mercoledì 5 marzo 2014

Non nego la Speranza: lettera dall'Irpinia

di Vincenzo D'Alessio


http://www.pasolini.net/saggistica_caos.htm
Caro Alessandro la lunga battaglia che tentiamo per dare voce alla nostra breve umanità anima la penna che vibra dell’energia della mano, non dello sterile tasto di fronte allo specchio di un video. Veloci, velocità, fuga nel tempo. Così ci insegnano i giorni che viviamo nella furia delle voci morte, dei campi profughi, dei muri sollevati a difesa degli ingiusti guadagni. I figli chiedono speranze ma non so trovarne nello sguardo dei carrelli al supermercato.

Ieri ho incontrato Pier Paolo Pasolini, vestito di stracci, che raccontava all’angolo della strada che porta a Corso Sempione di rallentare la corsa degli affari: “Ora il nuovo capitalismo, non ha affatto bisogno di quel ricatto – se non ai suoi margini, o in isole sopravviventi, o nell’abitudine (che si va estinguendo). Per il nuovo capitalismo, che si creda in Dio, nella Patria o nella Famiglia, è indifferente. Esso ha infatti creato il suo nuovo mito autonomo: il Benessere. E il suo tipo umano non è l’uomo religioso o il galantuomo, ma il consumatore felice d’esser tale” (da Il Caos, 4 gennaio 1969). Ma nessuno l’ascoltava.

Oggi sono ritornato nel supermercato per comprare il libro che mi hai consigliato, quello di Pierluigi Cappello, mentre tutti correvano per agguantare le ultime offerte di cibo ho letto a fatica tra le pagine. C’era un bambino incuriosito, mi ha guardato: “S’o cor (…) compagn dal jever”. Poi è scappato.  “Così come oggi tanti anni fa / mandate a dire all’imperatore / che tutti i pozzi si sono seccati / (…) perché qui c’è da camminare nel buio della parola / (…) premerete sentieri vastissimi / vasti da non avere direzione / e accorderete la vostra durezza / alla durezza dello scorpione” (Mandate a dire all’imperatore, Poesie 1992-2010). Sono uscito con il carrello vuoto di acquisti e carico di pensieri: “la ragazza Carla” alla cassa mi ha svegliato dal torpore dandomi il resto.

Credimi ti capisco quando mi scrivi di essere stanco (anche a me la mano in questo istante) di affrontare concorsi su concorsi per fare emergere la meritocrazia. Non è una malattia. Il senso diffuso di abbandono all’imponderabile tracima ad ogni angolo di strada, nelle case, nelle stanze, da dove vedi emergere visi affannati in corsa verso i mezzi pubblici. Leggi sui giornali, che durano solo un giorno purtroppo, la triste fine dell’imprenditore e l’operaio che ha perso il lavoro e la Speranza. L’ho incontrata una infinità di volte, questa bella immagine, non l’ho potuta fermare neanche nell’Eremo quieto di Fonte Avellana (che nel nome richiama la terra dove vivevo) dove mangiammo insieme pane azzimo e olio di miele. C’è troppa fretta generazionale. L’immagine permane sul fondo dello schermo ma scompare tra le tante icone affastellate. L’ingiuria del nostro tempo è proprio questa. 


Caro fratello lontano, come dirti che non posso abbandonare i figli a questi tristi figuri che si accalcano dietro palchi sgangherati di menzogne. Non credono più alla memoria. Il Benessere passa irriverente tra i banchi del supermercato nelle mani dei servitori. Il padrone è al lavoro nei grattacieli e qui vedi solo volti colorati tra i tarocchi. Cosa ci fanno i libri di carta accanto ai tablet? La mano tentenna nell’acquisto. La ritiro. Giro il carrello in direzione dell’ascensore. Mi guardo nello specchio di fondo e scorgo un’ombra che mi affianca. Lo riconosco dallo sguardo, caldo, come il vin cotto delle nostre vigne.

Pasquale Martiniello che ci fai tra Memoria e tempo ? Questo tempo non è più il tuo né il mio, come vedi non c’è ricompensa: “Ora / a rischio nero è la partita / con la civetta / che rifischia a senso unico / Ci spaventa il vuoto delle curve / gli striscioni arrotolati / il silenzio ordito da lingue / senza penna e fiato” (Memoria e tempo, 1998). Le porte si aprono lentamente verso la penombra del garage. L’auto risponde al telecomando, si apre il bagagliaio vuoto. Chiudo entrambi per partire. Accendo e ascolto la radio per compagnia. Penso alla visione che ho avuto dentro lo specchio prima.

«Nel 1963, il metereologo Edward Lorenz avanzò un’ipotesi veramente deflagrante, che ha fatto tanto discutere. In opposizione all’unilinearismo prevalente negli studi scientifici (in fisica, in biologia, in economia), fondato sul principio secondo cui una piccola variazione dello stato di una realtà non produce che una variazione altrettanto piccola dello stato finale di quella realtà, egli introduce un’altra idea del tutto sconvolgente. Sostiene, infatti, che in un sistema caotico, all’interno del quale i principi della scienza galileiano-newtoniana risultano inadeguati di fronte all’interpretazione del caos su cui si fonda la realtà nella sua complessità, una piccolissima variazione può produrre conseguenze inimmaginabili. E prova a dimostrare che il “battito d’ali di una farfalla in Amazzonia può scatenare un uragano nel Golfo del Messico”» (Ugo Piscopo, Introduzione a Storia della Poesia Irpina 2, di Paolo Saggese, 2013). Questa voce mi è familiare anche a distanza.

Quanti chilometri mi separano dall’Irpinia nell’andata e quanto poco sembrano nei ritorni che affronto nel ritrovare le terre che non hanno più il valore della casa. Sento una profonda estraneità verso i miei conterranei che si piegano ai potenti, pur di recuperare un pane nell’immediato per sé e i propri figli. Caro Alessandro ho spento la radio e il cellulare e ripenso alla voce forte di Pasquale Martiniello che mi spinse ad andare lontano ad insegnare: “Non baciai l’anello del cardinale / che ci scemava il grano già poco / per le cattive annate / Le viscere avevo cariche di fiele / per un’antica ipoteca che nido / aveva in cielo” (ib., Memoria e tempo). Un suv suona la tromba sguaiata alle mie spalle mentre imbocco via Neera: ha fretta, forse torna a casa.

Mio amato amico di corrispondenza è proprio vero che hanno ucciso la Speranza dentro i megamercati delle invenzioni? Ho proprio voglia di riposare la mano e la penna bic che si consuma nei solchi dove vorrei far rifiorire la Speranza, rossa, rossa, come i pomodori al sole cocente del Sud. 


Tuo,
da qui, marzo 2014 

Vincenzo D’Alessio

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