:
Gino Adamo (Trapani)
Italo Piddini (Palermo)
Vincenzo Di Stefano (Castellammare del Golfo TP)
Mario Amico (Caltanissetta)
Piero Carbone (Racalmuto AG)
Giuseppe Messina (Mussomeli CL)
Mario Gallo (Firenze, originario di Trapani)