lunedì 24 febbraio 2014

Vi sono luoghi

di Subhaga Gaetano Failla


 Vi sono luoghi dove ci si addormenta, luoghi dove si muore.

Un orologio spande il ticchettio in una stanza in penombra. Il respiro è lieve. L’ultimo granello di sabbia è caduto, si rovescia la clessidra, scorre il nuovo tempo.

Mi addormento in uno spazio a circa venti metri d’altezza dalla superficie terrestre. Per mia ignoranza, ho creduto questo spazio identico a quello del passato, d’altri sonni e d’altre morti. Un limite, un frammento, una immobilità. L’eterno movimento ci spaventa, osserviamo il senza tempo, l’illimitato spazio pulsante, dalle nostre ridicole finestre, barricati nelle stanze inesistenti del timore.

Il sole è apparso di nuovo, tra nuvola e nuvola, dopo le brume di ieri e la pioggia fine nel crepuscolo invernale.

Ascolto il cinguettio d’un uccellino in gabbia. Poi volgo lo sguardo oltre le case.



Fantasmi ebbri –

sul monte verdeggiante

le nubi chiare

domenica 23 febbraio 2014

Giambattista Bergamaschi

"La Pleiade (quasi un giallo letterario)"

Assolutamente accattivante il nuovo lavoro che Giambattista Bergamaschi presenta ai propri numerosi lettori (on line e in cartaceo): La Pleiade (quasi un giallo letterario), romanzo breve difficilmente etichettabile, tra l'enigmatico e il poetico, il drammatico e l'amabilmente umoristico.

Attratti dal suo agile formato, iniziamo a leggerlo in piedi, su uno smartphone o tablet, mentre saltiamo da un treno all'altro del metro, e alla fine ci rendiamo conto di non essere riusciti a “scollegarcene” che a storia conclusa, dopo aver trascorso una o due orette in piacevolissima compagnia.
Non mancano nel procedere del racconto passaggi di un certo impegno intellettuale o riflessive meditazioni su spaccati di inquietante e stretta quotidianità, ma ogni capitolo scivola e si installa con tutta naturalezza su ritmi narrativi che ben presto si impongono con la necessaria spontaneità del semplice respiro. Intanto... scatta l'immedesimazione, e quelle sessanta paginette ci giocano un tiro curioso.

Ogni capitolo è preceduto da un "suggestivo" (poiché suggerisce) cartiglio atto a favorire un'ottimale lettura del medesimo.
Nel primo, ad esempio, si può [...] osservare come chi narra una storia inevitabilmente tenda a rappresentarvisi quale personaggio - principale o comprimario - e, nello stesso tempo, mal resista alla tentazione di tesservi una sorta di esistenziale “narratologia”, ovvero inventario di consuetudini operative proprie di una personale “officina” letteraria, mentre nel secondo si dice dell'inspiegabile angoisse che - benché mista ad una sorta di creativo enthousiasmós - sempre accompagna la gestazione di ogni manufatto estetico, incluse la narrazione e la poesia.

Ma si tratta anche d'altro, non strettamente letterario, come nel terzo capitolo (Se ogni mondo è paese, alcuni lo sono più degli altri...), nel quarto (Dove si dimostra che molti sedicenti “poeti” son tutt'altro che squisiti campioni di sensibilità), nel nono (Dove si dimostra come anche le più lecite e nobili passioni possano facilmente sconfinare, per trasformarsi in stupefacenti allucinogeni), nel tredicesimo (Dove si dimostra come nella notte non soltanto le vacche siano nere, ma anche le persone) o nel quattordicesimo (I “controfattuali” non sono che effimeri vaneggiamenti. La speranza sarà pure l'ultima a morire, ma alla fine crepa anche lei), per non dire del resto.

Per mano di uno tra i personaggi del racconto, Luca Sargassi, l'autore ci dice innanzitutto di sé:

Scrivo nei ritagli di tempo, durante i giorni di pioggia, quando la scrivania e la testa non sono - come di norma accade - eccessivamente congestionate da mucchi di verifiche da correggere e molto altro; scrivo a scuola, nelle ore libere, tra una lezione e l'altra, se la grazia discende sul mio capo come uno spirito santo, o durante il tempo vacuo e silente d'un compito in classe, dove meno si parla meglio è, o in attesa del mio turno dalla dottoressa; scrivo durante un simposio che in venti minuti si riveli decisamente indegno delle mie rosee aspettative; scrivo la sera, d'estate, in vacanza, sotto una pergolato, seduto su uno scoglio o al tavolo d'un bar, all'aria aperta, guardando il mare o la gente che scorre, mentre mi godo un gustoso toscanello 'premium' (cioè, 'non di tutti i giorni'), di quelli che una volta la settimana mi concedo - lecito piacere, povero, semplice e comune, ben più appagante di tanti disgustosi bagordi di lussuriose e deragliate emozioni oggi à la mode - perché il fumo non torni ad essere un deprecabile vizio di gioventù. Scrivo in auto, mentre attendo mia moglie, taccuino poggiato sul volante, oppure in piedi o infine - se ancor mi accade di prenderne uno - in treno...

Non predispongo mai nulla che lontanamente somigli a micidiali scalette. Il solo pensiero di strategie tanto sterili e banali mi spezza il collo come una garrota.
Al massimo, nel corso della mia carriera di 'scrittore' - a partire dai tempi della prima tesi -, ho graffito qualche mappa concettuale a dir poco aperta e rizomatica su vasti fogli di carta da pacco accuratamente distesi e fissati con lo scotch al pavimento del mio studio, laggiù a San Benedetto.

Oggi, preferisco serbare ben impresso nella mente l'intero canovaccio di una storia per due o tre settimane, il tempo massimo che riesco a concedermi, ad esempio per la stesura di un 'romanzo breve': sulla scorta di una tal generica tessitura, in tutto affine ad una sequenza di funzioni proppiane vivacemente ambiziose d'essere sostanziate di vita concreta, elaboro, preciso, aggiungo, taglio, sottraggo, sposto, modifico, integro...
Il tutto, più o meno consapevolmente.

Ben volentieri piego il capo alle leggi di un Inconscio che confidenzialmente adoro e con cui non ho mai intrattenuto rapporti conflittuali o problematici (come a parecchi invece accade).
Né in passato, né ora.

Di tanto in tanto, recupero qualcosa di interessante dalle centinaia di cartelle in cui conservo migliaia di annotazioni, folgoranti lacerti narrativi, riflessioni, fabule, passaggi da mail, spunti d'ogni genere todo modo riversati sulla tastiera di un pc nel corso degli anni. Stendo brevi schede che poi lascio macerare o liberamente vagabondare in cerca della propria dolce metà; registro in poche righe qualche nucleo concettuale da svolgere o precisare non appena mi sarà possibile, oppure penso, ma non scrivo, in tal modo esponendomi al rischio di perdere ogni cosa forse per sempre.
Starsene per un po' sui ceppi ardenti fa bene all'immaginazione: sapendo che alcun miracolo s'è ancora compiuto, lo spirito si mantiene desto e percettivo per tutto il tempo, in una condizione di attiva passività.
E poi... non è mai accaduto che una buona idea, benché libera di andarsene, non sia al momento giusto tornata a bussare alla mia porta.
Il tempo è un arbitro perfetto anche in questo genere di faccende.
No problem...

Estrema ma non trascurabile confidenza, perché soprattutto in questo vive la più autentica delle magie: non narro mai le mie storie a qualcuno, se non dopo averle prima stese completamente, almeno in bozza. Diversamente, il sogno svanirebbe, la tensione pure, e con essa si dissolverebbe per sempre l'eccitante condizione spirituale propria di quest'ineffabile trovarsi 'in stato di narrazione', tra i cui ingredienti, non ultimo, il non saper mai come esattamente andrà a finire e se davvero ce la faremo”.

Con “La Pleiade”, prova superata a pieni voti!

L'autore

Giambattista Bergamaschi, nato a San Benedetto del Tronto nel 1954, insegna italiano, storia e geografia presso scuola media statale, dove è anche Referente per l’Orientamento e svariati progetti concernenti l’Educazione alla Salute. 
Cura molteplici interessi, dalla narrazione alla ricerca musicologica, dalla didattica della storia alla semiologia, dalla pratica concertistica alla poesia. 
Suona la chitarra jazz e ha pubblicato due propri CD, Sunny e Spleen.


M. G.

sabato 22 febbraio 2014

L'ultima dimora del Re di Rosamaria Rita Lombardo in Quotidiano di storia e archeologia

Diretto da Pierluigi Montalbano

Ogni giorno un nuovo articolo divulgativo, a fondo pagina i 10 più visitati e la liberatoria per testi e immagini.


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sabato 22 febbraio 2014

Minosse, Re di Creta. Uno studio propone la sua sepoltura in Sicilia.

L'ultima dimora del Re, un libro di Rosamaria Rita Lombardo
recensione di Vincenzo D'Alessio



L’agile volume dell’archeologa Rosamaria Rita Lombardo dal titolo L’ultima dimora del re, pubblicato nelle edizioni Fara di Rimini, è un contributo a quella branca scientifica dell’Archeologia che prende in seria considerazione il pensiero di Paul Faure: “Chi lo resusciterà del tutto? Chi, se non colui che reputa le leggende ricche di realtà, ed i sogni altrettanto rivelatori di una confessione?” (vedi pag. 90 del libro) e lo fa proprio. Non basta l’esistenza a contenere la passione per la terra che ci appartiene. L’Archeologia risuona in noi (archeologi di montagna) come lo scorrere dei versi dell’Odissea di Omero dove nella metrica si palesa l’appartenenza alla memoria collettiva orale.
Il lavoro della Lombardo è eminentemente scientifico: poggia su testi autorevoli di autori greci, latini e studiosi di chiara fama. Tra questi vorrei ricordare la figura dell’archeologo Paolo ORSI resa mitica in molti libri fra i quali "La collina del vento", di Carmine Abate (Mondadori,2012), dove la spinta alla ricerca di ORSI sulla collina del Rossarco dell’antico insediamento di Krimisa in Calabria era legata alla memoria orale.
Anche in questo caso il Monte Guastanella nell’agrigentino e la realizzazione della mitica deposizione del Re Minosse (da Creta) si legano alla tradizione orale sottoforma di versi:
“Lu re Mini-Minosse è / drivucatu intra la muntagna di Guastanedda. / È tuttu chinu d’oru / e quannu lu scoprinu / iddu addiventa un crastu d’oru / e unu av’ arrimaniri” (pag. 56).
Anch’io ho iniziato il percorso di archeologo dilettante e successivamente di Ispettore Onorario del Ministero dei Beni Culturali collegandomi al momento esistenziale dell’infanzia quando i nonni materni mi raccontavano le leggende che da secoli (e forse più) aleggiavano sulle antiche case del luogo natale.
La memoria collettiva mi ha premiato nel lavoro di ricerca sul campo e fa bene al cuore trovare confronto nell’ottimo lavoro della professoressa Lombardo, che dedica amorevolmente il lavoro alla figura paterna (allo stesso modo fa Carmine Abate nell’epigrafe al suo volume) ripreso fotograficamente nella tavola 10, a pag. 52, che ha posto in lei il seme della gratitudine verso lo scrigno della terra dove gli antenati hanno reiterato e desiderato rivelare le ricchezze dell’antico passato.
Riprendendo per analogia questo lavoro archeologico anche per me la leggenda di una grotta con un tesoro era collegata al ritrovamento insperato da parte dei poveri contadini, che volevano arricchirsi facilmente e velocemente, e il sacrificio umano come contraccambio: la leggenda della “Chiocciola con i pulcini d’oro”. Mentre nel caso della tomba di Minosse il tesoro è rappresentato da “un capro tutto d’oro”. Un altro riscontro filologico è legato al culto cristiano dell’Angelo (l’Arcangelo Michele) sviluppatosi in tutta l’Italia Meridionale a partire dai primi secoli dopo Cristo (si veda Sant’Angelo Muxaro prossimo a Monte Guastanella) proprio in grotta: similitudine con la Grotta del Gargano da dove prende avvio il culto che accomuna le nostre ricerche a quelle ipogee della Lombardo.
La ricchezza, rigo dopo rigo, dei riferimenti ai testi antichi e moderni consolida la ricerca scientifica e la pone come metodo di ricerca per chi legge. Il richiamo alle fonti bibliografiche riempiono la mancanza di campagne di scavo accurate e arricchite dalle prospezioni satellitari oggi diffuse nell’Archeologia ufficiale sul territorio. Una ricerca archeologica utilizzabile come testo scolastico per avvicinare gli studenti alla passione fondante che collega la Lombardo ai grandi nomi dell’archeologia italiana.

Fonte: http://www.faraeditore.it/nefesh/dimorare.html

lunedì 17 febbraio 2014

mercoledì 12 febbraio 2014

L’ultima dimora di Minosse. Intervista a Rosamaria Rita Lombardo con videodoc

Recensioni libri in PaginaTre
intervista di Paolo Calabrò
29 novembre 2013 

La tomba del re cretese Minosse potrebbe trovarsi in Sicilia. Ad Agrigento, per essere più precisi. Rosamaria Rita Lombardo, studiosa di archeologia, prova ad argomentare questa tesi nel suo L’ultima dimora del re. Una millenaria narrazione siciliana “svela” la tomba di Minosse (ed. Fara), fra documenti, leggende orali e ricostruzioni storiche. 

Guarda il videodoc

La vera collocazione della tomba del re Minosse: qual è la portata di questa informazione in archeologia?
Credo, in verità, che la portata di questa informazione in campo archeologico possa rivelarsi di natura epocale su più versanti. L’identificazione della tomba-tempio del re Minosse in terra di Sicilia con il sito di un monte di mia proprietà dell’agrigentino, credo difatti possa ridisegnare ex novo sul piano storico, se accreditata e convalidata come ipotesi dall’avallo scientifico ed accademico che auspico e caldeggio con la mia opera, il quadro dei contatti e dei rapporti in antico tra Oriente ed Occidente, retrodatandoli di diversi secoli ( XVI-XIII sec. a. C. ) rispetto a quelli conclamati della colonizzazione greca d’età storica (VIII sec. a.C.), nonché sul piano filologico-letterario possa servire a riconoscere, in via definitiva ed una volta per tutte, piena veridicità ai miti antichi e alla loro tradizione orale conservatasi, come nel nostro caso, prodigiosamente inalterata nel tempo. A questo titolo va messo in rilievo che lo stesso storico greco Tucidide, nella sua “Archaiologia”, affrontando il tema del mito, intuisce che la narrazione mitica, tradita oralmente, è a suo modo storia, indizio di realtà non altrimenti conoscibili. Sempre per il nostro storiografo la tradizione mitica, accanto ai dati materiali, “archeologici”, è uno degli strumenti di cui chi si occupa di storia può avvalersi per ricostruire epoche per le quali non esistono testimonianze scritte. Va inoltre ricordato che per Erodoto, Diodoro Siculo nonché Aristotele, maggiori fonti dell’infausta saga del re Minosse in Sicilia, la storicità di personaggi quali Minosse, Dedalo e Cocalo non è posta minimamente in dubbio. Quindi nessuno iato ed estraneità radicali fra mito e storia! Gli “arkhaìoi lògoi” più affidabili e più noti meritano pertanto di far parte a pieno titolo della Storia e fungere da elementi spia e guida, come lo sono stati per me, nella conduzione della ricerca archeologica. La memoria mitica della sepoltura di un re dal nome “Mini Minosse” nelle viscere della mia montagna, memoria questa, non so per quale arcano disegno del Destino, tramandatami sin dalla mia più tenera età da mio padre, “aedo” moderno e inconsapevole custode di una verità appartenente al tempo “aionico” del mito, unita alla sbalorditiva concordanza dei dati forniti dalle fonti storiche sul triste epilogo dell’avventura del re Minosse in Sicilia con quelli emersi dall’indagine autoptica, topografica, toponomastica, idrografica e folklorica da me effettuata sul territorio in questione, indurrebbe ad avvalorare la suggestiva ipotesi archeologica avanzata e a considerare l’identificazione della fortezza dedalica di Camico e del tempio-sepolcro del talassocrate cretese col sito di mia proprietà, non solo possibile e probabile ma pressoché sicura.

http://www.faraeditore.it/nefesh/dimorare.html



Chi sono Minosse e Cocalo, quest’ultimo co-protagonista della Sua interessante storia?
Minosse e Cocalo, personaggi della cui autenticità storica, insieme al deuteragonista Dedalo, nessuno dei grandi storiografi antichi ha mai dubitato, sono i protagonisti indiscussi della narrazione “aedica” da cui sono scaturite tutte le ricerche e indagini esposte e illustrate nel mio libro. Primo grande talassocrate cretese, Minosse, re di Cnosso figlio di Zeus ed Europa, trovò la morte in Sicilia a Camico, nell’inseguire Dedalo colà riparatovi, per mano del re indigeno sicano Cocalo, che l’uccise con il concorso delle figlie in un bagno bollente. Il suo cadavere fu dai compagni che lo avevano seguito nella spedizione punitiva sepolto con grande fasto nell’isola. Quest’ultimi difatti, come narra la fonte diodorea, “costruirono un doppio sepolcro e posero le ossa nella parte nascosta , mentre in quella scoperta edificarono un tempio ad Afrodite”. Più tardi la sua tomba sarebbe stata rinvenuta da Terone, tiranno di Agrigento, e le spoglie trasportate a Creta, dove gli si sarebbe stato innalzato un monumento sepolcrale (la Temple-Tombe scoperta a Cnosso da Evans).

Sostiene di avanzare un’ipotesi “eccezionale” e di temere il “fuoco incrociato” dell’accademia e del pubblico. Perché?
Senza ombra di dubbio quella da me avanzata si configura come un’ipotesi sensazionale che prende avvio dalla caparbia convinzione, nutrita sin da quando adolescente ne raccolsi testimonianza in ambito familiare ed in loco, che la memoria mitica della sepoltura di un re dal nome “Mini Minosse” che aleggia da tempi ancestrali sul mio monte, costituisse per il carattere orale della sua veicolazione, nonché per il fatto che a tramandarla fossero degli “aedi” moderni, privi e sprovvisti di qualsivoglia conoscenza delle fonti letterarie in merito, la prova più autentica e fededegna della conservazione nei millenni della tradizione leggendaria di un evento realmente accaduto e testimoniato dalle fonti classiche. A suffragio dell’ipotesi che identificherebbe la maestosa e svettante struttura rupestre, pregna di arcaica e fascinosa sacertà, ubicata nelle remote e solitarie campagne dell’agrigentino, con l’ultima dimora del re Minosse in terra di Sicilia di cui parla in particolare Diodoro Siculo nella “Biblioteca storica” concorrono e risultano elementi probanti la particolare localizzazione geografica della rupe, le patenti coordinate minoico-micenee della rocca ivi costruita, seppur frammiste alle successive contaminazioni operate in seguito dai dominatori bizantini, musulmani, normanni e svevi succedutisi (gli studi precedenti la mia opera si limitano per lo più a considerare e a classificare tale insediamento come genericamente altomedievale), nonché la preziosissima memoria popolare da me raccolta e verificata direttamente in loco. Quanto ai timori da me nutriti in merito alla risposta del mondo scientifico e del pubblico di fronte all’eccezionalità dell’ipotesi avanzata, devo confessare che essi sono dettati dalla natura divulgativa, “democratica” e controcorrente della mia opera, lontana per molti versi dalle pubblicazioni a carattere strettamente specialistico, di nicchia e a circuito chiuso di pubblico di un certo mondo accademico tuttora scettico circa la validità delle fonti mito-storiche, fonti letterarie antiche riferenti notizie relative a età protostoriche, in parte deformate dalla fantasia narrativa del mito ma contenenti, in realtà, elementi utili e preziosi per la ricostruzione storica.

Parla del “disagio di lavorare in solitudine”: qual è stato il peso più grande nella conduzione della Sua ricerca?
Sicuramente nel corso di questa mia avvincente avventura umana ed archeologica in terra di Sicilia diversi sono stati i momenti in cui ho avvertito “ il disagio del lavorare in solitudine”, proprio di chi, mosso da una vocazione archeologica “freelance”, lontana dagli apparati e dai supporti dell’archeologia ufficiale, si è trovata da ricercatrice indipendente e autonoma a condurre negli anni indagini e sopralluoghi sistematici in un sito di sua proprietà. Tale scenario operativo se da un lato mi ha consentito ampi spazi di manovra e azione di ricerca sul campo dall’altro mi ha caricato talora oltremisura del peso derivante da un forte senso di responsabilità e vincolo di rispetto e segretezza verso una storia che, per dirla tutta, ho esitato per lungo tempo a rendere di dominio pubblico e a consegnare fiduciosa alla Storia ufficiale.

In apertura denuncia la Sua “vocazione archeologica romantica e singolare”, che lascia pensare che Minosse sia solo l’inizio della strada. Qualche anticipazione su ciò che ci aspetta?
Non so, a dire il vero, ora come ora se Minosse rappresenti l’inizio o la conclusione di questo mio indimenticabile “ viaggio a ritroso nel tempo del Mito”. Certo è che la stessa appendice del mio libro farebbe presagire un “continuum” della storia, dai risvolti, per certi versi, inquietanti e misteriosi. Diversi indizi e testimonianze raccolti poi nel corso degli studi condotti in terra di Trinacria mi hanno spinto ad allargare l’orizzonte delle ricerche a particolari “relitti” folklorici (riti, danze, fiabe, canti e “cunti”), per il loro sostrato e la loro matrice in stretto rapporto di filiazione e mutuazione con l’antica civiltà ellenica, che mi riservo in un futuro di approfondire. Per essi, come per la memoria mitica della tomba-tempio di Minosse, vale l’illuminante pensiero dell’insigne archeologo Paul Faure, “cometa” di tutte le mie indagini: “Una grande civiltà non può morire tutta intera, colare a picco con tutti i suoi uomini e tutti i suoi apparecchi. Di un naufragio resta sempre qualche cosa”.

martedì 11 febbraio 2014

Vincitori del concorso Pubblica con noi 2014 sez. Racconto

La Giuria e Fara Editore sono lieti di comunicare i risultati della XIII edizione del Concorso. Potrete leggere gli autori nel volume Opere scelte, in preparazione. Per la sezione Poesia v. farapoesia.blogspot.it

Classifica Pubblica con noi 2014 - Racconto

1° classificato

PARK KUL'TURY 
di Maria Clotilde Pesci Schiavo (Roma)

Il primo mattino della sua permanenza in città neanche poteva dirsi una giornata di pioggia, ché le gocce si rarefacevano nell’aria come una spruzzata di selz, e in strada i passanti neanche capivano se stessero respirando o affogando. Perciò Lia aveva dovuto rinunciare al suo proposito, rimandandolo al giorno seguente. Aveva quindi chiesto di chiamarle un taxi e si era fatta portare al Dom musjei di Lev Tolstoi.
La casa di città del sommo romanziere russo, un tempo in estrema periferia e ora a pochi passi da una delle grandi arterie radiali, era una dacia solo un pochino più grande dell’usuale, contornata da un giardino di betulle e situata di fronte a una vecchia manifattura in disuso. Percorrendo, impacciata dalle obbligatorie ciabatte di feltro, gli angusti corridoi in legno, Lia non aveva potuto esimersi da un pensiero di solidarietà per la moglie e i figli del conte, il quale, benché erede di un titolo nobiliare di prestigio e ricchissimo proprietario terriero, per una decisa scelta etica - elevata quanto si vuole, ma insomma! - li aveva costretti a un tenore di vita misero e all’epoca, considerati il suo livello sociale e le sue ingenti sostanze, a dir poco scandaloso. (…)


Maria Clotilde Pesci Schiavo, vive a Roma, è nata a Cagliari il 21 maggio 1934, è laureata in Scienze Politiche, ha insegnato Diritto e Economia negli Istituti Tecnici Commerciali. Ha scritto e pubblicato un lungo romanzo storico ambientato negli anni 1943-45, premiato in Campidoglio per la partecipazione al Concorso letterario ALBEROANDRONICO e un racconto che ha ricevuto il 3° premio nel concorso letterario LA GIRANDOLA. Altri racconti e reportages sui periodi trascorsi a Mosca all’epoca dell’Unione Sovietica sono ancora nel cassetto.

«I desideri di una vita che si rivelano in tutta la loro opacità una volta realizzati, la consapevolezza degli anni che passano, sono I temi di questo racconto che riesce a mantenere l’attenzione del lettore grazie ad un uso consapevole delle descrizioni del paesaggio moscovita. Il sorriso che emerge a fatica consola ma non risolve.» (Alessandra Carlini)

«Racconto ben delineato nella rara cornice del nord-est continentale. Una narrazione non eclatante, uno stile indubbiamente elegante e corposo. Il culmine credo si possa ravvisare nelle righe che riportano, tanto nitidi, i fenomeni atmosferici e naturali. E non di minor vigore si dimostra lo ‘sguardo sociale’, perspicace ed abile nell’introspezione. La lettura incespica appena al subentrare di flash storici e nomenclature varie.» (Fabio Cecchi)

«Una scrittura elegante, una Mosca raccontata con una fluidità narrativa tutta contemporanea, in cui ad ogni angolo spuntano, plasticamente e quasi non avessero tempo, dettagli preziosi della città e dei pensieri di una donna. Uno sguardo femminile, intelligente e simpatico, ci accompagna attraverso Gorky Park e lo fa con una bella saggezza pratica, che non manca di interpretare segnali dalla vita anche mentre indulge al fascino di una città incantata.» (Roberta Leone)

«Non l'ho trovato facile da leggere, per i molti riferimenti che possono confondere chi non conosce la zona geografica e/o culturale; però è stata una scelta coraggiosa, quella di rileggere alcuni passaggi della cultura russa attraverso la storia di un personaggio; stile piacevole.» (CarloBroccardo)



2° classificato

Borgo di piombo 
di Giorgio Massi (Ascoli Piceno)

Cap. 1
È ferragosto. Ringhia il cielo di aria infetta.
È una maledetta giornata di noia. Il muro di schiene marine è lontano km quadrati.
I gatti in giardino parlano lingue metafisiche accartocciandosi in capriole da zoo.
Li seguo con occhio sbarrato, quasi vuoto.
Si ammassano tra loro, poi scompaiono nella radura falciata da un’allegria gitana.
Adoro i felini cosi come l’odore di nafta sulla moquette o le storture letterarie da visigoto.
Dialogherei con qualcuno, ma l’afa mi trascina nel declivio.
I minuti si piegano nelle ore come lacrime d’ansia in dettagli esagonali. Un orologio senza pietà esprime la codardia del tempo. E nessun battito alle ore dodici.
È un mezzogiorno da funerale. Uno come molti altri.
L’unica consolazione sta nella ricerca di aria fredda che si ammassa in immagini visionarie.
La ragione vola così in alto, verso montagne pure come vergini d’estate.
In direzione Appennino.
Mi dirigo a ritmo scabroso su di un’auto di fortuna verso curve a gomito scolpite a ritmo di blues.
Il passaggio di marce è una intersezione tra dita.
Scivolo sul freno-motore, scaldando la schiena a una strada monotona come due dadi in scatola. (…)
Giorgio Massi (1973, Ascoli Piceno). Aspirante scrittore, giornalista, poeta pentito, curatore di eventi culturali e tornei tennistici.

«L’unico racconto ad osare un poco nello stile e che cerca una cifra narrativa personale. (Paolo Galloni)

Originale lo spunto e il linguaggio.» (RobertoBattestini) 

«La fuga dalla calura verso il borgo appenninico si gioca su continui calambour e immagini e ritmi e atmosfere che sembrano uscire da un comic americano o da un film di Miyazaki.» (Simone Sereni) 



3° classificato

METROPOLI

di Sara Macchi (Ferrara) 
1.
La mia capacità di giudizio di quell’estate 2007 lasciava molto a desiderare. Non mi aspettavo niente di buono da quel caldo che mi picconava la faccia. Ma il bello è che va sempre in modo diverso da come l’avevi pensata. Cosa si può raccogliere dalla strada? Pezzi di birra in frantumi, sigarette attorcigliate, merde di cane. Un uomo.
Lui arrivò quando le parole si bloccarono. Come un fiume strozzato a monte. Non scrivevo più. Non era un blocco, niente panico della pagina vuota. Era qualcosa di più strutturale. Non riguardava la scrittura nel suo insieme: i miei articoli per La Deutsche Vita li scrivevo a tutta velocità e i miei fazzoletti erano invasi da muco e appunti. Ma la mia scrittura, quella più profonda, quello con cui convivo da quando ho sei anni, era addormentata. Avevo migliaia di storie, di oggetti, di facce, di terre che premevano nel mio petto e urlavano e io non riuscivo a farli uscire. (…)



Sara Macchi (foto a lato di Giulia Paratelli) è nata nel 1983 a Venezia. Laureata in Lingue, Storia e civiltà all'Università Ca' Foscari e in Didattica e Promozione della lingua e della cultura italiana a stranieri. È insegnante precaria di italiano per stranieri, scrittrice da quando tiene in mano la penna, blogger da quando esiste internet, redattrice della rivista «Listone Mag» di Ferrara. Ha vinto il concorso di scrittura creativa dell'associazione Bologna-Bruxelles nel 2013 e ha collaborato con la rivista letteraria «Chichibio». Fa parte dell'associazione culturale Il Gruppo del Tasso che si occupa di diffondere la letteratura e la poesia nella città di Ferrara. Parla tedesco, inglese e francese.

«L’angoscia a malapena trattenuta, resa attraverso uno stile da seduta di autocoscienza rende questo racconto interessante. Il filo conduttore è un amore mal corrisposto in una vita che tende a spostarsi ai margini un po’ per scelta, un po’ per incapacità di fare diversamente. I limiti del racconto si rispecchiano nei limiti della metropoli e dei suoi “non luoghi”. Claustrofobico.» (Alessandra Carlini)

«“Una vita incasinata è attraente solo quando non ce l'hai”: è la sintesi dell'umore amaro dell'autrice, in un racconto che apre anche una finestra concreta e poco glamour sull'esperienza della cosiddetta “nuova emigrazione”.» (Simone Sereni)

«Una voce disillusa – eppure non vinta - anima il dialogo interiore e sostanzia le immagini, i ricordi, le metafore dolenti  di questo racconto ruvido, spezzato, forte di un linguaggio visuale incisivo. La cornice della metropoli solo apparentemente resta sullo sfondo: è in realtà causa e sovrana della jungla emotiva in cui i suoi abitanti provano se stessi e, amando, tentano di sopravvivere.» (Roberta Leone) 

4° classificato

Quel vecchio stile di amare 
di Claudia Lo Blundo (Montoro Inferiore, AV)

Patrizia volse uno sguardo distratto al di là dalle vetrine, che si aprivano su corso Buenos Aires e, solo allora, si rese conto che il pomeriggio era ormai diventato sera.
Si guardò attorno: il suo editore aveva fatto bene a scegliere l’ampia sala di quella libreria come sede per la presentazione del suo libro Cento giorni in Africa, infatti erano venute più persone di quanto lei avrebbe potuto sperare!
Era soddisfatta! Anche questo romanzo sarebbe diventato un best seller e avrebbe vinto qualche premio importante.
“Ancora una volta” le aveva detto poco prima l’editore, compiaciuto “con questo libro toccherai l’apice del tuo successo”.
Mentre alcuni ospiti alla presentazione si attardavano a parlare tra loro o si fermavano ai vari scaffali per curiosare tra gli ultimi arrivi letterari, decise di dare anche lei uno sguardo tra le varie corsie dei libri: letteratura, arte, storia, i tascabili, i Newton? Robetta! Non li leggeva mai! Ma il nome di un autore, tra i Newton, attrasse la sua attenzione: Aldisio Torrici.
Aldisio Torrici! Aveva saputo della sua morte, avvenuta circa un anno prima: come mai, ora, lì, c’era un suo scritto?
Quel vecchio stile di amare. (…)


Claudia Lo Blundo Giarletta è nata a Roma il 17 marzo 1942. Risiede a Montoro Inferiore (AV). Laureata in Servizio Sociale, sposata, già nonna, ha svolto la professione di Assistente Sociale. Ha pubblicato 7 libri, alcuni a proprie spese e altri con la pubblicazione gentilmente offerta. Ha partecipato a numerosi concorsi di narrativa e poesia, conseguendo anche primi premi.

«Ho trovato piacevole lo stile, leggero pur raccontando una storia difficile. Bello l'intrecciarsi dei due racconti, quello narrato in terza persona e quello contenuto nel libro che Patrizia trova sullo scaffale. Un po' triste la conclusione, ma forse è quella giusta, in sintonia con il personaggio.» (Carlo Broccardo)

«Il recupero delle memorie intime è convincente.» (PaoloGalloni

«Cornice cultural-mondana per una scoperta sentimentale che affonda nel passato della protagonista, e che in qualche modo la obbliga a un bilancio esistenziale. Ma le cose sono come sono perché noi così le abbiamo volute, e non c’è spazio per il rimpianto. Buona la tenuta della struttura narrative che rimane asciutta e essenziale.» (Alessandra Carlini) 

5° classificato

Il salto nel buio e altri racconti 
di Giorgio Caporali (Terni)

Ai margini della mia città sorge un piccolo parco, dove alti pini romani e querce secolari intrecciano, in un abbraccio, i loro rami per ombreggiare i giochi dei bambini e le panchine di legno durante la grande calura estiva.
Da questo luogo si snoda, come un ruscello, un viottolo delimitato da fitte siepi, cespugli e alberi, per poi confluire in una piccola radura illuminata dal sole.
Un giorno d’inizio primavera decisi di attraversare il parco per poi proseguire a piedi verso il centro storico della città; grande fu il mio sconcerto nel vedere come l’incuria si era sostituita a quella cura iniziale che aveva reso gradevole la frequentazione di quella piccola oasi di verde e tranquillità.
Qualcuno riposava disteso su una scomoda panchina, forse pensando di aver lasciato nella sua terra la paura e la violenza, ma non la fame.
In compagnia di questi pensieri, mi avviai lungo il viottolo e vidi un uomo  di colore  venire verso di me tenendo in mano un telefonino; quando ci trovammo di fronte proseguì il suo cammino senza distogliere l’attenzione da quell’oggetto; mi voltai a guardarlo e, più in là, lo vidi sedersi su una panchina mentre continuava a manipolare il telefono. (…)



Giorgio Caporali è nato a Terni il 25 maggio 1938. Maturità scientifica, a seguire attività lavorativa in una compagnia aerea, specializzazione nel campo dell’automazione per i processi aziendali e passaggio a una multinazionale operante nel campo. Successiva attività in alcuni Istituti bancari in qualità di dirigente. Ha partecipato a diversi Concorsi letterari di narrativa e favole ottenendo sempre, con la premiazione, l'apprezzamento delle opere presentate.

«Notevole specialmente per il primo, "il salto nel buio", che ho trovato profondo nel far conoscere i sentimenti dei personaggi, oltre che nella scelta della trama. Alcune descrizioni sono un po' troppo dettagliate, non facili da immaginare; ma si riscatta con uno stile bello da leggere e mai melodrammatico, nemmeno nei passaggi più coinvolgenti dal punto di vista emotivo.
(Carlo Broccardo)


Ci sono storie che meritano di essere raccontate. E ci vuole che qualcuno le sappia guardare. Il merito di questi racconti sta soprattutto in questo.» (Simone Sereni) 


6° classificato 

Di vita e d’Oltre: 4 racconti 
di Mario Mastrangelo (Salerno)

IL DIO DELLE FORMICHE

Nel giardino di casa, quella di campagna di proprietà dei nonni, dove Sergio passava molto tempo nei mesi estivi, c’era un muretto a secco, piuttosto malandato, con alcune pietre smosse o divelte, con varie erbe cresciute disordinatamente.
Era di là che veniva quella fila fitta di formiche, un rigagnolo di scura materia vivente, suddivisa in infiniti minuscoli corpiccioli, che si allungava allontanandosi dalla base del muretto, sparendo, dopo un cammino di qualche metro, sotto una grossa pianta ornamentale.  
Quasi a metà strada tra il muretto e la pianta, una fila di rustiche piastrelle, che costituiva la pavimentazione di quel punto di giardino, costringeva le formiche al frenetico attraversamento di una superficie liscia e regolare.
Era lì che Sergio si metteva accoccolato col suo martelletto.
Manico di legno chiaro, testa di metallo brunito, elegante e comodo da impugnare, quel martello era, in quel periodo, compagno abituale dei giochi solitari di Sergio, ragazzo introverso e dal comportamento decisamente singolare.
Si diceva che fosse autistico o comunque mentalmente compromesso, ma c’era pure chi sosteneva che il ragazzo era normale, però alienato dalla vita solitaria cui lo costringevano i genitori. (…)

Mario Mastrangelo (Salerno, 1946, già docente di scienze naturali) scrive prevalentemente nel dialetto della sua città. Ha pubblicato finora sette raccolte di poesie dialettali, dal 1992 al 2011, l’ultima, Nisciuna voce (Nessuna voce), con prefazione di Franco Loi. I suoi versi, scritti in un dialetto musicale, piegato dall'autore alle esigenze d’espressione del suo universo poetico, sono sostenuti da un delicato gioco di rime e si immergono nei diversi spazi dell'interiorità, toccando temi profondi. Commenti alla sua opera poetica sono inseriti in volumi e periodici di critica letteraria. Diverse sue composizioni sono state pubblicate su riviste, tradotte in inglese e raccolte in antologie. Affianca all’attività di poeta quella di scrittore di racconti e di studioso di vari aspetti della poesia e narrativa italiana contemporanea, con contributi apparsi su varie pubblicazioni di letteratura.

«Un titolo affascinante ci avvia a quattro testi ben calibrati per tono e lunghezza. Soddisfacenti risultano sia la stesura che i soggetti. I brani due e quattro appaiono affaticati, rispettivamente, da vibrazioni spirituali da catechesi e da un’atmosfera melenconica, niente di troppo lesivo ad ogni modo.» (Fabio Cecchi) 


7° classificati ex aequo

Sono Cappuccetto Rosso ed altri racconti 
di Carla De Angelis (Roma) 

- Mamma mi racconti una favola?
- C’era una volta…
- Ora non c’è più?
- C’è ancora, ma le favole iniziano così.
C’era una volta una bambina tanto birichina, ma anche altruista e buona. Aveva sempre un sorriso e una parola per gli altri e girava per il quartiere con la sicurezza di una persona già adulta contagiando tutti con la sua allegria. Da un po’ di tempo però era diventata triste perché non poteva, non sapeva riprendersi dal dolore per la scomparsa del nonno e così quando la sera si ritirava nella sua stanzetta ripensava ai suoi racconti.
Il nonno l’andava a trovare una volta a settimana e si sedevano nei giardinetti di p.za S. Maria Ausiliatrice vicino alla fontanella da dove poi avrebbero riempito due bottiglie di acqua fresca da portare alla nonna.
Il nonno aveva fatto parte della Resistenza Italiana, partigiano nelle montagne del Piemonte che fanno da confine tra l’Italia e la Francia. Era comunista, rosso. (…)




Carla De Angelis è nata a Roma dove vive e lavora; ha collaborato con alcune riviste italiane e internazionali e ha allestito mostre in varie librerie di Roma e al Museo del Folklore, ha partecipato alla mostra dei Presepi nella chiesa del Bramante a Piazza del Popolo. Nel 2005 ha ripreso la scrittura e fino al 2014 sono uscite varie raccolte di versi: Salutami il mare, A dieci minuti da Urano e I giorni e le strade con Fara, Mi vestirei di mare con Progetto Cultura; i libri: Diversità apparenti (dialogato con Stefano Martello), Il resto (parziale) della storia (scritto e curato con Stefano Martello e con contributi di altri scrittori), entrambi con Fara. Testi sono presenti in antologie edite da Fara. A giugno 2012 ha curato l’Antologia “Corviale cerca poeti” edita da “youcanprint”. Tutti i libri hanno ricevuto premi e segnalazioni. Poesie sono presenti in diverse Antologie edite da Aletti, Estroverso, Perrone eLiminamentis. Nel 1995 il Presidente della Repubblica le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica Italiana. Attualmente, terminato il lavoro nel settore pubblico, si dedica alla scrittura e collabora con la Biblioteca di Roma “Renato Nicolini” al Corviale.

«Piacevole è stato il confronto con tali racconti, capaci di regalare manciate di passaggi freschi e preziosi. A malincuore si rintraccia qualche non vistoso refuso sintattico, nonché la tendenza all’apertura di parentesi eteree e sospese, in sintonia con gli sceneggiati del meriggio domenicale. Il primo dei brani esordisce con buoni passi e tuttavia decade a ‘questione risolta’ in un explicit per infanti. La narrazione del secondo incede senza scossoni, assestandosi su un discreto standard nel capitolo seguente. Nel brano conclusivo è forse radunato il meglio, con fantasia che irrompe a folate e riesce a racchiudere il lettore tra proiezioni di fulgori rubescenti.» (Fabio Cecchi) 


Maria 
di Tina Fezza (Livorno)
Martedì 31 luglio, ultimo giorno di lavoro: da domani ferie per 1 mese. Si mangia sano e controllato godendo la famiglia e le gioie delle quattro mura domestiche.
Mettendo fuori uso il cellulare ed apponendo un bel divieto di accesso nel vialetto di casa si riuscirà una buona volta ad isolarsi dal mondo, oppure no? Ed ancora: se non siamo indispensabili, alle volte persino poco utili, allora nessuno dovrebbe accorgersi di questa assenza, non è vero? No, purtroppo no. Per staccare “il giusto”, allontanandosi dalle solite persone e dai consueti riti della quotidianità, credo sia necessario, almeno, un corroborante viaggetto nello stupendo Sud!
Faccio, come sempre, buoni propositi per l'inverno. Niente di trascendentale però, solo semplici precetti ai quali conformare i miei comportamenti futuri. (…)


Assunta (Tina) Fezza è nata l’8 marzo 1969 a Livorno dove risiede. Lavora in una Ditta a conduzione familiare che si occupa di manutenzione di Impianti di Riscaldamento. È sposata e ha due figlie di 23 e 18 anni. Ha la maturità Magistrale ed ha frequentato per due anni la facoltà di Lettere all’Università di Pisa che ha poi abbandonato quando ha trovato lavoro. Ha sempre coltivato la passione per la lettura, ma in questi ultimi 4/5 anni si è cimentata nella scrittura di racconti e qualche poesia. Frequenta da due mesi per la prima volta un corso di scrittura creativa. “È la prima volta che invio un mio racconto ad un Bando di concorso e lo faccio con la coscienza dei miei notevoli limiti ma perlopiù spinta da una grande passione.”

«Spessore nei sentimenti, trama coinvolgente.» (Roberto Battestini)

lunedì 10 febbraio 2014

Auschwitz

di Sandro Serreri

 

Auschwitz, 27 gennaio 1945

Fu una mattina gelida, invernale. Aprirono i cancelli e questi cigolarono. L’alito, caldo, si fece affanno. Gli scarponi avanzarono. Gli occhi aperti e le bocche chiuse, ammutolite. Superarono i fili spinati. Tutt’intorno, silenzio e neve. Apparvero loro i primi internati, come fantasmi. Scheletri vestiti, deformi, curvi. Iniziò, così, l’orrore. Li videro uscire dai dormitori. Non erano uomini, erano ciò che restava. Non dissero nulla. Guardarono e basta. Le bestie che avevano urlato, riso, ucciso, torturato, erano scappate. Per questo, non si sentì sparare. I passi aumentarono. Ai numerati se ne aggiunsero altri: donne e bambini, poche, pochi. Qualche bambino sorrise. Alcune donne, senza capelli, iniziarono a piangere e anche qualche vecchio. Mentre gli uomini no. Non credevano che era finita. Non credevano che la Morte li aveva lasciati vivi. Entrarono nelle baracche. Qualcuno si tolse l’elmo e iniziò a grattarsi la testa. Il puzzo era umano, ma comunque stomachevole. Ne videro, così, altri, stesi su nudi e umidi tavolacci. Lo sguardo smarrito. Occhi vuoti, corpi intirizziti dal freddo e, ancora, dalla paura. Allora, furono portate le prime coperte. Recavano scritte in cirillico. I bambini, più coraggiosi, perché più vivi, mostrarono loro numeri tatuati sulla pelle e tesero ciotole vuote: avevano fame. Passo dopo passo il campo si riempì e andarono da per tutto. Fu così che videro… l’inimmaginabile. I forni crematori, abbandonati, ma ancora fumiganti. L’odoro, in alcuni di loro, provocò il vomito. Poco più in là, le fosse comuni. Corpi nudi, aggrovigliati. Si fermarono. Nessuno disse niente. Guardarono e videro la Morte, il Male. Qualcuno iniziò a fotografare e filmare. Tutto doveva essere documentato, a perpetua memoria. Continuarono a girovagare per i campi dello sterminio, percorrendo i viottoli, entrando nelle baracche, negli alloggi. Tutto appariva irreale, non possibile, non umano, come un incubo. Invece, quando il sole si fece alto, tutto era vero; mostruoso, ma umano. Non era un sogno, era la realtà. Era stato l’Inferno sulla terra. Le bestie avevano reso l’impossibile possibile. Quella mattina non nevicò. Per questo, sembrò primavera. Giunsero, nel frattempo, i primi autocarri. Portarono via i sopravvissuti. Fragili, come foglie secche, vi salirono. Qualcuno, allora, iniziò ad abbozzare un sorriso, qualche altro a parlare. Le lingue furono tante, ma tutte molto umane. E queste lingue divennero milioni, perché, poi, iniziarono a raccontare ciò che fu, ciò che non dovrà mai più accadere. E mentre loro partivano, per sempre, altri arrivarono, in quelle stesse ore, chiamati via radio per vedere ciò che il mondo non aveva voluto vedere, ma che ora doveva vedere. Qualcuno, si sedette, la testa tra le mani, la vergogna dentro il cuore. Erano giovani. Non avrebbero visto mai più nulla di simile. Molti di loro non fecero ritorno nelle loro case. Mentre, molti altri divennero padri, ma non raccontarono mai ai loro figli quel che videro, quel che piansero, quel che vomitarono. Questo videro i soldati russi ad Auschwitz il 27 gennaio 1945.



SIAMO

di Sandro Serreri

Auschwitz, 27 gennaio


Siamo, cenere, acre
nel vento della storia
urla di bambini scheletro
e lacrime di madri vedove
donne senza latte e capelli
e uomini divorati dalla paura.

Siamo, ossa, marce
nella grassa terra invernale
colline di cadaveri, nudi
e groviglio di bocche, soffocate
mercanti dai denti strappati
e signore vestite di vergogna.

Siamo, corpi, mostruosi
nei campi dello sterminio
fantasmi di salmi nascosti
e occhi di vecchi, ammutoliti
sangue amarissimo e innocente
e cuori vuoti e inospitali.

Siamo, la coscienza, pesante
nella fossa del Male.

E noi, a loro
perdonateci!

No!


 
LA CLESSIDRA

Al 31 dicembre
di ogni anno

Sulle note del Concerto a cinque per oboe solo e archi
op. 9, n. 2 in re minore, Adagio
di Tomaso Giovanni Albinoni

Il tempo fugge, come, un ladro
in questa notte, stellata e nera
come non mai.

Ha rubato tutto o quasi, a noi
che non sappiamo né correre
né contare.

A noi, povere ombre decadenti
infelice ritrovo di amarezze
d’altre lune e d’altro, ancora.

C’è rimasto solo, un fazzoletto
per soffiarci il naso e, forse
una lacrima.

Un rosso fiorellino di campo
per ricordarci com’eravamo
anche se, nudi.

Il resto, è stato portato via
chi sa dove, ma questo, si sa
poco importa.

Ma c’eravamo affezionati, maledizione!
perchè non dirlo, a questi giorni
pur tutti uguali, tutti.

A queste ore dal ticchettio
fatto di sabbia colorata
e di vetro soffiato.

A questo nido, piccolo e solitario
abbarbicato in una stanzuccia
remota, quanto basta.

Così, ci ha rubato il pianto
del timido mattino per un sole
troppo pallido.

I nascosti movimenti quotidiani
intrisi di lavori domestici
molto poco nobili.
Il profumo del buon caffè
e il magico petagramma inglese
assai musicale.

E poi, il ritmo delle gocce
sui vetri appannati e freddi
comunque, ospitali.

I passi per vie sconosciute
nella disperata ricerca
d’un abbraccio, d’un bacio.

L’illusione d’un amore, ah!
eterno, perché l’eternità
esista, chi sa?

Il desiderio d’una casa
enorme, come un castello
sotto la neve: ah, la neve!

Tutte le fiabe nordiche
dove, c’è sempre qualcuno
che muore e nasce.

L’amaro della tristezza
che muta d’abito, ma
puzza, sempre.

L’infelicità di ritrovarsi
infinitamente soli e
ancora, bambini.

I libri, bellissimi, favolosi
tanti, come viaggi continentali
senza bussola e polare.

Milioni di pagine stampate
scritte, sudate, stralette, consumate
segretamente baciate: silenzio!

E poi, ancora, la tenerezza d’uno sguardo
chiusa in una scatoletta
da niente.

Il mormorio del vento che soffia
come, un flauto che respira
volando, su e giù, come un aquilone.

Il battito d’una farfalla danese
e il cinguettio d’un passero, stanco
ed infreddolito.
Gl’insignificanti ricordi fotografici
incollati su foglie canadesi, ben sigillati
da un nastro turchese e olandese.

Minuscoli pezzi d’oro colati giù
da cieli, che si stenta riconoscere
come sinceri.

Un cucchiaino d’argento, una stampa
ottocentesca, un ritratto enigmatico
dagli occhi blu.

Ma anche, dolori insopportabili
e ansie da vertigine, vuoti profondi
come un abisso, infernale.

Lutti e feste, tradimenti e
l’incomprensibile leggerezza
dell’amicizia.

E, infine, tutti i profumi, proprio
quelli collezionati con cura
quasi maniacale.

Insieme, alcuni umani odori
d’un bambino innamorato
offeso e imprigionato.

I colori degli autunni e delle poche
primavere, inesistenti acquarelli
dall’indefinibile valore.

Fugge e corre e s’affanna
il grande ladro, il tempo
questo tempo.

E la clessidra, inciampando
cade, e si rompe e con lei
tutta la nostra vita.



GUARDA SEMPRE IL CIELO E NON ODIARE NESSUNO!
Dedicato agli ebrei del 27 gennaio 1945


Incontrai un giovane amico, al quale dissi: Guarda sempre il cielo e non odiare nessuno! Sì, guarda sempre il cielo anche quando piove; guarda sempre il cielo anche quando non c’è il sole; guarda sempre il cielo anche quando non ci sono le stelle. E non odiare nessuno, non desiderare il male di nessuno, non volere la disgrazia di nessuno. Questo ho vissuto, questo sto vivendo, questo voglio continuare a vivere. Perché il cielo è là e l’odio è qua; perché il cielo è grande e l’odio è piccolo; perché il cielo è aperto e l’odio è chiuso. Non c’è scampo: o guardi il cielo o odi! Scegli! Io ho scelto il cielo, ho scelto l’infinito, ho scelto lo spazio dell’orizzonte. Chi vuole scegliere il limite? Chi vuole scegliere il finito? Chi vuole scegliere il confine? Il misurabile non fa per me. Il determinabile non è per me. Forse anch’io ho avuto il mio lager. Forse anch’io ho avuto la mia baracca. Forse anch’io ho avuto i miei aguzzini. Sono rimasto in piedi. Sono rimasto vivo. Sono rimasto un uomo. E quando la Notte tutto avvolgeva, non ho mai smesso di sognare il buon mattino. E quando il freddo mi gelava i piedi e le mani, non ho mai smesso di camminare e di tenerle aperte. E quando il Male, il Dolore, la Sofferenza, la Morte, m’indurivano il cuore, non ho mai smesso di amare. E quando il Vuoto, il non senso, l’irrazionale, tutto aggredivano, violentavano, sbranavano, non ho mai smesso di scrivere e recitare poesie. E quando il Silenzio dominava assurdamente, dentro e fuori, non ho mai smesso di cantare. E quando Dio si nascondeva e taceva, non ho mai smesso di pregare. E uscito dalla Fossa più nera e più profonda, non ho maledetto il cielo e la terra, ma ho continuato a credere nell’uomo, ho continuato a credere nell’amore, ho continuato a credere nell’amicizia. Ecco perché, mio giovane amico, pur piangendo, anche oggi, ma anche domani e dopodomani, continuerò a guardare il cielo e a non odiare nessuno.

Sandro Serreri
 






LA STELLA GIALLA

di Sandro Serreri


Ho sognato, sì ho sognato di avere una stella gialla cucita sul petto e di pregare e urlare: Dio, Dio mio, dove sei? Dove, dove ti nascondi? Perché, perché taci? Ho sognato che il suo silenzio mi atterriva e che piangevo, piangevo molto. Ho sognato che osservavo il cielo e che dal cielo cadeva prima la pioggia e poi la neve, ma non cadeva Lui. La mia stella gialla non era come quelle che, luminose, brillavano in un cielo vuoto di Dio. E più mi giravo e rigiravo col naso all’insù e più quel vuoto mi angosciava. Sentivo un forte dolore che dallo stomaco saliva passando per il cuore e la gola sino ad esplodere dentro la testa dove come una eco rimbombavano le domande: Dove sei? Perché taci? La notte era invernale col suo immenso gelo che respiravo e respingevo ansimante. Era la notte infinita del mio Dio e la vidi ancor più nera. E nel sogno, camminavo ora con gli occhi fissi sul firmamento ora fissi sulla strada avanzando a tentoni come un cieco. Su e giù, a destra e a sinistra, ma niente: né un suono né una luce. Sentivo la pressione del sangue. Abbacinato dalle stelle cantavo la mia preghiera: Dio, Dio mio, Dio invisibile, Dio nascosto, Dio muto! Che Dio sei? Se non ti vedo, che Dio sei? Se non ti sento, che Dio sei? Ho sognato che l’incomprensibile non era la stella gialla, ma il silenzio del Dio della mia infanzia. Ho sognato che l’irrazionale non era la stella gialla, ma l’assenza di Dio. E più urlavo il mio dolore metafisico e più la mia religione s’inceneriva e volava via come polvere. E ho sognato che non mi vergognavo della mia stella gialla, ma di me uomo senza Dio, uomo senza la voce di Dio, uomo senza il volto di Dio. Ho sognato, allora, e solo allora, che Lui non era nei cieli, ma nel segreto profondo della mia interiorità, delle mie parole sussurrate, nelle mie note emesse a labbra strette, nei miei pensieri infiniti ed eterni, nella mia piccola felicità, nella fiammella della mia ragione, nella mia quotidiana commozione nell’accorgermi della calda e luminosa bellezza della vita. Ho sognato che la stella gialla era il mio cuore e che lì, e solo lì, avrei trovato il mio Dio nascosto e silenzioso.