giovedì 27 giugno 2013

L’incontro tra Nicola Trombetta e il Gruppo Culturale “Francesco Guarini”


di Vincenzo D’Alessio (fondatore del G.C. “F. Guarini”)


Ogni anno, in Irpinia e in molte regioni italiane, gli emigrati che vivono sparsi in tutto il pianeta tornano nei luoghi di origine, specialmente in occasione della Festa Patronale: è un rito che coniuga la passione civile a quella religiosa. Il ritorno ai luoghi che custodiscono gli antenati, le radici degli affetti e la protezione della divinità per superare le insidie immancabili dell’esistenza.

Nicola Trombetta, figlio di Giovanni, il quale è scomparso negli Stati Uniti d’America il 21 maggio 2010, è tornato con la moglie nella città natale di Solofra, seguendo le orme paterne, proprio in occasione della festa patronale di San Michele Arcangelo: suo padre l’ha fatto per più di quarant’anni.

Il Gruppo Culturale “Francesco Guarini”, memore della figura paterna, ha voluto onorare Nicola donando una pergamena che lo inserisce tra coloro che si prodigano per tenere unite le sponde dei due mondi attraverso le tradizioni, la lingua italiana, la cultura delle due nazioni. Accanto alla pergamena una pubblicazione della Casa Editrice Fara di Rimini: Scelte vincenti (Fara Editore, 2013). Questa scelta trova una motivazione altra: ogni qualvolta si parla di emigrazione e immigrazione torna alla mente il volume di Zina Righi: Il coraggio dei sogni (Fara Editore, 2005): Bibbia del movimento migratorio da tutte le parti dell’Europa (e del mondo).

Nell’introduzione l’Autrice scrive: “I mattoni dell’emigrazione, invece, non li vuole nessuno; non servono a dare lustro, semmai, servono solo a procurarci un certo rossore che sa di vergogna” (pag.11). Partendo da questa riflessione possiamo affermare con profonda gioia che Nicola ha messo in bella mostra tutte le vicende dell’emigrato Giovanni Trombetta e della sua famiglia che oggi vive negli Stati Uniti d’America. Un poderoso volume di circa centocinquanta pagine, redatto in italiano e in inglese, dove sono riportati i fogli autografi scritti da Giovanni, le foto di famiglia, le testimonianze dei figli e dei nipoti. Una casa di mattoni realizzata dagli emigrati che testimoniano l’amore alla propria terra d’origine, i sogni realizzati, i dolori subiti.

Finalmente la memoria svolge il suo ruolo attivo e purifica anche il dolore della perdita; la quale trova la giusta collocazione nel tempo sospeso del “C’era una volta : nonno raccontami!”

La voce dei Padri e il dialetto lingua Madre: a Cesenatico 29 giugno “la Serenata delle zanzare”

Nell'ambito del ciclo “la Serenata delle zanzare”



sabato 29 giugno dalle ore 21.00
nel Giardino di Casa Moretti – Cesenatico

La voce dei Padri e il dialetto lingua Madre

Versi, musica, parole ed emozioni con

Annalisa TeodoraniLa léngua dla mi ma

Serse CardelliniIl mio Orfeo
 
Caterina CamporesiCi sono ancora “Padri”?

Laura CorraducciPadre: un lutto (in)compiuto nei versi

Alex CelliLe mie voci


interventi musicali di Fabrizio Flisi

segue dibattito aperto al pubblico


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Notizie

Annalisa Teodorani è la più giovane esponente della scuola poetica santarcangiolese (Tonino Guerra, Gianni Fucci, Raffaello Baldini, Nino Pedretti, per fare solo alcuni nomi) ha esordito giovanissima nel 1999, con Par senza gnént, Per nulla (introduz. di Gianni Fucci, nota di retrocopertina di Narda Fattori, Ed. Luisè, Rimini), seguito dalla raccolta La chèrta da zugh, La carta da gioco (prefaz. di Andrea Brigliadori, postfaz. di Narda Fattori, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2004) e da Sòta la guàza, Sotto la rugiada (presentazione di Manuel Cohen, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2010).


Caterina Camporesi è nata un po’ di anni fa in un delizioso paesino situato ai confini tra la Romagna e le Marche. Ha lavorato come psicologa con la pretesa di alleviare gli affanni che alloggiavano nella psiche dei suoi simili, alleviando contemporaneamente i suoi. Nel mezzo del cammino della vita ha incontrato la scrittura poetica che, affiancandola a quella saggistica, ha contribuito a nutrire la sua mente e la sua vita. Duende, Solchi e nodi, e Dove il vero si coagula, sono le ultime pubblicazioni. I suoi saggi, che amalgamano esperienze, conoscenze psicoanalitiche filosofiche e letterarie e altro ancora, si possono leggere sia in riviste cartacee, che in siti on-line. Ha tradotto dallo spagnolo due poeti boliviani.


Serse Cardellini è nato a Pesaro il 6 maggio 1976. Sposato, è da poco padre. Presidente dell’Associazione Culturale Thauma Edizioni di Pesaro, come poeta e filosofo lei si dichiara: colpevole. Chi sono? Vladimir Solov’ëv chiese alla Russia del suo tempo se fosse disposta a prendere una seria decisione: stare dalla parte di Serse o di Cristo. Io, come è vero che mi chiamo Serse, scelgo Cristo. Ma cosa significa questo nome? Dipende per chi. Seneca, ad esempio, non avrebbe dubbi al riguardo: «Serse! A Pizio, padre di cinque figli, che gli chiedeva l’esonero per uno, permise di scegliere quello che preferiva, poi fece squarciare in due parti l’eletto, ne pose i tronconi sui due lati della strada e, con quella vittima lustrale, purificò l’esercito. Ebbe il successo che meritava: sconfitto e messo in fuga in lungo e in largo, vedendo dovunque sparsi a terra i resti del suo crollo, dovette passare in mezzo ai cadaveri dei suoi». Invece, sfogliando il libro dei libri, leggo che la regina Ester si sposò con il re Assuero, salvando così il suo popolo dal massacro. Continuando a sfogliare altri libri imparo che Assuero è la traduzione latina del nome ebraico Kshajarsha (che significa “re”), in greco Xersès, ovvero Serse. Queste nozze regali mi risollevano il morale. Ma in tutto questo la verità è che non ho ancora risposto alla domanda iniziale: chi sono? Trovo nelle parole di Papini la miglior soluzione: «Tutta la mia vita è piantata su questa fede: ch’io sia un uomo di genio. Ma se invece mi sbagliassi, se fossi […] in una parola, un imbecille? […] Nulla di più, nulla di meglio!».


Laura Corraducci è nata a Pesaro nel 1974 dove risiede, è insegnante di inglese. Nel 2007 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie con Ed Del Leone dal titolo Lux Renova. Ha realizzato in collaborazione ad altre poetesse il reading poetico Bicchieri Di-Versi edizione 2011 e 2012. Nel 2012 vince per la sezione poesia la XVII edizione del concorso letterario La donna si racconta dedicato alla poesia e alla narrativa femminile. Nell’estate 2012 organizza con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della sua città la rassegna poetica “vaghe stelle dell’Orsa”. Recentemente suoi testi sono stati tradotti anche in lingua spagnola. 


Alex Celli è nato a Rimini il 06-03-1979. Dopo un’infanzia dalla salute compromessa e un percorso scolastico che l’ha portato a conseguire il diploma magistrale, ha abbandonato l’università per lavorare in uno studio commerciale. “Colpito” dalla grazia, si è iscritto all’Istituto superiore di scienze religiose “A. Marvelli” a Rimini laureandosi nel 2011 con una tesi sulla teodicea cristologica di Klaus Berger. Ora sta conseguendo la laura specialistica. Con Fara ha pubblicato nel 2002 Chicken Breast, nel 2005 gli esilaranti racconti inseriti in Antologia Pubblica, nel 2006 La Compagnia S.E., nel 2009 Il ritorno di Chicken Breast ultimo “capitolo” della trilogia di Chicken Breast.


Fabrizio Flisi ha studiato presso il civico Liceo musicale “G. Lettimi”di Rimini sotto la guida del maestro Idalgo Arcangeli e si è diplomato il 26/09/1997 presso il Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara. Ha frequentato il Biennio Sperimentale in Discipline Musicali (indirizzo pianoforte) presso l’Istituto Musicale Pareggiato “G. Lettimi” di Rimini laureandosi il 9 luglio 2008 con il massimo dei voti. Nel 2002 inizia lo studio della fisarmonica sotto la guida di Simone Zanchini e in seguito Gabriele Antonelli. Ha sviluppato notevoli competenze in musica leggera, musica popolare e, in parte, musica jazz grazie all’attività live, quasi ventennale,  con numerosi gruppi utilizzando pianoforte, tastiere elettroniche e fisarmonica. Nel 2008 frequenta, presso la scuola Musicale di Bertinoro (FC), lo “Stage Multistilistico per Sezione Ritmica” (pianoforte) tenuto dai maestri Moriconi, Nanni e Zadro ed il corso di “Musica Ebraica” (fisarmonica) tenuto dal maestro E. Fink nell’ambito dei “Corsi Estivi di Alto Perfezionamento”.

martedì 25 giugno 2013

La “piccola morte bianca”

di Enrico Gorini



marta corti: … associazione diabete merc pom 16-18 incontri di interesse: racconta le tue esperienze di ipo con rimbalzo
16/6/13 esperienza di grave ipo:
FAME DI ZUCCHERO - LA “PICCOLA MORTE BIANCA” del diabetico: un insulinodipendente racconta la “scimmia”

Ho cenato chiacchierando, quindi senza badare alla quantità di carboidrati effettivamente assunta. A fine pasto, ho presentato ai miei ospiti la mia granita di gelso, fatta con le more appena raccolte. Poiché era molto zuccherina, dopo rapida (troppo rapida) riflessione ho deciso di fare 4 unità anziché le 2-3 che faccio solitamente. Io sono molto sensibile all’insulina, pertanto ne devo usare un modico quantitativo.

Quasi due ore dopo cena, sto leggendo: inizio a notare strani segni di stanchezza, tanto che non ho neppure voglia di distogliermi dalla lettura per vedere se per caso ero in ipo. Non mi sembra urgente. Dopo poco però con fatica mi alzo, e allora noto le gambe rigide. Forse è perché oggi mi sono speso molto, fisicamente. Vado a misurarmi con un presentimento, e scopro di avere la glicemia a 55. Imprecando, inizio l’usata battaglia dello zucchero che dovrà salvarmi. Poiché l’altro giorno ho cambiato gli assetti di cucina, ora anche trovare lo zucchero non è un’operazione banale. Al primo cucchiaino, rimango brutalmente scornato perché ho portato in bocca un cucchiaino di sale. Devo sputacchiare, dominare la rabbia e trovare la polvere bianca, non è difficile, in casa ce n’è un po’ ovunque. Dopo un po’ di brancicamenti, lo trovo e non esito a ingurgitarne a cucchiaiate, due per iniziare. Intanto cerco di ragionare e capire se è sufficiente; per ora attendo, mi siedo sul divano per lasciare passare i 15 minuti di osservazione e decidere se assumere altro zucchero. È il tempo che ci vuole perché lo zucchero passi dallo stomaco al sangue, e dal sangue ai muscoli e al cervello. La paura però è che, nel frattempo, la glicemia scenda ancora di più, quindi si prolungherebbe la sofferenza da mancanza di zucchero, e la carenza potrebbe diventare pericolosa. In ogni caso il peggio deve venire.
Devo rilassare la mente in modo da azzerare il dispendio energetico? mi chiedo. Ma impormi un momentaneo stacco dalla realtà, non mi darà esso stesso un effetto ancora più acuto, tormentoso e disperante? Forse, se faccio finta di niente e mi dedico a piccoli gesti di quotidiana domesticità, magari il mio cervello si pacifica meglio. In ogni caso meglio non stendermi, la mia bassa pressione poi mi fa brutti scherzi… rimango seduto, ma con le gambe alzate e testa un po’ riversa all’indietro.
Ascolto il mio corpo: e aspetto. Sì, ma intanto mi rendo conto di come la mia mente si sforzi di capire come deve auto-gestirsi. Sono ancora lucido? Cosa è meglio che faccia? altro zucchero?
Al diavolo le prescrizioni standardizzate del diabetologico, qui la mia priorità è sfamare presto i miei tessuti. Sì, mi rendo conto che 55 non è un valore troppo basso, non è pericoloso… ma se davvero ho sbagliato i conti? Che cavolo ho mangiato esattamente? Ero in compagnia, ho chiacchierato fitto, non ho badato a quanti carboidrati ho mangiato… vediamo… un po’ di zuppa di legumi, un po’ di pane, un uovo, un po’ di salame… ho fatto 4 unità di insulina, troppe accidentaccio, dovevo capirlo! 

Mangio altro zucchero, poi 200 ml di succo di frutta, al diavolo i 15 minuti da manuale! Arrivo a calcolare, approssimativamente, l’equivalente di 9-10 zollette. Intanto mi è arrivata la sensazione di soffocamento, ho chiamato mia moglie che era già a letto e ora mi sta ventilando. Mi dispiace di allarmare i miei famigliari, ma cosa ci posso fare, accidentaccio, ora si tratta di risalire con gli zuccheri. Sono sicuramente nel momento peggiore, il cuore mi batte a mille, ripetendo freneticamente ti-odio-ti-odio- ti-odio- ti-odio- ti-odio- ti-odio. Sono tutto sudato. Il corpo è in fibrillazione, come scosso da un demone interno che urla e si agita dentro i tessuti.
Ecco la paura di morire. Al diavolo, non devo pensare a nulla, devo stare tranquillo. A questo punto non posso fare altro che aspettare che il mostro si stanchi di tormentarmi e se ne vada da solo. Per esperienza so che arriva un momento, un momento quasi preciso, nel quale dici a te stesso: “Ecco, se ne sta andando!”, e allora tu lo aspetti quel momento, anzi, diventi tu stesso un’attesa, come null’altro vi fosse nel mondo, come una partoriente che deve sgravarsi.

Talvolta però, benché raramente, il mostro ha fatto solo una finta, ed è ritornato, e allora ho avuto l’impulso di piangere dalla disperazione, ma mi sono dovuto trattenere perché ho capito che il mostro ci ha gusto e mi assalirebbe con più tormenti. Diabete, te lo devo dire dal profondo del cuore, in questi momenti - come non mai - con tutto il cuore io ti odio!

La guerra di questa notte è durata 20 minuti.

lunedì 24 giugno 2013

Il gioco, la maschera, il luogo dell’intermedio e Il bosco dei perché

di Apostolos Apostolou (Atene)

Se vogliamo ricercare un approccio poetico-filosofico, questo deve procedere entro una filosofia del gioco. IL gioco come maschera della filosofia di Nietzsche, come metafora/immagine – riferimento che costituisce una sfida – invito all’attivazione del soggetto a procedere con la rottura con l’identità e l’unità. Anche la maschera come passione assurda secondo Nietzsche e coesistenza di luoghi opposti della molteplicità e delle contraddizioni permette un avvicinamento pieno di tensioni delle sensazioni che capisce come il luogo dell’intermedio (per la prima volta incontriamo il termine nel Platone con la parola metaxy).

Il concetto dell’intermedio è forse la causa del pericolo, la causa della maschera, del gioco, del luogo intermedio, ossia della cultura, della poesia. E questo perché, per un poeta autentico la metafora è un immagine, un concetto e quello che vede il poeta è uno spettacolo che costituisce una rappresentazione teatrale dove le parole diventano maschere.

Però non il gioco come terapia che perde il suo taglio di inversione e del quale gli estremi sono definiti in una via di uscita sicura, ma invece un gioco con tutti i rischi. Il gioco è sinonimo dell’ Questo–Quello e può essere paragonato con l’inconscio. È aperto sul luogo/tempo delle risposte.

IL gioco non è un predicamento del mondo, perché il gioco gioca il mondo. Conosce ogni comportamento nostalgico e reattivo, soffoca all’interno dei suoi stessi limiti, ogni opportunismo semplice e pulito perde tempo, ogni opportunismo scuro o eccessivo rimane piano e monolineare, mentre alle grandi domande non possiamo che rispondere senza rispondere. Non vede la vita come un labirinto di sostituti né una funzione dell’ellisse (mancanza) / desiderio, che crea la metafisica della diaspora.

La forma duale dell’alterità, del gioco/ della maschera/ dell’intermedio, presupporre una metamorfosi senza appello un regno senza appello della apparenze e delle metamorfosi. Il compimento ineluttabile di ogni liberazione è quello di fomentare e di alimentare i sistemi reticolari dei perché.




Il bosco dei perché.


I

Perché se il mio presente ha il dovere di presupporre il mio passato deve già contenerlo.



II

Perché vengo alla luce nel momento in cui mi autodefinisco come domanda. La domanda non può quindi avere risposta perché appena si pone, si trasforma automaticamente in un’altra domanda.




III

Perché le parole sono svanite. «Le parole sono notazioni per indicare concetti; ma i concetti sono segni può o meno figurati per indicare sensazione spesso ritornati e ritornati assieme, per gruppi di sensazioni. Non basta ancora per comprendersi l’un l
altro, che si usino le stesse parole; occorre usare le stesse parole anche per lo stesso genere di esperienze interiori, occorre infine, avere vicendevolmente “in comune” la propria esperienza. Perciò gli individui di “un unico” popolo si comprendono tra loro meglio di quelli appartenenti a popoli diversi, anche quando costoro si servono nello stesso linguaggio.» (Secondo Friedrich Wilhelm Nietzsche)



IV

Perché l
uomo e “antopsia», cioè il paesaggio di un nuovo realismo.(Per ricordare Platone: Leggi A,631 b, e Repubblica A,427 d)





V

Perché vede il narrativo del desiderio dentro il narrativo del reale.



VI

Perché la verità è sempre al plurale.



VII

Perché conosce che la fantasia sarà sottomessa alla volontà.




VIII

Perché siamo pieni di entusiasmo, e gran negatori insieme.




IX

Perché per ogni salita c
è una discesa. (La storia del Dio greco Tesup)




X

Perché l' uomo ogni tanto bisogna fare una pausa.



XI

Ma anche perché l
uomo è un movimento senza ritorno verso lestraneo. (Conclusione di Pascal)



XII

Perché tutto non nasce dalla differenza tra 0-1, come insegnava il razionalismo e il funzionalismo.




XIII
Perché le cose hanno una ironia del nulla e una dicotomia di nulla.  (Non insegna questo S. Beckett?)



XIV

Perché ogni narrazione si trasforma in requisitoria. (La fine della modernità e del narrativo, Lyotard)



XV

Perché la vita non è assenso, né ricompensa, né argomentazione.



XVI

Perché le idee sono figure del momento in momento.



XVII

Perché la vita è una seria di leggi, è un margine di regole. (Colloquio con Platone, Kant, e Kafka)



XVIII

Perché l’uomo ha il diritto di scegliere l’illusione. (Pensiero di Kirkegaard)



XIX

Perché la libertà è un cammino della passione.



XX

Perché abbiamo ciò che abbiamo perso. (Questo insegna Omero con l
Odissea)



XXI

Perché quello che viviamo non è quel che dimostriamo.(La lezione di Guy Debord)



XXII
 

Perché siamo un segno senza interpretazione, come diceva Hölderlin.



XXIII

Perché la vita aspetta ancora, sul bianco foglio.(La vita come scrittura Derrida)



XXIV

Perché l’immagine non può immaginare.




XXV

Perché come dice il greco poeta O. Elitis: “Regala il tuo Tempo gratis... Se vuoi ti rimare un po’ dignità…”



XXVI

E perché l’uomo è sempre parole che sfumano nella nebbia. (Le opere di Fellini )



XXVII

E perché come diceva Eraclito: “Il tempo è un ragazzo che gioca con le palline... Vince sempre lui.”



XXVIII

Perché la vita sono i passi sulle sabbie del tempo.



XXIX

Ma anche perché qualche volte la vita è prigioniera del nulla.



XXX

Perché l’uomo non può sopportare troppa realtà.



XXXI

Perché le sue parole, non sono per dirsi, ma anche per nascondersi.



XXXII

Perché amo le cose, dato che le cose ti ricordano che sei vivo.



XXXIII

Perché il mio regno è costruito sulle mie rovine.



XXXIV

Perché l’altro è lo stesso.



XXXV

Perché l’altro è ciò che mi consente di non ripetermi all’ infinito.




XXXVI

Perché il segreto è sempre quello dell’artificio.




XXXVII

Perché le cose liberate sono votate alla commutazione incessante, e quindi all’indeterminazione crescente e al principio di incertezza.




Apostolos Apostolou (Professore di Filosofia della cultura)

lunedì 17 giugno 2013

Su L'ultima avventura del pirata Long John Silver di Björn Larsson


Traduzione di Katia De Marco
pp. 80 - € 7,00

 
“[…] gli anni passarono senza che Silver desse segno di vita, nemmeno per sentito dire. Alla fine il suo spettro si stancò di intrufolarsi nella mia testa d’adolescente anche se mi domandavo spesso che fine avesse fatto” (p. 10).
Tramite annotazioni del genere – in un’intrigante premessa per la verità dal gusto non poco manzoniano – è Jim Hawkins a dimostrarsi ancora una volta depositario delle leggendarie peripezie che il pirata Long John Silver va stilando di suo pugno, durante notti insonni in cui persino gli accade di scordare la propria esistenza e, se possibile, l’orrido marciume del mondo.
Un giorno gli viene recapitata una busta che un vecchio marinaio appena tornato dall’Africa ha lasciato a suo nome. Contiene un manoscritto di una cinquantina di pagine recanti l’inconfondibile impronta di Long John.
È così che, in un romanzo brevissimo (63 paginette), Björn Larsson torna a narrarci qualcos’altro di quell’uomo affascinante ed inquietante nel medesimo tempo: in un certo senso – quello migliore –, di sé stesso.
Propriamente, non lo si direbbe libro d’“avventura”, nell’accezione classica e usuale del termine, bensì in quella, assai più avvincente, etimologica, per cui “avventura” è  “ciò che mi viene incontro”, meglio ancora se del tutto abrupto e inatteso, proprio come accade a Long John in quest’ultima sua storia: “Iniziò con Jack che si precipitò nella mia stanza come se avesse visto all’orizzonte le prime nubi del diluvio universale” (p. 19).
E sembra quasi di vederlo, mentre studia il mare dal suo maniero sulla scogliera, al modo di un Innominato o un Master of the World alla Jules Verne o Jan Fleming: “un mascalzone affascinante quanto letale” di cui il mondo credeva d’essersi finalmente liberato.
Dal suo inaccessibile fortino sulle coste del Madagascar, Silver fa sfilare tutto un mondo (agito tra verità comprovata e invenzione per niente affatto “romanesque”) di straordinarie avventure terrestri e marine, di squallidi “gentiluomini” e pirati giustizieri, una varia umanità che sembra trascendere il tempo, sfidando la morte, proprio come lui: “promettimi di farmi leggere il tuo scritto, quando sarà finito”, qualcuno gli domanda, e Silver risponde: “Allora ti conviene mantenerti in forma, perché ho intenzione di scrivere finché campo. La mia vita sembra non voler mai finire.”
Ed è esattamente su tale ricorsiva (e ricorrente) suggestione larssoniana – sorta di leit motiv che testimonia fino a che punto l’autore scandinavo ami la narrazione (considerata nella più ampia gamma dei suoi valori e significati, sociali e individuali), tanto da doverne giocoforza parlare nel corso delle proprie storie piuttosto di frequente e a scadenze regolari, come per una sorta di “libido nominativa” – che va ad innestarsi, in almeno una quindicina di luoghi (su 63 paginette non sono pochi: dunque non casuali né irrilevanti), un’affascinante “narratologia disseminata nel racconto” che a mio avviso andrebbe sistematicamente indagata ed esplicitata in una trattazione organica.
Qualche intenso passaggio (su cui meditare):
1. “[…] forse scrivere le proprie memorie, nel migliore dei casi, è un modo di liberarsi dai debiti di fronte alla morte, di ripagare con la stessa moneta, di gettare a mare i cadaveri nella stiva una volta per tutte e cancellarli dalle liste, di liquidarli con il teschio che i capitani usano disegnare sul giornale di bordo per ogni marinaio che muore. È questo forse che a volte fa pensare a uno come me che tutto il mio scrivere sia l’unica cosa che mi tiene ancora in vita, che continuerò per così dire a vivere sul mio cadavere vivente finché morirò?” (L'ultima avventura del pirata Long John Silver, p. 18)
2. “Sembra una storia terribilmente tediosa.” “Ma vera”, disse Barrington. “Appunto”, risposi con il miglior sorriso. “Cosa intendete dire?” chiese perplesso. “Esattamente quello che ho detto. La vostra storia non è particolarmente divertente per nessuno. Non potreste arrivare al punto?” “Al punto?” “Sì. Il motivo per cui dovrei sopportare un fallito come voi, nemmeno in grado di raccontare una storia come si deve.” (ibidem, p. 44)
3. L’alba è vicina. Mi lacrimano gli occhi e ho male al pollice per tutto questo scarabocchiare. Non è assurdo? Sono rimasto seduto a questo tavolo a scrivere per quasi ventiquattr’ore, per nessun altro motivo che dimenticare che a questo mondo c’è gente come Barrington. […]. E in fondo a uno scopo è servito. Per qualche ora ho quasi dimenticato di esistere. (ibidem, p. 71)



AUTORE

Björn Larsson, nato a Jönköping nel 1953, docente di Letteratura Francese all'Università di Lund, è filologo, traduttore, scrittore, appassionato velista, nonché uno degli autori svedesi più noti in Italia, dove tutti i suoi libri (una decina) sono stati tradotti e pubblicati da Iperborea.

Su ’Nci steva ‘na vota Gennarino Romei di Filomeno Moscati

Ed. Tuttovolume, 2013 


recensione di Vincenzo D'Alessio



Il volume uscito presso le edizioni “Tuttovolume” di Serino che reca il titolo ’Nci steva ‘na vota Gennarino Romei costituisce l’ultimo lavoro del prolifico autore Filomeno Moscati: storico, antropologo, ricercatore sul territorio, mosso dalla forte passione per la sua terra : Serino, in Irpinia.

Quest’ultimo lavoro ha però qualcosa di inusuale: costituisce la staffetta storica tra grandi atleti della memoria. Quasi duecento pagine per tramandare ai lettori contemporanei, e alla Storia stessa, l’autore Gennaro Romei, amichevolmente conosciuto con l’appellativo di “Gennarino”. L’illustre scomparso (nato il 31.10.1914 a Serino, deceduto ivi il 4.1.2001) è riuscito a raccogliere la gran parte della memoria orale della civiltà agropastorale che si è avvicendata lungo le rive del fiume Sabato, affluente del fiume Calore.

Il dialetto, le fiabe, i canti e i suoni, i riti magici, le tradizioni, i cibi,finanche i profumi, sono stati pazientemente salvati. Si è passati da una lunga tradizionale orale, perdurata intatta almeno per seicento anni, a testi minuziosamente scritti ricchi di immagini, aforismi, filastrocche, proverbi. Insomma Romei, da ottimo maestro di scuola elementare, ha fatto suo quanto Massimo D’Azeglio scriveva nella sua autobiografia: “formare gli italiani insegnando loro a rinnovarsi, a non rimanere gli italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio, e cioè, a fare il proprio dovere anche se, il più delle volte, fastidioso, volgare e ignorato” (cfr. I miei ricordi).

Dopo dodici anni dalla scomparsa lo storico Filomeno Moscati, del quale l’opera più nota e la Storia di Serino (Ediz. Gutenberg, 2005), ha voluto raccogliere il testimone di questa staffetta trasumanando, nel senso di acquisire fino in fondo il senso dato ad una esistenza, l’intera passione poetica per la stessa terra madre, sposa e figlia, della quale Gennarino Romei era innamorato, marito e figlio. Leggendo le pagine di questo libro si rimane pervasi da un impeto di passione che avvolge ogni pagina. C’è la volontà di testimoniare la fatica di un lungo lavoro di ricerca, storico antropologico, realizzato nel breve cerchio di un’esistenza. E la volontà di far partire dall’interno di questo un altro concentrico che apra gli occhi al lettore attuale e alle generazioni future: continuare a tenere in vita la fiamma della memoria.

In tanti hanno scritto, tra questi Pier Paolo Pasolini, sulla lenta distruzione della Civiltà contadina da parte dell’industria del consumismo ad iniziare dal XIX secolo. Molti sono stati i testimoni, specialmente nel Meridione d’Italia, di questa abnorme distruzione. Tra questi annoveriamo Gennarino Romei e l’estensore di questo libro, Filomeno Moscati, anch’egli a sua volta testimone senza timori delle stesse vicende che ha voluto sospendere nel firmamento degli storici la stella di Romei con l’espressione  ‘Nci steva ‘na vota (dialetto irpino), che è l’incipit di tutte le favole a partire dalla civiltà greca a quelle dei nostri giorni: “C’era una volta”. Un luogo imprecisato, senza tempo né spazio, l’eternità del racconto per tutti gli esseri umani.

Il Gruppo Culturale “Francesco Guarini”, testimone cosciente di questa  “Rivoluzione Meridionale” che si sta riappropriando dell’ancestrale memoria contadina, di una terra colonizzata da troppi lupi vestiti da imprenditori, ha onorato il dottore Filomeno Moscati con una pergamena che lo inserisce di diritto nelle file dei suoi Soci Onorari, vere fiaccole di Civiltà.

martedì 11 giugno 2013

Medaglie del Presidente Giorgio Napolitano per i primi classificati del concorso Insanamente 2013

Il primo classificato della sez. Poesia e il primo classificato della sez. Racconto riceveranno questa splendida medaglia del Presidente della Repubblica. In bocca al lupo a tutti i partecipanti e grazie giurati che li selezioneranno!
Il nostro più sentito grazie al Presidente Giorgio Napolitano!

In bando è qui (ultimi giorni per partecipare!)
www.faraeditore.it/html/insanamente13.html





I vincitori della scorsa edizione:
http://narrabilando.blogspot.it/2012/06/vincitori-e-selezionati-del-concorso.html

lunedì 3 giugno 2013

“Un po’ di perfidia ci vuole”: Subhaga Gaetano Failla intervista Paolo Poli


Se penso  ai pilastri del teatro italiano tra Novecento e nuovo secolo, quattro sono i nomi che mi giungono senza dubbio in mente: Eduardo, Carmelo Bene, Dario Fo, Paolo Poli. Il primo giorno di giugno del 2013, in un tardo pomeriggio che si apre dopo lunghe piogge al cielo azzurro, ho avuto la fortuna di intervistare Paolo Poli.
Giungiamo con la mia compagna e alcuni amici in un villaggio della Maremma grossetana, Ravi di Gavorrano, presso gli impianti delle miniere di pirite chiuse all’attività produttiva da diversi decenni. Assisteremo a una iniziativa culturale denominata “I Luoghi del Tempo” che coinvolge il vasto territorio di questa provincia del sud della Toscana.
Siamo arrivati con molto anticipo. L’iniziativa, che si svolgerà all’aperto con brevi passeggiate didattiche attraverso i siti degli impianti minerari dismessi, ha come fulcro, durante le soste del percorso, la preziosissima presenza dialogante di Paolo Poli, con infine uno spettacolo-reading dell’attore e scrittore Marco Baliani accompagnato dal musicista Mirco Mariottini.
Paolo Poli ci accoglie come vecchi amici. Con la mia compagna gli ricordiamo d’un suo  spettacolo su Palazzeschi a cui avevamo assistito molti anni prima in Calabria. Gli chiedo poi  titubante se può concedermi un’intervista. Con la semplicità, l’umorismo, il garbo e la straordinaria eleganza che lo contraddistinguono da sempre, accetta le mie domande. 

  

Quali sono oggi a tuo parere le condizioni di salute del teatro italiano?

Mah, io vedo poco, perché quando lavoro batto la provincia e faccio dei paesini sperduti nel nulla. E quindi nelle grandi città rimango poco, e quando lavoro io non vado a vedere gli altri. Comunque, siccome non girano tanti soldi in Italia, la gente fa risparmio sulle cose voluttuarie, come è il teatro. E quindi non va tanto bene. Anche quando si lavora, poi, a volte non si prendono i soldi, sicché… ma a me non m’importa dei soldi. È che anche le stagioni teatrali diventano sempre più brevi, perché i comuni  per non sbagliare tengon chiuso il teatro, e così non sbagliano. Non va né bene e né male. Non va. E quindi  io facevo stagioni lunghe in gioventù. Facevo da sei mesi in su. Fino a nove mesi, il tempo di fare il bambino. E invece, adesso, l’anno scorso ho fatto quattro mesi, e il prossimo anno cosa farò? Chi lo sa? Eh?

Questa domanda è collegata proprio a “chi lo sa?”… Hai portato in scena innumerevoli autori: Beckett, Genet, Giordano Bruno, Satie, Queneau, Palazzeschi, Landolfi,  Savinio, ecc. ecc., fino agli spettacoli più recenti tratti dalle opere di Parise, Ortese e Pascoli. Quali nuovi autori vorresti portare in futuro sulla scena e quali, tra gli autori da te già interpretati, incontreresti ancora e ancora?

Sai… Gassman diceva: “Il mio futuro è dietro le spalle”. Che vuoi… Non posso fare progetti in un  avvenire che… chissà se ci sono, se sarò ancora vivo a primavera. Eh, visto che piove in continuazione, ecco, si dice così. Mah… No, non penso più, perché  è una fatica pensare. Cosa si farà? Sai, quand’ero giovane ero avvantaggiato, perché per la religione c’era il papa, per la politica c’era Mussolini… E diceva Vitaliano Brancati: “L’unica alternativa per noi giovani era decidere se imparare il valzer oppure il foxtrot”. Anch’io mi sono trovato in queste condizioni… Ma insomma, poi ho fatto come meglio potevo.

In una delle sue ultime interviste, Mastroianni raccontò a Enzo Biagi di provare sempre una grande emozione sul palcoscenico, come se fosse una interminabile prima volta. Accade anche a te così?

E certo! E poi la paura. Solo gli imbecilli non hanno paura in guerra. Invece, chi ha paura sa che al cinema e al teatro i posti indietro sono i migliori.

Le tue interpretazioni in televisione e in radio risalgono ormai a molti anni fa: questa distanza è in relazione a una tua scelta deliberata?

No, perché non posso scegliere io. Lì son dei produttori che… Io ormai vengo considerato un mammut, come un’epoca del cartaceo, che non c’è più. E sicché lavoro meno, anzi, quasi nulla. Ma bene, perché è l’epoca in cui mi devo sedere sotto il portico a vedere le galline che razzolano.

Quale opera del passato o di oggi potrebbe meglio rappresentare secondo te l’Italia contemporanea?

Mah… È un periodo così basso che… non so… Sai, guardando Berlusconi mi vien da rimpiangere Mussolini, ed è per me uno strazio terribile.

Il film che non ti stanchi mai di rivedere e quello che più ti ha emozionato recentemente.

Ieri sono andato a rivedere restaurato il film “To be or not to be”. Bellissimo. Bianco e nero, del ’41. Emozionante. Lei è di una bellezza… è bravissima, Carole Lombard, con questi occhi luminosi…

Il film di Lubitsch?

Lubitsch, sì. Uno dei grandi del cinema di tutti i tempi. E mi ricordo, a Parigi vidi una commedia di Oscar Wilde, che è ritenuto il più grande nei dialoghi, nelle curiosità linguistiche. Il film invece era muto. Ma si capiva ogni cosa. Era “Il ventaglio di Lady Windermere” [Nota: altro film di Lubitsch, del 1925, tratto dalla commedia di Wilde].  Mi divertii moltissimo, e ho capito che quando uno è intelligente si fa capire in ogni modo, in ogni epoca.

Se dovessi paragonare la tua opera a quella d’un musicista e d’un pittore, quali nomi faresti?

Be’, Morandi, perché ha fatto bottiglie. Partiva da una cosa semplice come le bottiglie. E poi le bottiglie sembrano le torri di Bologna, sembrano i giganti di Monteriggioni che Dante descrive nell’ultimo cerchio dell’Inferno. In musica non so, sono molto ignorante di musica. Io sono figlio delle canzonette, hai capito, sicché quando mi avevano offerto di andare a Sanremo a pigliar per il culo Nilla Pizzi, ho detto no. Io mi ricordo ancora di prima della guerra, dicevano: “Ora ci connettiamo con Radio Bologna: l’ugola d’oro di Bologna, Petronilla Pizzi”. Era ancora prima della guerra, sicché la signora l’era intonatissima. E poi, siccome non si vedeva la persona, contava la bravura, contava l’intonazione; una specialità nella voce che si riconosceva subito chi era che cantava. E poi c’erano ancora… nonostante che la moglie di Gaber dica che “era l’epoca in cui amore rimava con cuore”. Non è vero, c’erano tante belle canzoni. Nella Belle Époque abbiamo avuto tanti musicisti. E da noi il cinema muto è durato più che in altri paesi, perché facevano lavorare l’orchestrina che commentava quello che si vedeva nello schermo. Io ho visto solo le ultime propaggini. Ho visto “La grande parata” [Nota: film muto del 1925 di King Vidor] con Renée Adorée, la primadonna. Ero bambino, avevo cinque anni, sicché stentavo a leggere i cartelli, e mi andavano via dopo che avevo letto il primo rigo. Però, quando lui torna dalla guerra, con le stampelle, con una gamba sola, e lei grida “Kim!”, allora io ho fatto un urlo, perché avevo finalmente capito i disastri della guerra. Che invece a scuola ci veniva reclamizzata come una cosa positiva, perché era l’epoca in cui Marinetti aveva detto: “La guerra, sola igiene del mondo”.

In un’intervista del 2009 per il quotidiano “La Stampa” così tu dicevi  a Giancarlo Dotti: “Da bambino stavo sempre allo specchio, perché le suore dicevano: ‘Non state troppo allo specchio, che  viene il diavolo’. E io allora lo fissavo questo  specchio, finché mi veniva un  lampo negli occhi e capivo  che il diavolo ero io.”
Com’è quel diavolo bambino oggi?

È molto addolcito, perché si è abituato a campare, nonostante tutto. Ma comunque, un po’ di perfidia ci vuole perché è difficile trovare l’intelligenza mescolata alla bontà. Il più delle volte la si trova nelle persone che appaiono insopportabili, ma perché c’hanno un lume di ragione.

Un oggetto e un profumo che tu riporteresti dal passato, qui e oggi.

4711, il profumo. Un oggetto… La sputacchiera, che non si vede più. Perché nell’autobus, no, nel tramway, c’era scritto: “La persona civile non bestemmia e non sputa per terra”. Perché tutti sputavano moltissimo. Sembra che ancora in Ungheria si sputi molto.

(risate)

Va bene… Grazie, grazie tante…

Va bene. Si finisce con lo sputo. Benissimo.

(risate e applausi da parte del pubblico improvvisato)