lunedì 30 settembre 2013

La tromba di Miles

Gianni Bergamaschi


LA TROMBA DI MILES
e altre storie in punta di jazz

Editrice GAM


Sull’onda di alcune suggestive composizioni musicali, per lo più tratte dal prestigioso repertorio jazzistico, meravigliosamente riaffiorano dai più nascosti recessi del cuore storie e volti che si credevano definitivamente sopiti.
Tornano così a rivivere, talora con toccante malinconia talaltra su tonalità teneramente romantiche o piacevolmente calde e avvolgenti, persone, emozioni, paesaggi, oggetti e drammi custodi ciascuno di un proprio inconfondibile messaggio: per lo più affettivo, benché mai ne risulti esclusa una buona dose di riflessione discreta su un passato che con tutta evidenza ancora proietta la propria orma nel vivo presente, illuminandolo e spesso conferendogli il gusto pieno del mito.

Ogni cosa, dalla più comune e apparentemente insignificante alla oltremodo vistosa e sfrontatamente invadente, viene dal narratore indagata lungo gli imprevedibili percorsi di una ricerca interiore che non di rado sconfina, sia pur impercettibilmente, in un’interpretazione mistica ovvero magica dell’universo.

Affermava all’inizio del secolo scorso il pittore Mark Tobey, uomo schivo, mille miglia remoto dal fracasso dell’arte da baraonda, animo riflessivo e indagatore: «Ho scoperto un’infinità di universi sui ciottoli stradali e sulle cortecce degli alberi».

Via via che si procede nella lettura dei quattordici racconti de La tromba di Miles, sempre più prende corpo l’impressione che il loro autore intenda far passare, in fin dei conti, un messaggio per molti versi affine e voglia dirci anche lui: «Ho i miei sogni»…

Con quanto ne segue.


Per contatti con l'autore




Fonte Avellana: dal Giordano al Gange 11-13 ott



venerdì 27 settembre 2013

Prossimamente (14 ottobre 2013)

su


STORIELLE STRASTRANE

di

Giambattista Bergamaschi




Qualche (p)assaggio

Da “Milleri”:
Suggestionata da quelle parole, ovviamente recepite nel puro e semplice loro senso lette­rale, Anna improvvisò un minisaggio delle proprie capacità coreutiche. Levò e roteò pla­sticamente le braccine, mentre con l’intero corpicino simulava di librarsi in punta di pie­di, volteggiando da un capo all’altro della stanza, totalmente rapita dalla propria stessa performance.
Francesco, prontamente imbracciata la chitarra, le suonava intanto una dolce melodia dal sapore vagamente orientale.

Da “Piccolo guerriero”:
Ad esser sinceri, però, fu un altro lo scrupolo che soprattutto lo allarmò: essere equivo­cato, come facilmente accade in tempi forsennati e maldicenti, per quel certo genere di adulti “predatori”, soltanto perché folgorato da innocente pena nei riguardi di un esseri­no tanto indifeso.
Giorni odiosi e farabutti, i nostri: per far “bene”, si lascia morire…

Da “Qualcosa nel grano”:
Alessandro guardò meglio.
Nel folto delle spighe che via via andavano aprendosi, intravide come un indefinibile corpo che vigorosamente sussultava, rimbalzava e sempre più si avvicinava a lui.
L’ansia crebbe.
Il cuore picchiava più forte.

Da “Au feu rouge”:
Un impalpabile, misterioso incanto, planando sul nostro da chissà quale altro universo, s’era gentilmente posato su una limpida, imperturbabile processione di “santi”.

Da “Birdman”:
Quando Teofilo era ancora piccolino, comunque fino a che non ebbe 11 anni (età in cui iniziò a suonare con qualche gruppetto locale) o forse 10 (ancora credeva in Dio: se ne allontanò a 12 - e fu per sempre -, quando su una sconsolata ma asciutta paginetta di dia­rio annotò una teoria quanto meno deista…), s’andava tutti, il giorno di San Francesco di Paola - o forse era Pasquetta… - fino alla cima dell’omonimo colle ovvero lungo i suoi dolcissimi pendii.
A “scampagnare”, con parenti ed amici.
Ci s’andava a piedi.

Da “Volterra”:
Giulio pregò che la teutonica vettura non li mollasse proprio allora.
In una manciata di secondi doppiarono anche il terrificante Pit, che in quel nuovo e con­citato frangente gli parve assai meno scultoreo di prima, per non dire schifosamente strampalato nel suo scomposto dimenarsi latrando, al modo di un’oscena fiera dantesca.
L’avevano scampata bella.

Da “Izlet”:
Mentre, flottando ad ampie e calme bracciate, s’andava approssimando all’imbarcazione, che ormeggiata sul versante occulto dell’isolotto s’apprestava a dar motore, avvertì cor­renti fredde lambirgli il dorso, quindi fluire di lato.
Ombre più scure lo scortavano, ma non reagì, non si scompose, né ebbe paura, come avesse rassegnato la propria sopravvivenza ad un superiore Destino, qualunque sentenza vi fosse già scritta.
E non pensò a nulla.
Limpido e vuoto glissò fino alla meta.

Da “Izlet”:
Quattro bimbi dai cinque ai dodici anni, rincorrendosi festosamente, giocavano ludi mo­derni in quello stesso cortile che, cinquant’anni prima, li aveva visti volteggiare come rondini - lui, suo fratello, i cuginetti -, rallegrando quell’angolo di mondo con fanciulle­sche risa.
Li sentì intercettare e quasi attraversare gli ectoplasmi ancora palpitanti di un remoto, epico passaggio. E intuì, in un suadente “sentimento del contrario”, che ogni cosa è vana, quantunque bella, e illusorio è destinato a svelarsi ogni umano affanno.
Più non ebbe nostalgie.
Non quelle di un tempo.
Scordò quante cose avesse e a che diavolo mai potessero servirgli.
Dimenticò il proprio nome…

Da “La Grande Opera”:
Lassù, non un segno del Complotto.
Quelle meraviglie non erano, e mai avrebbero potuto essere, “opera” umana.
Nessun celebrato inventore o “architettore” s’era a quelle altezze grandiosamente dato da fare ad esaltazione di papi, imperatori, principi, re, notabili o grandi burattinai.
Più di qualche toccante segno, ancor visibile, a cui tributare devotissima pietà, l’avevano invece lasciato quanti lungo quella via crucis di pietra avevano pianto sangue e lacrime di ghiaccio, giorno e notte, arsi dal sole rovente delle indifese estati o assiderati dal gelo dei più crudi inverni, combattendo guerre di cui, salvo il dolore, tutto gli era stato negato: la causa prima quanto quella finale.
Un oscuro gioco, un disegno perverso, terreno e cosmico insieme, li aveva tutti spediti al massacro.

Da “Ultimo giorno di scuola”:
Disparvero quasi tutti in due o tre minuti.
Non i ragazzini di III A.
Quasi un indomabile sortilegio li trattenesse irresistibilmente avvinti a quel mitico punto dell’universo, più che mai indugiarono là fuori, poco oltre il cancello.
Le bici - quelle sì! - protese verso il grande mare aperto delle infinite possibilità, prue di giovani navigli pronti a salpare, ma nessuna di esse osò sciogliersi dall’amabile intrico.
Si ritrovarono così, per una decina di minuti, immobili, a parlottare, o anche soltanto zit­ti, semplicemente a guardarsi, a studiarsi reciprocamente, benché ansiosi del futuro.
Un entusiastico desiderio di andare, per finalmente assaporare iniziali simulacri di adulta indipendenza, fors’anche di sfrenata emancipazione, una nascente idea di libertà indiscu­tibilmente li tendeva in avanti, con curiosità, con eccitazione.
Ma un istinto indefinibile tenacemente li frenava, arpionandoli a quel luogo, facendoli sentire - per qualche residuo istante, forse, prima di glissare per sempre - ancora attesi, si­curi, protetti, amati …
Fu il loro più tenero “grazie”… quel restare… senza voltarsi indietro.

Da “Oltre un parabrezza”:
Ancor più grottesca, però, una certa meschina pagliacciata che spesso lo vedeva spettato­re.
Sempre dentro un’auto, davanti o dietro la sua.
Mamme fin troppo sbraccianti, briose o sorridenti mollavano continuamente il volante, per elargire ai propri “gioielli” miriadi di stucchevoli carezze o buffetti.
Le “amate perle” neppure s’accorgevano di loro, mille anni luce remote da lì, irrimedia­bilmente perdute in una dimensione spazio-temporale irreversibilmente separata.
Aliena.


mercoledì 25 settembre 2013

Roberto Battestini: grande intervista su A sua immagine in edicola con primo fascicolo di Francesco

Nel settimanale A sua immagine, n. 38 settembre 2013 Lorenza Rossi intervista Roberto Battestini: “Con i fumetti dà voce al Vangelo. La sua matita è testimone preziosa della gioia della fede”. Il numero contiene anche il primo fascicolo staccabile di Francesco. L'amico di Dio. Qui sotto una pagina dell'intervista. Breve nota biografica qui




martedì 24 settembre 2013

Patrizia Rigoni vince il concorso Farexcelsior 2013!


Fara Editore e i giurati della sez. Romanzo breve  
Lorenzo Gobbi, Silvia Sanchini e Stefano Marello


sono lieti di comunicare che


Primo classificato e unico vincitore

del concorso Faraexcelsior 2013 è


Patrizia Rigoni (Trieste) 


Patrizia Rigoni è nata a Monza e vive a Trieste. Di formazione sociologa, pubblica da vent’anni romanzi di narrativa - propri - e libri di scritture collettive. Come scrittrice si chiede ogni giorno dove è il linguaggio. Come donna si chiede ogni giorno dove è il mondo. O forse è il contrario. Diritto alla felicità, libertà degli uomini e delle donne, cura dei luoghi, processi innovativi e trasformazioni sociali: nei gesti che uniscono linguaggio e mondo si riconosce. Per questo da dieci anni si occupa di formazione, di progetti culturali e di idee che favoriscono il dialogo. Verso una parola nuovamente incarnata alle esperienze e alle cose. Fra le ultime pubblicazioni ricordiamo:
2013 La Rosa che c’è, curatela, Uet, Trieste
2011 Date, poesie, Primo Premio Morante Roma 2011
2010 Andature, poesie, Campanotto Editore, II classificato al premio Pubblica con noi e inserito in 3 x 2, Fara 2006, finalista Premio Morante Roma inediti 2010
2009 Avrò i tuoi occhi, romanzo, Fara, III premio inediti Città Cava de Tirreni, segnalato in diversi concorsi
2008 Distanze astrali, raccolta poetica, Primo premio internazionale Fiur’lini, Aja
2007 Come tenere l’acqua nella mano, romanzo, Moby Dick Faenza



A Giuseppe, che sorride,
e a mia madre che lo guarda tutte le mattine

All’Uomo nuovo


Homo ereticus

Dopo secoli di storia a quattro zampe l’Uomo si alza in piedi.
In questa nuova posizione guadagna le mani.
Le mani come registrazione del mondo.

***

Senza le mani libere non si conosce la morte.
Homo erecticus può seppellire i suoi morti.
Homo erecticus prega.
Con la bocca rivolta non più a terra Homo erecticus canta.
Canta prima di parlare. Urla. Chiama.
Mani e bocca vanno insieme.
Umano e mani vanno insieme.

(…)


Mani e scrittura sono legati come la bocca al fiato

Due mani che brindano.
Mani dei bambini che rincorrono altre mani.
Mani sui libri, sempre, quando scavano gallerie dei perché tra le righe.
Mani intrecciate degli amanti.
Le mani degli artisti, che non possono stare in tasca.
Mani che raccolgono al volo ciò che non si vede, ciò che ancora non è.
Mani che uniscono all’origine del mondo, ai tempi della Galilea.
Una mano sulla faccia, per non perdere il proprio volto nel mondo.
Mani che carezzano la pelle di un corpo.
Mani che vanno. Mani che restano.
Mani indispensabili, disperatamente vive.
Le mani di tutti, per non volare via.
Sempre la prima mano, quando chiede.
La mano che ancora non abbiamo trovato. 


***

Ho avuto una mano deturpata come lei; ho provato un dito mozzato, come lo zio; ho avuto la mano che si vergognava di quello che aveva fatto, come la donna distesa lasciva davanti alla capanna sotto il mango; ho avuto quella mano d’elettricista, fine fine e trasparente, capace di bucare i muri fino alle finestre; ho avuto la mano ferrosa di chi sta per agganciare il corpo sopra il vuoto; ho incarnato le mani dell’infermiera dopo il cambio di turno, ho affrontato il sangue mentre lo stomaco mi si girava; ho curato un dito tranciato di chi aveva potato con la sega una collina intera di infestanti nel Monferrato, e ora rischiava di morire dissanguato per l’imperfezione di un coltellino; ho detestato mani scivolose come bisce, ho malsopportato mani che ti stringono come clave; ho grattato la terra smossa di una tomba per sistemarmici dentro, nell’ora del rientro dei passeri; ho impresso sulla mano uno schiaffo che mai avrei voluto dare; ho chiamato il desiderio di averne quattro di mani e forse anche quaranta, come una divinità tibetana, perché nulla, proprio nulla, mi potesse fuggire via.
Ho colto pezzi di tempo che sono divenuti eternità, sulle palme delle mani.
Ho appreso che nel limite delle mani c’è porzione di infinito, e questo è tutto quello che ci tocca.
Una porzione di infinito che ci tocca.

(…)


Giudizi

È un racconto lieve, che inizi con scetticismo e finisci di leggere con la faccia incollata al foglio, con le mani che cercano di catturare l’intensità di alcuni passi o gli odori di alcuni luoghi. È un racconto semplice, che sfugge agli stereotipi del racconto familiare. È un racconto che suscita invidia, perché la mano che lo ha scritto ha avuto il tempo e la voglia di ricordare. (Stefano Martello)

Un racconto vario, ben strutturato, originale, di qualcuno che ha davvero qualcosa da raccontare. Lo stile è incisivo, meditativo, adatto alle intenzioni che si colgono dietro le righe. La profondità della riflessione è notevole, e anche la capacità di osservazione. È un narrare cólto, attento, essenziale. Si torna indietro, si rilegge, ci si ripensa dopo la lettura. È un testo ricco di sostanza. (Lorenzo Gobbi)

Forse l’opera più matura e raffinata tra quelle in concorso, ricca di suggestioni e immagini dal potere fortemente evocativo, un linguaggio che denota grande padronanza e sensibilità. (Silvia Sanchini)


Opere segnalate
 Massimiliano Barattucci (Spoltore, PE)
con LASSURDO




Massimiliano Barattucci (Pescara, 1975) ha studiato Psicologia a Roma ed oggi vive e lavora nei dintorni di Pescara. È psicologo, psicoterapeuta, dottore in ricerca ed attivo come libero professionista. La sua passione per la scrittura comprende il giornalismo, la comunicazione istituzionale, la poesia, la narrativa, la radio, il teatro, la musica, la ricerca. È autore di racconti, romanzi brevi, poesie, tutti mai editi. Lo spettacolo teatrale tratto dal testo scritto a 4 mani Tipiche vite atipiche ha raggiunto le semifinali del premio Scenario-Ustica. Da grande vorrebbe fare lo scrittore.

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La guerra, il denaro, gli Stati Uniti d’America, Israele, i politici, il lavoro, i terroristi, l’inquinamento, la polizia, gli zingari, la Palestina, i dittatori, le industrie petrolifere, il narcotraffico, le droghe, la mafia, la Cina, le multinazionali, la morte, lo sfruttamento sul lavoro, la violenza sessuale, la tortura, i pedofili, la schiavitù, la prostituzione, il comunismo, la Russia, le Tasse, il Papa, il freddo, il caldo, il traffico, Bush, i negri, la scuola, i dipendenti statali, i ladri, i furbi, i disonesti, le allergie, le malattie, i preservativi, le donne anorgasmiche, le donne frigide, gli uomini impotenti, gli eiaculatori precoci, i cantanti pop, le interviste telefoniche, fare i piatti, stirare, pulire, la pornografia, i terremoti, le calamità naturali, l’economia, l'ansia, la depressione, le donne, gli uomini, la televisione, i computer, le religioni, i reality show, Windows, Bill Gates, Microsoft, la pubblicità, le persone grasse, i brufoli, le automobili, gli arbitri, la Coca-cola, le case farmaceutiche, la ressa ai centri commerciali, la fila, i centri commerciali, il curriculum, i ritardatari, il diritto d’autore, il lunedì, la domenica, il natale, il capodanno, Harry Potter, gli ogm, i dati di share e di gradimento, le famiglie campione, il telefono, la puzza di candeggina, l’aglio, gli ebrei, l’inverno, la noia, i parchi gioco, i topi, i ragni, i serpenti, gli scarafaggi, le piattole, i pidocchi, i piccioni, la cacca degli uccelli, la cacca dei cani, i nullafacenti, i barboni, l’esercito, le mestruazioni, i film dell’orrore, i film francesi, i film di fantascienza, i fumatori, il formaggio, i commercialisti, gli evasori, i bestemmiatori, i consulenti immobiliari, i consulenti finanziari, i traditori, le banche, il divieto di sosta, le leggi, i blog, i vecchi, le sigarette, gli assassini, gli  aerei, i bambini, i vicini di casa, il Mac Donald’s, la Nestlè, l'aria condizionata, i peli, la puzza, la cipolla, l'università, il dolore, i telefoni cellulari, i ripetitori, l'inquinamento elettromagnetico, la borsa, i manicomi, gli ospedali, i libri, le autostrade, i sindacati, i cartelloni pubblicitari, Halloween, la spazzatura, le galere, le bibite gasate, le automobili, il cemento, il mal di testa, il mal di denti, la fame, la sete, l'astinenza sessuale, i sacerdoti, i ricchi, Hitler, la fatica, le case di riposo, la miopia, i bambini che piangono, il cavolfiore, la diarrea, la febbre, la moda, i giornalisti, gli strizzacervelli, San Valentino, studiare, la disoccupazione, truccarsi, depilarsi, le mèches, lavarsi, i puzzle, il buio, la gravidanza, i test, leggere. 

II

Esistono i romanzi dell'assurdo, il teatro dell'assurdo, programmi tv assurdi e, per assurdo, anche l'assurdo dell'assurdo. Ma nessuno al mondo conosceva, almeno sino ad oggi, un racconto del Lassurdo. Nemmeno lui – Lassurdo- lo conosceva questo racconto, per quanto assurdo possa essere. E, in effetti, non era nemmeno tanto assurdo questo Lassurdo. E nemmeno la sua storia, forse, lo era.
Lassurdo era più che altro il mondo in cui viveva, un ambiente a breve termine, con pensieri a breve terminie, persone a breve termine e identità a breve termine.
Lassurdo era un uomo di mezza età con tanti, tantissimi soldi. Aveva supergiù 50 anni, o giù di lì, ed era imprenditore, imprenditore di se stesso, ma talmente imprenditore di se stesso che si trattava come un dipendente, non si pagava gli straordinari e si rimproverava continuamente. Periodicamente si licenziava per mettersi in cassa integrazione, ma sempre per giusta causa. Qualche lettera di contestazione, un po' di mobbing qua e là, insomma Lassurdo si teneva sempre col fiato sul collo.
Era un tipo serio, Lassurdo. Un tipo serissimo, anzi. Aveva avuto tutto il meglio dalla vita: omogeneizzati, cibi precotti di altà qualità, lampade abbronzanti ad alta pressione, depilazione definitiva, integratori alimentari, raccomandazioni, capsule profumate per la Jacuzzi, un sito web personale e ovviamente, belle automobili. Qualche volta, nella sua breve vita, era addirittura stato felice, Lassurdo, ma per una sorta di profondo rispetto verso i suoi contemporanei, non l'aveva mai fatto vedere apertamente.
Essere felici è, indubbiamente, dannatamente triste, oggi.  
Aveva studiato marketing all'Anormale di Pisa, Lassurdo, poi un master in controllo digestione alla Sorbona di Parigi ed, infine, una specializzazione in opinionismo elettronico conseguita in un'università americana d'élite che non può essere citata senza pagare i diritti, poiché possiede un marchio registrato. Lassurdo non era mai stato pago della sua formazione. Per aumentare la propria occupabilità aveva conseguito 28 corsi di formazione professionale, dal saldatore all'elettricista, dall'aiuto-cuoco al pizzaiolo, ma anche badante, educatore, consulente finanziario, assistente alla poltrona, mulettista, operatore di telemarketing, dog-sitter, cassiere, vetrinista, barman acrobatico, croupier, consulente matrimoniale, manutentore di macchine per giostre, animatore turistico, disegnatore autocad 2d e 3d, e tanti altri, oltre alle patenti di guida a, b, c, d, e, f, k, patente nautica, brevetto da sub fino a 30 metri, attestati di bunjee jumping, kyte surf, paracadutismo, estetista, tatuatore, corsi per la realizzazione di candele, origami e ricami, reyki, riflessologia, auto presentazione e public speaking, assaggiatore di olii e addestratore di calamari da combattimento. Aveva viaggiato in lungo e in largo per il mondo, aveva lavorato sodo, fritto, alla coque, aveva rinnovato centinaia di volte il suo guardaroba e la sua pettinatura; aveva avuto, insomma, una vita normale, quasi noiosa, quasi eccitante per quanto noiosa. Lassurdo.   

(…)


 Giudizi

Dissacrante, a tratti disturbante, sempre politicamente scorretto; un racconto che – prendendo in prestito un fenomeno di attualità e di costume digitale (sempre più friabile, maledizione) – ti arriva in pancia e agli occhi (costretti ad un continuo avanti e indietro alla ricerca di approdi e nessi di casualità, e ancora non sono troppo sicuro di aver compreso), con una scrittura solo apparentemente caotica e anarchica, in realtà sicura delle proprie possibilità. (
Stefano Martello)

Premio questo racconto per l’originalità della scrittura, l’ironia, la scelta di raccontare situazioni solo all’apparenza surreali ma che invece richiamano e colpiscono a fondo vizi e problemi della nostra società e del mondo così come oggi ci appare. (
Silvia Sanchini 



Elena Varriale (Napoli)
con SE SEI NATO CAOS NON PUOI DIVENTARE ARMONIA 
Elena Varriale è nata a Napoli, terra di mare e fuoco e nell’aria che respira ci sono oracoli di Sibilla e canti di Sirene. Sarà forse per questo, o per altri motivi a lei ancora sconosciuti, che si ritrova spesso alla deriva del sentire, nello spazio nebuloso della creazione. Naviga molto alla ricerca della parola e del verso giusti, ma solo quando raggiunge il suo “porto”… comincia a scrivere. Di viaggio in viaggio, ha scritto e pubblicato articoli, saggi e due raccolte di poesie (Lo so che sbaglio, Tracce 2007 e Solubile Scompiglio, Tindari Edizioni 2012). Suoi scritti (poesie e racconti) sono stati selezionati e pubblicati in antologie e riviste (Aletti, Giulio Perrone Editore, Lietocolle, Fara Editore, Limina Mentis) e nel blog di Poesia Rai News curato da Luigia Sorrentino. 



L’ordine è il piacere della ragione;
ma il disordine è la delizia dell’immaginazione.
(Paul Claudel)

PROLOGO


Delicate pennellate rosso tiziano degradavano fino a perdersi nel blu elettrico di un suggestivo tramonto estivo che avvolgeva e confondeva Valter ed Iside nel loro primo giorno di vacanza. Nell’aria, i profumi si rincorrevano formando ghirlande colorate. Li agitava un fresco grecale che sembrava carezzare con morbide dita, la pineta a ridosso della spiaggia. C’era il brio dei gelsomini nelle mani del vento e l’incanto nei loro occhi.
- Magia! - disse eccitata Iside.
- No, armonia, è solo armonia! – ribatté serio Valter. Poi la fissò e vide in lei, ancora una volta, quello che aveva sempre visto: il caos, l’origine del fuoco e della passione, la nuda essenza dei sensi in un corpo flessuoso ed invitante. Tutto ciò che un uomo può desiderare o rifuggire. Un’ animale indomato ed indomabile, nella vita e nel letto. Una Dea che ha rinunciato all’immortalità, in cambio di una sola vita, ma straordinariamente speciale.
Questo era Iside per lui: il volto nascosto della poesia quando si fa incanto, le labbra di un’alba che invita e promette, il delirio della carne che sposa e ingravida l’oltre.
Valter era stregato da lei, ma il troppo come il poco, spesso stanca. Perché con Iside il silenzio era sempre pieno e la notte riflesso argentato di luna. Con lei i colori avevano mille sfumature e tinte sempre nuove. Gli attimi fermavano gli orologi, mentre lo spazio s’incurvava ed illuminava al suo passaggio. In fondo, Valter era solo stanco di venerarla.
Quasi avesse colto i pensieri del suo uomo e li volesse ricacciare lontano, Iside gli sussurrò con malizia felina: - Baciami!
Le labbra di Iside. - Fuoco che infiamma - pensò Valter e per non cadere nella tentazione e perdersi, balbettò: - Scusami, ma credo che andrò a dormire! 



1 CAPITOLO

Dopo una notte che allontana, segue sempre inesorabile, un giorno che divide. Si era svegliato presto Valter e da solo stava raggiungendo il mare per respirare la salsedine ancora inumidita dalla brina.
Con il suo telo sulla spalla camminava lentamente verso la spiaggia. Un sentiero di campagna lo divideva dal mare. Accompagnato da un concerto di cicale, il mare gli apparve all’improvviso, azzurro ed imponente, dietro una collinetta di sabbia ricoperta solo da una vegetazione salina, aspra e pungente come la salsedine.
Un filo azzurro steso e sospeso nell’infinito. Così gli apparve, per un attimo, il mare, poi lo sguardo raggiunse gli abissi oscuri e la spuma ondeggiante sulla sabbia. Contenerlo tutto era impossibile. Come Ulisse, anche Valter era ossessionato dall’ infinito limite blu. Orizzonte di libertà e di avventura, di passioni e di dolori. Confine e limite delle domande e dei dubbi.
Sulla tela azzurra ed ondeggiante, Valter vide scorrere il racconto freddo dei suoi inverni. Il grigio plumbeo dei cieli e delle strade, la folla, le manie e la noia. I silenzi e la fretta. Il buio e l’insonnia. Un gomitolo di depressioni ed incomprensioni.
La trama della sua vita era questa: inverni senza storia ed estati traboccanti di passioni. Valter si sentiva veramente vivo, solo d’estate. Fuoco, acqua, vento e terra: gli elementi fondamentali del racconto della sua vita, l’unica cosa per la quale valesse la pena vivere. Respirò intensamente il profumo dei gelsomini e l’orizzonte che si adagiava flessuoso nel mare e nell’aria sentì odore di presagi. Qualcosa gli diceva che stavolta, il canto delle Sirene lo avrebbe raggiunto e catturato.
Aspettava solo un segno, un cenno per aprire le porte dei suoi sensi e sprofondare nel caos dei desideri. Voleva vivere una passione con il fuoco nel cuore ed il miele sulle labbra. Voleva sentire i muscoli tesi e i pensieri rincorrere sfiniti, solo istinto e carne.
Ancora stordito dai pensieri, si voltò e alla sua destra gli apparvero, all’improvviso, due gambe scure adagiate sui piccoli ed infuocati, piccoli ciottoli che ricoprivano la spiaggia. Fu travolto da un vortice di pelle, muscoli, arterie ed istinto. Valerio si sentì leggero e gli sembrò di volteggiare nell’aria, senza scopo e senza mèta, finalmente libero di vivere o dormire, mangiare o nuotare, desiderare e perché no, possedere, quelle lunghe e flessuose gambe baciate dal sole.
Stava succedendo tutto in una delle terre più luminose che avesse conosciuto, abbagliante ed irraggiungibile: a mezzogiorno come alle otto di sera. Una terra da respirare solo di notte, cullati dalla brezza del mare e dalla voglia di raccontarsi. L’Ellade, la Grecia. L’origine.
Rimase un attimo fermo a fissare le gambe nude, nascondendo il suo sguardo ladro, nascosto dietro gli occhiali da sole che gli aveva regalato Iside. Già, Iside, la donna che aveva conquistato il suo cuore: “besame mucho” cantava Cesaria Evora mentre rubava, la prima volta, intimità con lei.
La donna per cui era disposto a fare “todo”, a concedere e a condividere prima la vita e poi anche la morte, al di là del giorno e della notte, della follia e della razionalità. Del pensiero e della carne, del bene e del male. Amava così, la sua donna. L’amava, sì l’amava e allora perché desiderava quelle gambe? Perché sentiva fremere le labbra al solo pensiero di carezzarle e possederle? Perché non poteva fermarsi? Perché?
- Se sei nato caos non puoi diventare armonia! – si disse sorridendo e stese l’asciugamano proprio davanti all’oggetto scuro del suo desiderio. Rimase fermo, sdraiato con le mani dietro la nuca e lo sguardo perso nell’orizzonte. Rilassato e sempre più appagato lasciò che il desiderio facesse tutto il resto.
Senza opporre resistenze, lasciò scivolare le sue mani dalla nuca all’ asciugamano. Poi stese con tutta la forza che gli era rimasta, la testa all’indietro. Nei suoi occhi, le pupille baciarono le palpebre cercando di afferrare la visione di quelle gambe disponibili.
La prima immagine che colpì la sua retina dilatata e sofferente fu la sagoma slanciata ed abbronzata del perone. Con lo sguardo carezzò il ginocchio piccolo e tondo, poi raggiunse rapidamente la morbida flessuosità concava della caviglia, così esile da stare tutta intera, in una stretta cavigliera a forma di catena. Probabile pegno d’amore di un amante o più semplicemente, vezzo di femminilità.
Non seppe resistere. Stese la testa ancora più indietro: sentì netto il dolore della nuca compressa dal peso del corpo. Per un attimo credette di spezzarsi in due, la testa da una parte ed il corpo dall’altra, ma poi tutto fu più facile, il dolore, le sensazioni, la fatica: tutto sparito, dissolto dinanzi alla vista ingorda delle cosce nude.
Erano morbide e sode come gomma, abbronzate e muscolose. Gambe agili ma ben tornite, veloci e flessuose come il vento.
- Cosce di gazzella! – pensò eccitato. Poi, sfinito, si lasciò andare sull’asciugamano e chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, una dose eccessiva di luce gli ferì le pupille. Per un attimo fu cieco e sordo. Inconsapevole e felice. Libero e schiavo di un’ innocente trasgressione.
Un brivido gli squarciò la pelle. Avrebbe voluto urlare, volare, sfiorare il cielo e tornare. Raccontare e tacere. Provare e dimenticare. Invece, decise di tuffarsi. Si liberò degli occhiali e si lanciò verso l’acqua. Il corpo caldo sfiorò la morbida e fresca carezza delle correnti mediterranee: il moto ondoso che turba e rasserena, agita e consola, apre e racchiude. Forse, creato apposta per assecondare il desiderio di lasciarsi andare, trasportati solo dal tiepido flusso.
Le sue braccia oltrepassarono l’acqua, si immersero e risalirono senza fretta e senza peso, assecondando correnti e liberi pensieri.
Ma fu il tocco delicato delle labbra di Iside a risvegliarlo dal suo torpore metafisico. Era stato sempre così, fin dall’inizio. Lei sapeva risvegliare passioni ed emozioni che i pensieri non avevano ancora assaporato. Imprevedibile e creativa in ogni suo gesto o parola.
Come la prima volta che si erano incontrati. Le erano bastate poche parole per stabilire un contatto con lui e sul suo profilo aveva subito preso corpo, la luce di quello sguardo languido e mesto che illumina le donne quando hanno deciso di dividere intimità con un uomo.
Con quello sguardo gli aveva sussurrato, mordendosi un labbro: - Non so perché, ma ti voglio bene!
- Quanto?
- Ho detto solo che ti voglio bene!
- Peccato! – aveva sussurrato lui prima di baciarla e zittirla per sempre.
Si erano baciati con le labbra, la lingua, i denti, la saliva e lo sguardo. Un bacio intenso, appagante. Senza tempo e senza spazi. Solo intermittenza dei corpi. Pura energia. Brivido. Da allora, il calore era entrato nei loro corpi e non aveva più smesso di ardere.
Si voltò verso Iside e la baciò riconoscente. Lasciò cadere sulla spiaggia il suo sogno di gambe e si strinse al corpo della donna che amava. 

(…)

Giudizio
Una cornice da favola che si riesce pienamente a gustare in queste righe: un’isola della Grecia, il mare, i colori e i profumi dell’Estate. E, su questo sfondo, la storia di un uomo e una donna che avvince perché va a scandagliare i sentimenti umani, la paura di amare e di piegarsi alla routine e all’abitudine che si trasforma nel coraggio che si scopre quando si smette di pensare a se stessi e ci si prende cura degli altri. Un racconto ben scritto, dal ritmo vivace, ideale da leggere nei mesi estivi, un messaggio di speranza per tutte le donne vittime di violenza e soprusi nel mondo. (Silvia Sanchini)


Manlio Ranieri (Bari)
con  DIARIO 2.3
(Esperimento letterario inconsapevole di Amelia, ventitreenne in bilico)


Manlio Ranieri è nato a Bari, città dove vive e lavora nel campo delle fonti rinnovabili e del risparmio energetico. Ha pubblicato una raccolta di racconti ("Di notte", ed. Palomar) e due romanzi (Correre per rimanere immobili e Fra santi e falsi dei, ed. Akkuaria). Scrive per passione da circa 15 anni, durante i quali ha collezionato anche partecipazioni ad antologie e riviste letterarie e qualche premio nazionale. Ama suonare e ascoltare musica e scattare fotografie. Si definisce uno “scrittore rock”.


CONFUSIONI


C’è un quaderno di appunti fotocopiati, davanti ai miei occhi, immobile e muto. Dovrebbe parlarmi, in un mondo che gira nel verso giusto, darmi i suggerimenti necessari a superare l’esame.

Il beep del telefonino mi distrae, intercetta i miei pensieri che vagano confusi, li allontana ancora di più da quel ripiano di truciolato rivestito in finto ciliegio.

Il telefonino.

Eh.

Non uno smartphone di quelli con cui si va su Facebook, no.

E non perché non me lo possa permettere, semplicemente perché non saprei che farmene.

Mi distraggo – si fa per dire – dallo studio per dare una rapida lettura al messaggio appena arrivato. È di Antonio.

Antonio è il mio ragazzo, tanto per intenderci.

“A che ora finisci?”

Amore, ciao e baci sono termini che non fanno parte del suo vocabolario.

Ma lui è così, io lo so e ho scelto due volte di accettarlo senza riserve: quando ho ceduto alla sua corte – ancora sedicenne e del tutto inesperta – e quando ho deciso di perdonarlo per aver fatto il gallo con quell’oca di Marcella. E allora non avevo più scusanti: ventidue anni, una buona dose di esperienza in più e persino qualche pillola di saggezza, mandata giù con l’aiuto di un succo dal sapore acre di ravanello e pompelmo.

Ma forse in quel momento ho pensato che la mia vita fosse già troppo incasinata per perdere l’unico appiglio che era mi rimasto.

Antonio ha una bellissima famiglia, che adoro con tutti i suoi difetti veniali: un padre frizzante e spesso sui generis, una madre premurosa ed equilibrata, una nonna esilarante nella sua arteriosclerosi e, soprattutto, una sorella – Rosa – che giorno dopo giorno è diventata anche mia inseparabile amica, nonostante abbia sei anni più di me.

Una specie di famiglia Simpson dai tratti meno calcati.

“Sarà che ti sono troppo grata per riuscire a sopportare quel matto di mio fratello – mi ha detto una volta, semiseria – e a limitare la sua stupidaggine.”

Forse ciò che cerco in Antonio è proprio il calore di chi gli sta intorno, che lui sembra incapace di apprezzare.

La sua parentela da cartone animato.

Una rassicurante normalità fatta di pranzi e cene tutti attorno al tavolo, con la televisione che inquadra il mezzobusto dell’anchorman del telegiornale, contro cui scagliare imprecazioni e bestemmie da recapitare al politico di turno. Di piccoli litigi, di paghe settimanali non date per punizione o di serbatoi delle macchine sempre pieni perché nessuno rischi mai di restare a terra.

Quando ho scoperto che Antonio si comportava in modo un po’ troppo espansivo nei confronti di un’altra ragazza sono stati tutti dalla mia parte.

Lo sai, è fatto così, è immaturo, è stupido, non capisce il tesoro che ha per le mani.

Poi, però, hanno tentato velatamente di convincermi a perdonarlo: non volevano che lo lasciassi, che finissi fuori dall’orbita delle loro vite. Avrei dovuto essere lusingata: in fondo non aspettavo altro che avere la conferma di essere a tutti gli effetti una di loro. Eppure c’era una sensazione fastidiosa, una vocina che mi sussurrava con malizia che mi volevano con lui per un desiderio puramente egoistico: io sono più matura ed equilibrata di Antonio, lo sanno tutti, sono quella che lo fa rientrare nei ranghi, la persona che non apprezza le sue spavalderie da bulletto di paese e che, di conseguenza, gli tarpa la voglia di farle.

Ma allora perché sto con lui?

Me lo sono chiesto centinaia di volte, rispondendomi sempre allo stesso modo, e dimenticandomene puntualmente poco dopo: perché il suo modo di essere superficiale e divertente mi fa sentire meno noiosa, il solo fatto di essere la sua ragazza mi rende più leggera e frizzante di quanto io non sia realmente, e ne ho un gran bisogno.

Agli occhi degli altri ma, soprattutto, ai miei stessi.

L’eterno dilemma se cercare qualcuno che ti apprezzi per quello che sei o provare ad avvicinarti a ciò che gli altri vorrebbero tu fossi.
(…) 

 Giudizi

Adoro i diari, ne adoro il coraggio, la sfrontatezza, l’ingenuità, l’assolutismo. Sono gli strumenti migliori per verificare la precarietà della vita, le cadute di fede e le conquiste di consapevolezza. Nel giro di poche pagine accadono quei cambiamenti epocali che ti trasformeranno in un uomo o in una donna che non hanno né il tempo né la voglia di scrivere un diario. (Stefano Martello

Coerente nello stile, offre un quadro godibile della vita e delle emozioni di una generazione, che rappresenta bene, con efficacia e una certa ingenuità (che... calza a pennello!). Si legge con gusto e benevolenza, scorrevole e simpatico. (Lorenzo Gobbi )


Viviana De Cecco (Cagliari)
con La memoria del dolore


Viviana De Cecco, è nata e vive a Cagliari. Insegnante di lingue e letterature inglese/francese e traduttrice freelance, fin da bambina è un’appassionata lettrice. Dal 2008 si dedica alla scrittura, pubblicando la raccolta di racconti Il labirinto di pietra (La Riflessione); nel 2009 finalista al Premio “F. Alziator” con il romanzo Il giardino delle ombre cinesi; nel 2011 finalista al Premio “Eraldo-Miscia Città di Lanciano” con il racconto Il secondo viaggio e pubblicazione del racconto La città nascosta (La Biblioteca d’Oro, Unibook.com). Nel 2012 quarta classificata al Premio “L’indizio nascosto” con il romanzo giallo La figlia della notte e terza al Premio “Grand Hotel per la narrativa gialla” con il racconto Il cimitero delle bambole, pubblicato sulla rivista nel luglio 2012. 



Prologo                                                           



   Il giovane accarezzò la canna del fucile puntato verso il suo viso. Chiuse gli occhi. L’indice tremante premette il grilletto.

   Il rassicurante clic del colpo sparato a vuoto lo rassicurò. Tutto si sarebbe svolto in maniera rapida e precisa. Doveva affrettarsi. Recuperò il proiettile, che era caduto sul pavimento, e caricò l’arma. Si avvicinò alla finestra e scostò le tende.

   Una piccola ape, che si era posata tra le pieghe del tessuto, cominciò a ronzargli intorno, sbattendo contro il vetro chiuso della finestra. Sembrava che anche il piccolo animale volesse sfuggire alla sua ira.

   In quel momento, nel silenzio, si udì il rombo del motore di un’auto che stava percorrendo il viale della villa. Il giovane socchiuse le palpebre per mettere a fuoco l’immagine dell’auto nera che si era fermata davanti all’ingresso, come un grosso insetto dalla corazza lucente. Tracciò mentalmente la traiettoria del proiettile e aprì la finestra. Brandì il fucile con sicurezza e chiuse un occhio per prendere la mira.

  Il ricordo del male che ci è stato fatto non si allevierà con il tempo, ma rimarrà scolpito nella mente in tutta la sua potenza…

  Le parole che lei gli aveva detto, in quel tempo indistinto, riecheggiarono nella sua testa come l’eco di un tuono lontano.

  Lei non scendeva ancora. Che avesse cambiato idea?

  Eppure nel biglietto l’aveva implorata di tornare. Di concedergli un ultimo incontro.

  Lo sportello dell’auto si spalancò. Vide il suo volto semi-nascosto dal cappello a tesa larga. Ma lui sapeva che avrebbe sollevato lo sguardo verso la finestra. Non si sbagliò. La donna alzò il capo e si protesse gli occhi dal chiarore accecante del sole. 

  Prese la mira e iniziò a contare.

   Uno.

   La donna scorse la sagoma dietro la finestra aperta.

   Due.

   Lei sollevò il braccio e agitò la mano in segno di saluto.

   Tre.

                                      

1



   Il prete diede l’ultima benedizione alla bara e agitò l’aspersorio nell’aria afosa di agosto. Le persone riunite per il funerale formavano una macchia oscura sullo sfondo dell’intenso bagliore del pomeriggio assolato.

   Federico osservava con sguardo vitreo la bara che veniva calata nella fossa e scompariva lentamente alla vista. La sorella minore, che piangeva in maniera composta accanto allo zio Rodolfo, gli lanciò un’occhiata preoccupata.

    I becchini iniziarono a gettare la terra sopra la bara. I tonfi sordi che colpivano il pesante legno riecheggiarono nel silenzio come vibranti colpi di scure.

     Federico sussultò. Si fece largo tra la folla per allontanarsi, ma lo zio lo afferrò per un braccio.

   - Federico, dove credi di andare? – sussurrò scandalizzato lo zio.

   - Lasciami…

   - Siamo ad un funerale!

   - Lo so.

   - Di tuo padre! – esclamò lo zio, alzando la voce.

   - Lo so. Lasciami!

   Federico si divincolò e si allontanò a passo veloce. 

   Una figura vestita di scuro, che aveva osservato la scena in disparte, lo vide raggiungere il cancello del cimitero e decise che era il momento di agire.


(…)


Giudizio

Ben strutturato, coinvolgente, appassionante, scava bene nell'intimo attraverso una galleria di personaggi davvero ben gestiti nella difficile economia del romanzo breve. (Lorenzo Gobbi)