mercoledì 24 luglio 2013

Vincitori e segnalati del concorso Insanamente 2013

 per la sezione Poesia
(in particolare dott. Claudio Roncarati)
(in particolare Fernando Monte)

sono lieti di premiare con la pubblicazione i seguenti autori 

la premiazione avrà luogo 
nell'ambito di esportiamoci
mercoledì 4 settembre 2013 
dalle ore 21.00
presso Le Dune di Marina Grande di Viserba
Via G. Dati 19/g, tel. 0541.736427  


Classifica Racconti
per la sezione Poesia farapoesia.blogspot.it



Primo classificato 
con medaglia del Presidente della Repubblica
Matrioska di Gabriele Cecchini (San Clemente, RN)



Gabriele Cecchini nasce a Rimini nel 1978. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il diploma in pianoforte, riprende a scrivere (passione comunque che coltivava sin da bambino). Nel 2006 pubblica il suo primo libro di racconti Le anime meschine, con la casa editrice Il Filo di Roma, che vince il premio quale miglior opera prima al Premio Letterario Giuseppe Giusti di Monsummano Terme (PT). Con altri racconti inediti risulta finalista e vincitore a vari premi letterari. Tra gli altri ottiene il primo premio assoluto al concorso “Arno Fiume di Pensiero” organizzato dal Comune di Lastra a Signa, edizione 2008, col racconto Nora e il fiume di pensieri, risulta finalista al prestigioso premio “Arturo Loria” di Carpi con pubblicazione del racconto presso Marco y Marcos. Attualmente lavora all'AUSL di Rimini come assistente amministrativo (dividendosi tra Sert e SPDC). Entro l'anno verrà pubblicato il suo primo romanzo dal titolo provvisorio La Caduta per le Edizioni La Gru. Intanto continua a scrivere, leggere e coltivare il sogno che i suoi pensieri, le sue storie un giorno possano guadagnarsi con le loro forze un posto nella letteratura e, chissà, magari nel cinema.

Traspare tenerezza, in parole che rendono la pesantezza di una vita difficile con la leggerezza di sfumature non autocommiseranti. Era difficile raccontare questa storia senza trasmettere tristezza, invece l'autore non solo riesce ma dà con la chiusa un colpo da maestro che illumina tutto il resto. (Daniela Mena)

Mi è piaciuta l'introspezione. Qualche piccolo errore, non è ben chiaro cosa siano i rumori che si sentono. (Elisabetta Sala)

Sorprendente e inattesa. Una storia che si intreccia con il non detto e con l' imprevedibile. Una donna in osservazione e in ascolto di pensieri lontani e vicini. Tanto vicini da essere troppo lontani. Il lettore rimane stupito di fronte a un finale che riconduce alla serenità di un bambino che corre tra le braccia di una mamma, donna, complessa di una complessità armoniosa e avvincente. (Alessandra Pederzoli)

    

Matrioska


Doris guardava il campo da calcio e non si muoveva. Era lì che avrebbe voluto vederlo giocare suo figlio, se mai l'avesse avuto, ma non erano venuti, i figli, come non erano venuti i genitori. Lei era sempre stata “i genitori” di sua madre. Il padre, al contrario, non l'aveva conosciuto proprio. Meglio così, una brutta sorpresa risparmiata. Un educatore che approfitta di una paziente schizofrenica che padre è? Sorrise (per non piangere, come sempre). Neanche i nonni aveva avuto. Morti durante la guerra. Una donna senza radici. Sorrise. 
Dentro di lei si erano moltiplicati da sempre ruoli e personaggi, maschere, persone, come tante matrioske l'una dentro l'altra.  
A guardarlo, il campo, era proprio un bel campo da calcio, con gli spalti, gli spogliatoi e tutto il resto. Seduta su una panchina, fuori dalla recinzione, era lì che lo avrebbe aspettato, per ammirare le sue imprese e accoglierlo alla fine della partita. Ma niente, con sua madre era morta anche la sua maternità, visto che era andata in menopausa tre settimane dopo il funerale, a quarant'anni. Presto, aveva detto la ginecologa. Chissenefrega, aveva ribattuto lei tutto d'un fiato. Buuum. Un boato repentino la costrinse a coprirsi le orecchie. Basta!
Le sembrava di essere una vecchia palla che, abbandonata in campo dopo che tutti se ne sono andati a casa, sgonfia, sformata da giorni e giorni di vento, pioggia e intemperie – la vita con sua madre – ascolta gli echi della partita appena terminata. La follia è un lungo fiume tranquillo, tutto sommato. Si era abituata anche a quella. Così la psicosi di sua madre avevano regolato la sua vita come un metronomo scassato; lei aveva navigato a vista, come si dice, crescendo contro ogni aspettativa sana e forte, sensata, bella e pure gentile. Dicevano: povera figlia, impazzirà anche lei. Invece no, era filato tutto liscio.
Liscio si fa per dire. Nonostante avesse accettato la sua missione con tutta la pazienza possibile, non era stata una passeggiata sotto l'ombra in una radura di betulle. Ma perché guardare al particolare? Doris aveva imparato a concentrarsi sull'insieme, sul bello più che sul brutto. Così, tra un'ingestione di farmaci, un piano del governo per ucciderle, un ragno che camminava sul soffitto, il tempo era passato e lei era maturata. Non era solo invecchiata, come la madre che era diventata una bambina coi capelli bianchi, nossignore, lei era diventata adulta.
“Arginare, non educare” era il motto che si era inventata. Troppo presto aveva dovuto mettere via le speranze di guarigione, il desiderio di avere una madre cui appoggiarsi per le decisioni importanti, la voglia matta che una qualche ricompensa le venisse riconosciuta dalla madre. Il deserto ha un solo colore.  (…)




Secondo classificato
Lucine, lucciole di Barbara Rossi (Morciano di Romagna, RN)


Barbara Rossi nasce a Rimini nel 1966. Dopo la maturità magistrale, inizia a lavorare nel sociale in un Centro Diurno e attualmente lavora presso il Centro Dipendenze Alcol-Fumo dell’azienda USL di Rimini. Fin da bambina ha una passione grandissima per la parola scritta e i libri (che stanno riempiendo la sua casa e mai verrano sostituiti dagli e-book), e che l’ha portata a lavorare con entusiasmo in una biblioteca in miniatura: il Centro Documentazione del Sert di Rimini, questo in attesa di poter realizzare il suo sogno di raccogliere tutti i libri che possiede in una biblioteca casalinga aperta ai concittadini del paese in cui vive. Negli ultimi anni ha frequentato vari corsi di scrittura creativa e ha iniziato a scrivere brevi racconti.

Un racconto ben compaginato, l'autore accompagna il lettore un passo alla volta dentro la drammatica vicenda, con delicatezza svelando piccoli dettagli. Pare di essere lì ad aprire il cassetto, a sfilare dalla scatola quelle vecchie istantanee e di essere noi quella donna/bambina dai capelli rosso furioso, investita da sentimenti di amore/odio per la madre, la zia, il mondo. (Alessandro Chiarini)

Allude al tema inserendolo in una trama che incuriosisce e con un ritmo che non stanca. Scritto bene senza eccessi. (Daniela Mena)



Lucine, lucciole
 
La mia mente da qualche giorno, torna, senza darne il benchè minimo avvertimento, a quando avevo dieci anni.
Sono impegnata nelle mie solite faccende e all’improvviso, mi passano davanti agli occhi le immagini di quel periodo.
Spuntano dal nulla e s’impongono con prepotenza, tanto che devo fermarmi e lasciarle scorrere.
Sono in giardino, è estate e fa molto caldo. La mamma mi ha fatto indossare un vestito che a me piace molto, tutto fiori azzurri e bianchi, ho anche i miei sandali preferiti, verdi, con sopra una piccola margherita bianca.
Mi ha pettinata lei, ha raccolto i miei capelli ribelli in una grossa treccia. Quando mi pettina diventa molto seria, passa e ripassa la spazzola tra i capelli e i suoi occhi sembrano due laghi d’acqua profondissima.
Chissà a cosa pensa.
Quasi sempre alla fine mormora fra sé “hai i capelli di un rosso furioso…”
Io rido e ripeto “di un rosso furioso”.
Il giardino dove gioco è grande e verdissimo, pieno di fiori e alberi.
La mamma ne è molto orgogliosa, ci dedica tutto il suo tempo libero e la sera si siede sulla sedia a dondolo e se ne sta lì, a godersi  i profumi e la frescura della giornata che sta per concludersi.
Ogni sera d’estate io e lei assistiamo a uno spettacolo meraviglioso.
 Ad un tratto si vedono due o tre puntini dorati fluttuare dolcemente tra gli alberi, lampeggiando a ritmo regolare. Poi piano piano il numero cresce finchè certi punti del giardino sono rischiarati da un magico scintillio dorato. Sono le lucciole, che volano fra gli alberi, sfiorano l’erba e i fiori, scompaiono dentro i cespugli e ricompaiono come tante piccole lucine intermittenti.
Siamo sempre solo io e la mamma, il mio papà non c’è.
Non l’ho mai conosciuto, è morto prima che io nascessi.
La mamma mi racconta che anche la sera in cui se ne è andato, le lucciole avevano fatto per loro uno spettacolo meraviglioso, poi ad un tratto tutto era piombato in un buio senza fine. Quando le chiedo perché, lei non risponde.
Adesso, che ho quasi quarantun’anni, finalmente ho capito cosa significava quel silenzio…
Con il tempo sono riuscita a mettere insieme i pezzi di ricordi, le frasi che sentivo pronunciare piano e che subito s’interrompevano quando arrivavo.
Un giorno a scuola un bambino mi dice “Tu non puoi giocare con noi, sei la nipote di un’assassina”.
Non capisco quella frase, sono confusa e quando vado a casa non ho il coraggio di dirlo a mia madre. Quel pomeriggio poi, c’è con lei zia Nadia, che quando arrivo mi prende fra le braccia e mi fa sedere sulle sue ginocchia. (…)


Terzo classificato
Spending review psicosomatica di Manfredo Marotta


Manfredo Marotta è nato a Limatola (BN) il 23.02.1965 ed è domiciliato a Gabicce Mare (PU). Si è laureato in Medicina e Chirurgia e si è specializzato in Igiene e Medicina Preventiva presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia della II Università degli Studi di Napoli. Dal 1997 ha prestato servizio, sempre come dirigente medico, in Igiene e Sanità Pubblica presso varie Aziende Sanitarie tra le quali: l'Azienda P.le Autonoma di Trento, l'AUSL di Caserta, l'AUSL di Bologna, AUSL Benevento. Attualmente lavora nell'AUSL di Rimini dove ricopre il ruolo di Referente per l'Ambiente e di Responsabile della Gestione Ambientale per l'intera Azienda.

Esagerato e dissacrante, in un piacevole crescendo comico, l'autore stimola la riflessione intorno ai problemi di salute mentale, legandoli palesemente allo stile di vita contemporaneo, quasi a dire: si stava meglio quando si stava peggio! (Alessandro Chiarini)

Ho apprezzato lo humour e la leggerezza, nonostante i due errorini di punteggiatura. Mi sembra anche il più coeso e chiaro. Ogni tanto qualcosa di divertente! (Elisabetta Sala)




Spending  Review Psicosomatica



Sarà stato un caso ma tutto cominciò  il 17 luglio del 1982  alle ore 17 e 17 minuti, quando terminò la puntata n. 17  della telenovela messicana “Anche i ricchi piangono”, aggiungo io “figuriamoci i poveri”.  Quel giorno, quella santa donna di mia zia, zitella per volere di Dio per assicurare la pace tra gli uomini, assidua spettatrice di questa fiction, mi aveva chiesto di seguire  la puntata al posto suo, poiché doveva recarsi ad una visita medica. Ingenuamente feci quanto richiesto, ma, nell'insensato tentativo di seguire trentatré trame intrecciate inestricabilmente, i miei neuroni decisero di suicidarsi in massa e, utilizzando gli assoni come delle spade ben affilate fecero karakiri. Il mio cervello che fino ad allora  era riuscito a garantirmi un certo benessere psicofisico, dopo quel ‘neuronicidio’ ebbe un tracollo.

Poco tempo dopo,  andai a cena  da mia zia, per  aggiornarla sull'episodio perso. Per l'occasione, quella santa donna, si era lucidati i lunghi e profondi solchi sotto gli occhi, formatisi dallo scorrere delle lacrime versate per le disavventure della protagonista della fiction,  Mariana Villareal. Per la cena mi preparò tre fette di prosciutto crudo tagliato con il coltello, così grosse che per mangiarle dovetti aprire la bocca come nelle  visite dall'otorino quando ti guarda col casco da minatore; tre pezzi di formaggio fresco così alti che dovetti cambiare posto perché non riuscivo a vederla seduta di fronte; olive bianche sparse nel piatto che mi sembrò essere al frantoio Carapelli.  Seguirono peperoni ripieni e melanzane alla parmigiana così pesanti che le ribattezzai alla 'partigiana' per la 'Resistenza' che fece il mio stomaco a mandarle giù. Continuammo con una bistecca (il famoso quarto di bue tagliato trasversalmente, infatti era ancora visibile la coda e un  orecchio), con contorno di insalata mista e patate, fritte nello strutto. (…)


Quarto classificato
Il Bangladesh ci cambia la vita di Vincenzo Domenichelli (Rimini)


Vincenzo Domenichelli è nato a Milano il 16 luglio 1964. Laureato in medicina e chirurgia e specialista in chirurgia pediatrica, dal 2002 dirigente medico di I livello presso l'U.O. di chirurgia pediatrica dell'ospedale Infermi di Rimini. Dal 2013 responsabile della unità operativa semplice di urologia pediatrica. Ha svolto numerose missioni nei paesi emergenti (Africa e Asia) l'ultima delle quali in Bangladesh a febbraio 2013.

È un racconto sulle scelte di un uomo. È stato capace di farmi immaginare. L’avventura è descritta come “cammino che apre un cammino”, fatta in una natura che sembra ti sovrasti e traspare dalle espressioni delle persone e dall’ambiente che circonda il protagonista, Riccardo, missionario in Bangladesh. Nel racconto il narratore si chiede “Cosa è successo, perché ha fatto questa scelta?”: in fondo hanno condiviso tante scelte, prima della decisione di Riccardo di partire come missionario… sono cresciuti insieme, cosa li ha divisi? “Fare il missionario è una forma di egoismo” dice a un certo punto. Non so se per invidia o perché un amore talnto grande per gli altri possa appagare il proprio ego in maniera esagerata. Questa sembra la risposta che si dà il narratore. È il racconto di un viaggio, di un ricordo che il narratore spera gli altri conservino di lui. (Luciano Palumbo)


Il Bangladesh ci cambia la vita…

Non avrei creduto di ritrovarlo uguale… gli occhi scuri, magnetici. Lo sguardo penetrante è rimasto lo stesso. Dopo averlo osservato mentre si rolla la sigaretta capisco il perché dell'innamoramento di tante ragazze.
Dopo 13 anni dall'ultimo nostro incontro ho trovato Riccardo ancora meglio di quel che pensassi, dimagrito, in gran forma. Lo spirito battagliero è sempre quello così come le parolacce che escono dalla sua bocca ma che ormai fanno parte del suo essere come i capelli lunghi, la barba e gli orecchini.
Mia suocera la prima volta che lo vide in attesa fuori casa nostra a Bologna, chiamò i carabinieri…
Gli odori, i colori del Bangladesh sono sempre quelli. Immutati nel tempo. Cambiano le persone, i modi di vita. Più caos – se mai fosse possibile – più tecnologia, il viaggio, la vera nota dolente.
Ricordo ancora con entusiasmo e rimpianto la nave da Khulna a Dacca risalendo la foce del Gange. Un'esperienza indimenticabile per bellezza dei paesaggi, emozione e fascino…

“Siamo partiti presto la mattina e il viaggio sarebbe durato per molte ore fino al giorno dopo con arrivo previsto a Dacca verso mezzogiorno.
La maggior parte di noi alloggia in prima classe situata sul ponte superiore. Gli arredi in vimini così come le cuccette ricordano vagamente lo stile coloniale. Un grande tavolo campeggia al centro del salone principale dove alcuni camerieri sostano per cercare di esaudire i desideri dei – pochi – avventori. Roberto ed io abbiamo vinto una fantastica cuccetta in seconda classe. Dignitosa sia negli spazi che negli arredi ospita, oltre a noi due appunto, alcuni scarafaggi, probabilmente clandestini, che ci tengono compagnia durante la notte con grande apprensione di Roberto che nella sua aristocratica semplicità non è abituato ad una simile collocazione. Durante il giorno però, la nostra condizione di stranieri bianchi ci permette di soggiornare assieme agli altri sul ponte vip.
È magnifico trascorrere le ore che passano, lente ed inesorabili, cullati dal rumore del vapore e dal lieve sciabordio della nave seduti con i piedi appoggiati sulla balaustra seguendo il calare del sole che colora di innumerevoli sfumature di giallo arancio il nostro orizzonte mentre sotto di noi, sulla riva, una miriade di persone si muove come in un formicaio animato.
Ogni tanto scendiamo in terza classe per vedere l'altra realtà.
Il ponte più basso è attiguo alla sala macchine da dove fuoriesce oltre ad un rumore assordante un'afa calda e puzzolente. Decine e decine di persone si accalcano in ogni spazio disponibile. Tengono vicine a sé i loro averi siano essi figli, pacchi o animali in una commistione di suoni, odori e colori difficili da descrivere. Ad ogni fermata della nave questa varia umanità cambia nella forma in un andirivieni brulicante per poi ricomporsi nella sostanza una volta ripartito il battello.
Ogni volta che scendiamo quaggiù ci ricordiamo di quanto siamo fortunati, soprattutto perché possiamo liberamente risalire sul ponte superiore, in paradiso.” (…)




Quinti classificati ex aequo

Rivierainvisibile di Giorgio Massi (Ascoli Piceno)


Giorgio Massi, Ascoli Piceno (1973). Aspirante scrittore, giornalista, comunicatore di eventi, autore di interazioni poetiche.

L'atmosfera da film noir americano con una curiosa ambientazione sulla riviera romagnola: un noir senza delitti e colpi di scena, si sente solo l'atmosfera fumosa e l'odore di whisky, l'afa e la tensione data dal traffico automobilistico o a qualcosa che non traspare, ma che c'è. Il protagonista narratore descrive se stesso come un reietto e ciò si riflette su ciò che lo circonda. Bella (nel suo essere al contrario spaventosa) l'immagine dell'incubo dopo aver bevuto l'assenzio: nel racconto non accade niente, ma tra il piattume della realtà che circonda il protagonista e l'incubo dovuto all'assenzio c'è tutta una storia. Il che basta per farne un noir. (Luciano Palumbo)


RIVIERAINVISIBILE 
 
Cap. 1


È tardi e impercettibile scivolo nel traffico urbano a velocità ridotta sull’asfalto bagnato da lacrime fluviali.
Ho la barba incolta, una giacca logora per antonomasia e un’aria esplosa dall’imperfezione.
Nella valigia un manuale di narrativa, nel taccuino solo righe incendiarie.
Ho scritto poco negli ultimi tempi, e anche male. In modo svogliato e senza slanci. L’ultima volta forse a ferragosto.
Il caldo era opprimente quel giorno, il sole una fiamma a intermittenza.
Il paesaggio conflagrava in una conica estrema. Ogni reflusso di luce sfiorava il litorale trasformando le onde scolorite del porto in bolgia devota.
Tutti in acqua a smorzare l’afa. Tutti assuefatti nelle risme saline per insabbiature da vecchi.
Negli chalet si respirava solo un’aria tropicale, ma nemmeno un amen di chiesa recitato a memoria. Eppure era domenica.
Troppo caldo fuori, in quel cumulo di carne e fremiti; troppo freddo dentro, nelle mie scariche isteriche.
Lontano dalla claque di villeggianti, rigai allora, quasi a singhiozzo, pochi versi di circostanza, senza chiasmi poetici o contradditori da manicomio.
Si trattò solo di uno sfogo, quasi d’istinto.
Da quel giorno di sole non ho più scritto, e l’autunno è ormai inoltrato. (…)


Nell’oscurità di Francesco Randazzo (Ronciglione, VT)


Francesco Randazzo, scrittore e regista, laureato all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, ha realizzato molte regie per teatri pubblici e privati. Come drammaturgo ha vinto prestigiosi premi e molti suoi testi sono tradotti e rappresentati all'estero. Ha pubblicato, con vari editori, testi teatrali, poesie, racconti e un romanzo. Web: www.francescorandazzo.tk

“Solo l’emozione resiste”… emoziona questo vortice incontrollato e coinvolgente. Colpisce la brevità delle frasi, talvolta non frasi. Fuori dalle regole della lingua che si impara a scuola. Il lettore si avvolge di questi pensieri, si coinvolge e avvolge in una mente in ricerca e in viaggio. Strade tortuose che mostrano l' eterna ricerca di un uomo che... crede nell'emozione che resiste. E che c'è. (Alessandra Pederzoli)


NELL’OSCURITÀ

Solo l’emozione resiste.
                (E. Pound)

luoghi sconosciuti. altri luoghi. persone sconosciute e già note. case ricche d'una vita che non è la mia. eppure lo diventa. tutto può ricevermi senza implicarmi. è una sensazione ambigua e misteriosa, piacevole. vivi sulla scena di altre commedie, altri drammi. o sono i miei che si svolgono su scenari che non gli appartengono. è piacevole comunque. mi affascina. anche io.

non so decidermi a dare una piega che sia unica alla mia esistenza. non voglio. morirò il giorno in cui succederà. o molto banalmente, sarò un altro. tutto ciò che è fortuito è per me l'essenziale. e tutto è fortuito. si finge di "certificare" tutto proprio perché non lo è. per paura.

la mia paura è uno sgomento che nutre la tristezza del mio sorriso. l'unica felicità a me possibile. ed è impossibile.

forse il sole.

ma una stella sa già la sua fine.

  rubo immagini che altrimenti non ricorderei. o che non potrei ridire perché non sono reali. fotografo sempre con diaframmi altissimi: sembra che l'occhio sia chiuso ma la sua vista è acutissima, profonda. il tempo è il suo giusto, paziente aiutante.

nel silenzio del mio respiro che soffia fumo di sigarette pastose, ascolto le vite degli altri, mai visti prima. ma so chi sono. ormai.

devo partire. ancora. (…)



Racconti segnalati con sola pubblicazione nel blog narrabilando

CIACK&STRIKE di Ermanno Cottini (Torino)


Ermanno Cottini è nato a Torino il 24 marzo 1955, dove vive e lavora; laureato in medicina e chirurgia, svolge attività di medico di famiglia dal 1984. Collabora con la facoltà di medicina con l’incarico di tutor. Scrive poesie e brevi racconti dal 2002. Ha pubblicato la prima raccolta di poesie nel 2006: Echi dal cuore di un geode (edizioni Saviolo). Scorto un profilo alato lo seguii per un breve tratto è stato pubblicato da Edizioni nuovi poeti, altre poesie sono incluse in antologie di Aletti, Fara e Cartman. Ha vinto il premio di poesia “Albano-Greggio-Oldenico” 2008; la sez. racconti brevi del I concorso “Giù la testa. Foggia Sotterranea”; il I premio di narrativa dell’VIII edizione del concorso “Anna Vertua Gentile” di Codogno; il III premio nel 2008 al concorso “Città di Castorano. Scrivere per la musica”. Si è classificato terzo al “Totus Tuus” di Patti e Tindari, secondo al “Racconta la Solidarietà” Salerno 2010 con Un singolare traduttore, ai primi posti del IV premio letterario Emilio Gay “L’equinozio” e del premio per medici scrittori “Medito” 2005, terzo a “Il labirinto” sez. prosa. Fa parte dell’associazione scrittori e poeti Labirintisti. Nel 2011 si è classificato secondo al concorso Insanamente. Ha terminato un romanzo il cui titolo provvisorio è La ventitreesima chiave.

È un racconto molto ironico e scorrevole su una considerazione forse banale, ma che è (forse) vera: Amor vincit omnia. Mi è piaciuto seguire la vicende in questo grattacielo di Manhattan del protagonista e per la descrizione dei personaggi, quei nomignoli che li caratterizzano, li fanno diventare un pò caricature e ciò mi ha fatto piacevolmente ridere. Il racconto ha una certa forza e si legge piacevolmente. (Luciano Palumbo)



CIAK &STRIKE

Avevo premuto un tasto a caso sulla pulsantiera dell’ascensore, complice un momentaneo sfarfallio delle luci interne in coincidenza con il violento temporale in corso sulla città. Ero a New York da 3 giorni. Soggiornavo al Semiramis, a Manhattan, tra Park Avenue e la 42ma. L’edificio ospitava diverse imprese commerciali e persino un centro di produzione televisivo: il C.&M.S.A (acronimo di Chinese & Mongolian Studios Associates), tra il 45mo e il 50mo piano. L’ascensore si fermò al 47mo; all’apertura delle porte ebbi un’incertezza, non sapendo se scendere o premere il pulsante numero 32, quello della hall. Fu il fragore di un tuono, seguito da un nuovo ammiccamento delle luci a farmi utilizzare le scale anziché rischiare un momentaneo blackout in ascensore. Quell’intermittenza mi faceva paventare una crisi epilettica; il neurologo aveva ammonito più volte i miei genitori: <> Quel termine mi faceva sorridere: mi vedevo al centro di una piazza con un megafono in mano ad arringare la folla e contemporaneamente mi capacitavo di come gli ospiti delle tribune elettorali in TV fossero così prolissi in presenza di tutte quelle luci: erano preda di crisi comiziali! Mi sentivo a disagio nell’attraversare un corridoio sulle cui porte campeggiava la scritta “vietato l’ingresso ai non addetti”. Mi feci coraggio, abbassai la visiera del mio cappellino e procedetti in direzione del concitato scambio di voci che percepivo: perlomeno quello non costituiva un pericolo per la salute, nonostante la logorrea sia un sintomo degli stati maniacali. La porta era socchiusa; una lama di luce azzurrognola si proiettava sul pavimento: residuo lucore del fulmine, esaurita la sua carica di lumen. Un grido seguito da uno scroscio battente e un ticchettio insistito di grandine sui vetri mi lasciarono basito sulla soglia in compagnia della sola mia ombra furtiva nel ruolo di vittima designata del bluastro, elettrico baluginio della prossima saetta. Un refolo d’aria mimò una folata esterna spingendo la porta a gemere solidale sui cardini: un “hhhiiiiihh” di stupore spalancato che svelò la mia presenza vergognosa al pari di un sorriso sdentato se in luogo dei battenti ci fossero state le fauci. A quel punto avrei preferito giocare un ruolo, se non proprio di canino, perlomeno d’incisivo, anziché di molare solitario costretto a desistere, verbalizzandomi (nel senso di diventare verbo mollare, suo sinonimo) attraverso il raddoppio della “L” sulla seconda sillaba. Sentii affiorarmi un sorrisetto di compiacimento nel collegare mentalmente alcuni termini: “Verbo, nel senso di predicato verbale; prima comizi, adesso prediche, più in là, magari proclami, giuramenti e sentenze; andiam bene in quanto a esaltazioni e megalomanie!” Mi ritrovai sulla soglia di uno studio di produzione cinematografica: era in corso la registrazione di una fiction. La scena che vidi fu alquanto enigmatica e la momentanea interruzione della corrente elettrica la rese spettrale e inquietante: sulla sinistra si stagliava una coppia avvinghiata a scambiarsi un bacio appassionato. Sulla destra si era appena spalancata una porta sulla cui soglia si affacciava un personaggio corpulento, dall’espressione truce e dai tratti somatici sfacciatamente orientali, mongoli avrei supposto, tanto è vero che la mia mente evocò immediatamente la figura di Gengis Khan! Forse si trattava di un suo emissario postumo se non proprio della sua reincarnazione! Non riuscivo a distinguere l’oggetto che teneva in mano: una chiave, una bottiglia, un’arma, una siringa? Il contrasto tra le due metà della scena si acuiva man mano che riuscivo a mettere a fuoco i dettagli: la fanciulla teneva sollevata una gamba come stesse abbozzando un passo di danza o come fosse giunta alla meta dopo una breve rincorsa. Osservando il solo settore sinistro avrei potuto
immaginarmi dentro uno sketch pubblicitario dei Baci Perugina destinato alla ricorrenza di San Valentino, con gli Innamorati di Peynet nel ruolo di protagonisti. Sullo sfondo comparivano una pianta ornamentale sospesa al soffitto e una sfera di vetro sorretta da un trespolo: forse un acquario per pesci rossi. La minaccia incombeva, non potevo ignorarla! La presenza dei pesci m’induceva a non fiatare: “Acqua in bocca!” Il Ciak che irruppe agghiacciante per mano dell’assistente alla regia mi fece trasalire; a stento mi mantenni in posizione eretta: spettatore privilegiato, e ahimè rassegnato, ad assistere al prevalere del male sull’Amore. Un turbine d’ipotesi occupò la mia fantasia: quella di un padre-padrone che coglieva in fallo il seduttore della figlia; quella del secondino che si accingeva a condurre al patibolo il condannato dopo il commiato dall’amata; quella del marito rientrato anzitempo a smascherare gli amanti fedifraghi; quella dello chef di Chinatown che interrompeva l’idillio di due camerieri in orario di lavoro; quella dell’infermiere incaricato di un trattamento sanitario obbligatorio su persona vittima di disagio psichico. L’irruzione del flash di un fulmine mi consentì di riconoscere un dettaglio fino a quel momento inosservato: in alto sulla parete scorsi il profilo di una ruota dentata affiorare da una feritoia. Non ebbi il tempo di rendermi conto di quanto stava accadendo: il rombo dell’ultimo fulmine coincise con l’innescarsi del meccanismo segreto e l’immediato materializzarsi ai miei occhi dei suoi effetti. L’immagine successiva, apostrofata da un nuovo Ciak, mostrò l’esito di un perfetto Strike sullo sfondo di una pista da bowling. Gengis Khan giaceva esanime e agonizzante; rivoli di sangue fuoriuscivano dalle sue narici; i cocci del vaso, andato in frantumi nell’impatto contro il suo grugno, sparsi tutt’intorno; qua e là emergevano brandelli di fogliame, intrisi di terra e muco sanguinolento. Il marchingegno mimava le giostre medievali impiegate nei tornei cavallereschi, dove i concorrenti dovevano centrare con la lancia lo scudo impugnato da un fantoccio provvisto di braccio rotante, armato di una pesante sfera acuminata. Nel nostro caso il dispositivo s’innescava a distanza tramite un pulsante celato nella parete che la fanciulla aveva premuto con la punta del tacco imbastendo un passo di danza. Il Ciak finale esibiva l’ultimo espediente a effetto della regia: la sostituzione della pianta ornamentale con la copia di un celebre quadro di Caravaggio. Ai cocci di terraglia si sostituivano i frammenti degli strumenti musicali andati in pezzi per mano di un trionfante Cupido, dal riso tanto ammaliante quanto sprezzante, e impegnato a svelare al mondo intero il messaggio che coincideva con quello della puntata appena finita di girare: “Amor vincit omnia”. Il trillo del telefono mi destò. Mi sollevai dalla chaise longue mettendomi seduto di fronte al grande specchio. Ero nello studio “Fortebraccio & Stranamore”. Lo psicoterapeuta alle mie spalle, dinanzi alla finestra aperta, rivolgendosi alla collaboratrice, ma facendo sì che il messaggio, prima che a lei giungesse a me, disse: “Quest’ultimo sogno, che Pierre mi ha appena raccontato, testimonia di come sia ormai in grado di analizzare le situazioni più complesse e trovare le giuste soluzioni!”; Valentina, (che era la sua amante e che con il suo charme faceva innamorare tutti i pazienti maschi, me compreso) disse: “Ho fatto allora bene, Dottore, a compilare la parcella con il saldo dovuto dal signor Pierre!?” e così dicendo prese in mano la cornice che campeggiava sulla scrivania, aggiungendo: “La fermo qui, sul ripiano, sotto la cornice, non vorrei che con la finestra aperta prendesse il volo!” Osservai attentamente quanto vi era raffigurato: era il Ciak descritto nel sogno! Non faticai a riconoscermi nel Pierre avvinghiato a Valentina e a identificare il dottor Stranamore con Gengis Khan. In quel momento sentii una vocina sussurrarmi: “Dopo che hai tenuto la bocca chiusa con sua moglie e chiusi entrambi gli occhi sulle sue avances nei confronti di Valentina, nonostante l’avessi a poco a poco conquistata, adesso ti dà il benservito facendoti anche pagare un’esosa parcella! Che bastardo! Al tuo posto tenterei lo Strike: l’allineamento è perfetto! Lo Strike! Lo Strike!
Lo Strike!”, continuava a ripetermi ossessiva la voce. La cornice era davanti a me sulla scrivania. La parcella sollevava ritmicamente, sotto l’influsso della corrente d’aria proveniente dalla finestra, le due estremità cartacee, evocando la silhouette di un uccello intrappolato in una tagliola. Due pulsioni imperative si fecero strada in me, finendo col rafforzarsi a vicenda: l’una derivante dal percorso di cura che mi spingeva ad affrancarmi dalla schiavitù della malattia e a osteggiare ogni limitazione della libertà; la seconda, ahimè ancora succuba della malattia, mi esortava a obbedire alla voce. Quell’eroica sommatoria ebbe la meglio su qualsiasi remora, tant’è che in un baleno mi ritrovai affacciato alla finestra a urlare “Strike!” ridendo a crepapelle senza alcun pudore, mentre la sirena di un’ambulanza ululava minacciosa. Il foglietto della parcella volteggiava libero nell’aria, contrariamente al corpo del dottor Stranamore che precipitava pesantemente al suolo, vittima, ancora una volta, del carisma del professor Fortebraccio, di cui suo malgrado, non s’era mai liberato, nonostante si fosse a suo tempo sottoposto a un percorso psicoanalitico, com’è consuetudine per il battesimo in quella professione! Come non dare allora ragione a Freud e a Caravaggio: Eros è la chiave di tutto! Amor vincit omnia!




 
La casa e il nome di Subhaga Gaetano Failla (Massa Marittima, GR)


Subhaga Gaetano Failla è nato a Scalea (CS) nel 1955. Laureato in Sociologia a Urbino. Ha pubblicato saggistica sociologica in volume e su una rivista. Ha fatto parte di gruppi teatrali. Libri di racconti: Logorare i sandali (Aletti, 2002), Il coltello e il pane (Aletti, 2003), La signora Irma e le nuvole (Fara, 2007). Suoi testi sono presenti in numerose riviste e su Il Messaggero, in una trasmissione di Rai Radio 3, in e-book e siti online italiani ed esteri, e nelle antologie dei seguenti editori: Perrone, Azimut, Aletti, Morrone, Opposto.net, Historica. Ha pubblicato racconti con Delos Books sia in numerose antologie sia nella sua rivista «Writers Magazine Italia». Con Fara è presente nei seguenti volumi: 3x2 (con il racconto lungo Il seminario di Vinastra), Lo spirito della poesia, Storie e versi, Salvezza e impegno, Chi scrive ha fede?. Ha pubblicato sue poesie nelle antologie in lingua inglese, tradotte in francese e tedesco, Zen poems (Londra, 2002) e Haiku for lovers (Londra, 2003). Ha collaborato con la rivista «Orizzonti» e con la rivista inglese «Hazy moon». Collabora con la rivista «la Masnada» e con il litblog Letteratitudine. Vive a Massa Marittima (GR).

La casa, il nome, l'identità. Tutto in un circolo che sembra non trovare un inizio e una fine, una soluzione. Tutto in discussione, soprattutto nel turbinio di pensieri che si aggrappano ad accurate descrizioni delle strade di una mattina di Capodanno. La mente, i luoghi. I pensieri e il quotidiano. (Alessandra Pederzoli)



    La casa e il nome

   Otto e mezzo e già per strada. Nemmeno cinque ore di sonno. Le prime persone che incontro sono due giovani più o meno della mia età. Lei è una tipa carina e lui si vede che ci sa fare. Forse sono stati in giro tutta la notte, senza andare a letto. Hanno vestiti da veglione. Ballano adesso e sorridono, pochi passi di danza nella strada deserta, cingendosi il corpo sotto il sole del mattino. Capodanno. È una bella giornata ancora un po’ fredda, ma il cielo sereno promette una prossima  temperatura mite.
   Non è andata bene neanche in Francia. Lavoro finito dopo un anno. E ancora aspetto l’ultimo stipendio, se arriverà. Sono tornato a casa, qui, se qui è la mia casa. Ché adesso non so quasi neppure qual è il mio paese, se ne ho uno, e quale sia il mio nome, quello che all’inizio, ovvio, conoscevo bene, ma poi, dopo le tante volte che le voci francesi lo pronunciavano male, è diventato cento e più nomi diversi. E adesso mi è venuto questo strano dubbio sul nome, come una ubriacatura d’una specie di vino, diciamo così, d’altri mondi.
   Qualcuno pesca sul molo, qualche altro, dei pochi che si incontrano in giro, scambia auguri ad alta voce al telefonino. Due tipi imbacuccati, seduti su delle panche davanti a un cumulo spinoso in uno spiazzo all’ombra, sgusciano ricci marini con gesti rapidi e precisi. Da quanto tempo non mangio ricci. Cosa farò ora qui, ad abitare di nuovo con i miei genitori i quali mi guardano pensierosi, come se avessi addosso una luce opaca. Certo non posso permettermi, con l’aria che tira, una casa per conto mio. I pochi risparmi devo proteggerli come la formica della favola. Perché di fare la cicala proprio non è il momento. Ho ritrovato questo sole, e lì in Francia quanto mi mancava, e pure qualche amico ho ritrovato, tra quelli rimasti e qualcuno che è tornato come me senza né arte né parte.
   Mi intrufolo in un groviglio di stradine dove il sole tarda a giungere. Forse cerco un segnale, una traccia che mi dica “questo è il tuo posto, il luogo da cui sei partito”. Sento un profumo di latte bollito uscire da una casa, da un’altra proviene buona musica araba, in un’altra ancora urla una voce d’un film alla televisione. Un ragazzo magro con un giubbotto che lo stringe come un guscio, mi volta d’un tratto le spalle, mentre una nuvoletta di fumo s’innalza a sbuffi sulla sua testa. L’odore forte d’una canna mi fa capire quel gesto difensivo. Parla al telefonino e fuma a grandi boccate, e penso al suo mattino che si trasforma presto tra un tiro e l’altro.
   Non so se sono a casa, se  cioè  sono in un posto dove posso dire, ecco è la mia casa. E poi tante persone vengono qui, in questa città di mare del sud, in cerca d’un destino più fortunato. E loro hanno lasciato la casa. Vorrei bussare a qualche porta e chiedere, che so, a quelli che ascoltano musica araba ad alto volume: “Dov’è la tua casa?”. Forse la loro risposta mi aiuterebbe, perché adesso sono di nuovo senza lavoro, e per la prima volta mi viene questo dubbio, sulla casa, e perfino sul nome, che poi infine, sembra incredibile, si muore tutti, e addio lavoro, quello che c’è o c’era o non c’è mai stato, addio nome e casa, se mai abbiamo avuto davvero nomi e case.
   Poi mi alzo da una panchina di legno al sole, in uno slargo deserto e silenzioso, e rivedo alcuni manifestini sgualciti: “La strage è di Stato. Noi non dimentichiamo. 12/12/1969 – 12/12/2012. Pinelli assassinato”. C’è anche un disegno in bianco e nero d’un uomo che cade e di due mani che non si protendono in soccorso, ma spingono nel vuoto. E a proposito di Stato, tra poco si vota. E mi ricordo il mio professore di italiano, una brava persona, che ci diceva che dovevamo avere senso civico e scegliere con responsabilità e votare un nostro rappresentante al governo. Ma vorrei adesso dirgli, caro prof, io non so neanche se questo Stato è il mio Stato, quello che mi tratta come una specie di rifiuto da buttare o da mandar via lontano, ché non so quasi nemmeno se esisto veramente, senza lavoro e col nome che sembra svanirmi sulla testa come il fumo del ragazzo di prima, e mi ritrovo di nuovo con i genitori che mi pare d’essere un bambino, e davvero a volte mi tornano dentro delle storie infantili e certe paure improvvise che mi verrebbe voglia di mettermi a piangere addosso a mia madre.
   Osservo adesso gli spazzini impegnati a far sparire del tutto la festa di ieri, le bottiglie spaccate e i frammenti di vetro, i bicchierini di plastica, i pezzetti bruciacchiati di cartone, di colori vivaci, e quel che resta dei fuochi d’artificio e dei vari botti. Chissà cosa combinavano qui tanti secoli fa i greci e gli arabi quando festeggiavano l’inizio del nuovo anno. Non si muovevano di certo come macchine ammuffite tutte uguali in tutto il mondo, oppure come scimmie nervose che saltano e ballano davanti a un enorme schermo in piazza.
   Esco dall’ombra delle stradine, torno al sole. Ora è caldo e trovo una sedia di vimini in un piccolo cortile, vicino alla balconata sulla costa occidentale del promontorio. Ascolto gli uomini che passano, parlano nella mia vecchia lingua. I turisti sono già in camicia. Al centro del Mediterraneo, galleggiando su questo zatterone triangolare di terra e acqua, i turisti dimenticano per un po’ di tempo i geli e le ombre del nord.
   Sono ora circondato, nel giardinetto da me scelto per una nuova breve sosta, da larghi vasi con dentro banani, fichi d’India e altre piante grasse che resistono bene all’arsura di questa terra. Il mare è diventato più blu e il cielo si sta colorando d’un azzurro trasparente. Vedo accanto a me, su un tavolino di legno lisciato dalla salsedine, il libro che mi sono portato dietro senza aprirlo: La commedia umana di Saroyan. Chissà come mi è ricapitato in mano, dopo tanti anni, dopo averlo letto nella scuola media (e una lucertola va ora verso le piante, dentro una striscia di luce, in questo sole caldo di Capodanno). Ma forse lo so il perché, del libro di Saroyan che torna, come me che ritorno senza lavoro, e chissà dove sono e qual è il mio nome. La commedia umana, proprio il titolo giusto per questi miei giorni, che mi sembra di vivere in una specie di commedia, e faccio un sorriso un po’ storto. Per la tragedia non mi sembra il caso, talmente sono confuso.
   Arrivano profumi dai bar aperti, e sono anche profumi d’oriente, e le persone si baciano sulle guance di baci quasi inesistenti e si scambiano gli auguri di buon anno.
   E dovrei fare una telefonata d’auguri a Claudine – mandare solo un SMS mi sembra un po’ brutto. Davvero una bella situazione con Claudine, io qui e lei in Francia, con migliaia di chilometri che ci dividono. E va be’ che ci sono gli aerei, ma quelli pure costano, e a me tocca fare la formichina con i pochi risparmi raccolti. E come possiamo metterci insieme? Cosa faccio, le dico tu lavori e io vengo a stare da te a sbafo? Oppure, facciamo i disoccupati tutti e due qui in Sicilia e abitiamo con i miei genitori? Mah… E mi viene in mente di quando eravamo a letto a far l’amore e ancora certe parole in francese non le conoscevo proprio, e ridevamo forte, e ci provavo poi a ripetere le parole che lei mi insegnava sottovoce, e ridevamo ancora di più, e penso che anche ad avere una laurea in lingue, quelle parole non le impari durante gli studi, ché l’università, purtroppo dico io, non si frequenta a letto.
   Si sta bene qui, ad assopirsi tra le piante luminose di questo giardino, con la faccia rivolta al sole e il mare davanti. Potrei rimanere su questa sedia di vimini per sempre. Ma le persone per strada sono
ora numerose, e mi accorgo che a chiacchierare con me stesso e a vagare per la città, si è fatto tardi,  e devo affrettarmi verso casa. Forse non mi hanno neanche sentito uscire e mia madre sarà già in pensiero.

  Apro la porta, cerco di non far rumore. Ma non ce n’è bisogno. I miei genitori sono già svegli da chissà quanto tempo, e me ne accorgo subito dalle urla della tivù in cucina, e le finestre sono spalancate, e sembra quasi una casa in un mattino d’aprile o di maggio, con l’aria nuova che ti mette allegria e il sole ovunque nelle stanze.
   “Gesualdo, e dove sei stato, fuori così presto, che stanotte sei tornato alle quattro?” mi fa mia madre, con la voce d’una donna che è come in ansia per il proprio bambino che ha la febbre.
   “Niente, ma’. Due passi in giro. Guarda che bella giornata. Buon anno, ma’.”
   “Buon anno, Gesua’. E non ti preoccupare, che il Signore un altro lavoro te lo fa trovare.”
   Boh, penso, Gesù Cristo adesso si è messo a lavorare presso un ufficio di collocamento, di questi tempi. Ma non dico niente, perché mia madre mi vuole molto bene. E lei, mi sa, è più preoccupata di me, ma invece di confidarmi i suoi pensieri mi rassicura, e in questo ci somigliamo parecchio, e racconta la storia del Signore e di qualche Provvidenza vagante. 
   Dalla cucina esce mio padre. Mi sorride. Vado verso di lui per dargli gli auguri.


Cara mamma di Massimo Allegrezza (Senigallia, AN)

Massimo Allegrezza, 34 anni, nato a Senigallia. Ha vissuto e iniziato a lavorare come educatore a Senigallia. Nel 2005 si trasferisce a Bologna per studi universitari e inizia a lavorare come educatore anche a Bologna. Nel 2011, dopo la laurea in Culture e Diritti Umani, si trasferisce in Danimarca per un corso da Development Instructor completato con un progetto di sviluppo rurale in Angola di 11 mesi. Al rientro gli hanno chiesto di collaborare con la scuola come educatore per minori. Attualmente lavora a Faxe, nel sud della Danimarca. È venuto a conoscenza del concorso perché è membro dell'associazione “Non Andremo mai in Tv” di Bologna. Ha già fatto e si accinge a fare nuovamente una sorta di gemellaggio tra loro e il gruppo di studenti con cui verrà in vacanza studio in Italia.

Prosa semplice, spontanea e sincera, che racconta delle emozioni, delle piccole gioie e conquiste di una vita 'diversamente' vissuta. Da apprezzare per la leggerezza con cui viene affrontato un tema 'pesante' come quello dell'handicap. (Alessandro Chiarini)



Cara Mamma

Cara Mamma,

ti scrivo oggi che finalmente riesco a riposare un po'. No, aspetta, se uso “finalmente” potresti pensare che sono stanco di qualcosa o che non vedevo l'ora di riposarmi: non è così. “Finalmente” è solo perché ora ho la possibilità di raccontarti che meraviglia sia sta la mia ultima settimana.
Luigi si è presentato con una banda di pazzi che mi hanno fatto girare la testa, e ridere, e commuovere per quanto impegno ci hanno messo. Ci crederesti che mi hanno convinto a giocare a calcio, io che lo odio il calcio, che sono un fan del basket? Mamma, ho anche segnato il terzo dei cinque gol con cui la mia squadra a schiacciato gli avversari.
Luigi è arrivato di mattina presto martedì e mi ha detto che aveva una sorpresa. Ha messo quattro vestiti nella valigia mentre ancora mi stropicciavo gli occhi, ha caricato la batteria e siamo partiti. Non mi ha detto molto, ma appena ci siamo infilati in macchina, Antonio, Francesca e Marina ci hanno accolti. Sorrisi e cortesie, anche se non li avevo quasi mai visti prima.
Io non parlo molto in generale, lo sai, ma la timidezza mi frena ancora di più. Loro si raccontavano storie e cercavano di coinvolgermi, io bofonchiavo qualcosa. Luigi ha anche detto qualcosa sulla mia timidezza, ma adesso non mi ricordo.
Il paesaggio filava fuori dal finestrino e Luigi, come al solito, non guidava veloce, mi dava tutto il tempo di vederlo nei dettagli.
Lo sa che mi piace.
Non ho conosciuto il contadino che tentava di riparare il suo trattore in mezzo al campo, ma immagino le parolacce e forse anche una bestemmia all'incocciare contro il cofano sollevato, quando si rialzò per un attimo. Non ho parlato di certo con la ragazza sorridente dai capelli rossi che sedeva dietro quel signore molto distinto dell'Audi A8 [No, mamma, non sono diventato un esperto di auto, però lo è Antonio e mi ha detto che quella era proprio un'Audi A8].
In viaggio si conoscono un sacco di persone anche senza parlarci.
E a me, generalmente, piacciono tutte.
Siamo arrivati di pomeriggio. Ne sono sicuro perché il sole non era più così forte e soprattutto avevo una gran fame.
Non ho mai fame prima del tardo pomeriggio. E poi le vacanze fanno venire fame.
Ci siamo sistemati in camere separate. Antonio e Francesca se ne sono andati in una e io ho dormito con Luigi e Marina. Non è che non la conoscessi proprio Marina, me l'aveva presentata Luigi, ma non avevo molta confidenza. È stata comunque dolcissima e nell'aiutarmi non ha mai ecceduto nella confidenza o nella riservatezza.
Tu mi conosci, io sono uno che non ha grandi pretese. Alle volte, purtroppo, troppe necessità però.
Dire che ho imparato a nuotare forse è un po' eccessivo, ma Francesca, che è un'istruttrice di nuoto meravigliosa, ha perso un sacco di tempo per provare ad insegnarmi e, con buona pace di Antonio, devo dire che nuotare disteso con lei che mi sorreggeva è stata un'esperienza fantastica.
Abbiamo fatto la pista delle biglie. Alla fine ero troppo stanco per giocare e li ho guardati. Luigi ha vinto con la mia biglia di Gianni Bugno.
In fondo posso dire che ho contribuito anche io.

Non ti sto a raccontare le peripezie per mangiare. Trovare il cibo adatto, riuscire a mangiarlo senza combinare guai o trasformare il tutto in un circo. Mamma, dovevi vederli come si impegnavano!
Ad essere onesti li ho aiutati un sacco.
Come quando mi aiutavano nella doccia. Le ragazze erano imbarazzate più di me. Ho detto loro che non dovevano, che eravamo amici e che gli amici si aiutano. Hanno riso e forse capito.
Antonio e Luigi non si sono ingelositi affatto.
L'ultimo giorno il proprietario dell'albergo, che è stato davvero gentile, ha fatto una torta speciale per la nostra partenza.
La panna era senza zucchero.
Glielo ha detto di sicuro Luigi che a me piace così.
Era buonissima, credimi.
Ti spedisco anche qualche foto, ne abbiamo fatte a centinaia. Antonio è davvero un bravo fotografo.
Ti vengo a trovare presto. Mi raccomando, non dimenticarti le pasticche di sera. Ci penso sempre che forse dovrei telefonarti per ricordartelo.
Puoi dire al Signore, quando ci parli di sera, che io sto bene, e lo ringrazio.
Lui sa per cosa.
Un bacio grande

Tuo
R*****

P.S. Gentile Signora Norma, sono Luigi. Io e R***** abbiamo impiegato due pomeriggi per scriverle questa lettera, ma dentro c'è tutto quello che R***** voleva dirle.
Tutto.
Ci conosciamo ormai da così tanto, io e lui, che le sue parole saltano facilmente sulle mie labbra. Diciamo che molte le ho intuite. Alla fine ha letto ed approvato.
Chiaramente dalla sua sedia a rotelle non è riuscito a fare molte delle attività, ma non ci ha lasciato un attimo. Durante la partita di calcio, le confesso che due gol che ho fatto sono stati davvero merito suo.
La nuova sedia a rotelle elettrica, quella che lo sorregge meglio al collo, è davvero super, riusciva a non stancarsi mai prima di sera.
Al mare ci hanno dato una sedia speciale per lui.
Alle volte, quando mi guarda con quel suo modo silenzioso, quando mi segue con lo sguardo, quando immagina d'essere lì con noi a giocare, riesco quasi ad afferrare la sua voglia di rompere quella prigione in cui è chiuso.No, non si preoccupi, alla fine non l'abbiamo fatto disperare così tanto. Alla fine abbiamo imparato il suo modo dolcissimo di non farci sentire diversi.
Non si è quasi nemmeno arrabbiato.

Luigi Aiello  (Educatore Professionale)




Il bozzolo di Giovanna Bellavista (Rimini)

Giovanna Bellavista è nata il 16/11/1964 a Rimini, dove vive. Nubile. Attualmente fa la colf e ha sempre scritto per sé e per le persone amate.

Mi è sembrato molto bello ma purtroppo sfugge via alla fine; non ho capito il riferimento alla gravidanza. (Elisabetta Sala)


G “E tu?..” “io cosa? “ “cosa vuoi?” “essere felice” “non essere scontata, sai bene che non si può essere felici, se non per poco.. la felicità è cosa effimera..” “allora voglio star bene che è un po’ come essere felici, non trovi?” “Forse. Cosa vuol dire star bene per te?” “non so. Non essere costretti a pensare cose brutte.. non essere costretti a niente, una cosa così”

IL BOZZOLO

Il fatto è che fino a quando non ti capita non ci pensi proprio. Certo, tanti anni prima mio padre era morto di cancro (“di uno di quelli”.. o “di un malaccio” come continua a dire mia madre), ma la malattia era stata solo sua. Nostro era lo stupore, perché questa volta non stava accadendo al vicino di casa, nostra era la disperazione, nostra era l’impotenza nella tragica coscienza dell’inevitabile, ma la malattia era solo sua. Poi succede che un giorno, un giorno qualsiasi di quasi trent’anni dopo, ti svegli con i polsi doloranti e le mani gonfie e il giorno dopo scopri di avere le spalle perché ti fanno male al punto che non riesci ad alzarle per infilarti il maglione (io non avevo mai fatto caso alle mie spalle prima di allora se non per lavarle meccanicamente sotto la doccia o spalmarci la crema in qualche raro caso di vanità femminile) e poi le ginocchia e non vorresti mai sederti per evitare il doloroso atto di distenderle quando poi ti devi alzare. Alla fine era come svegliarsi ogni mattina dentro un gigantesco bidone dove qualcuno continuava a buttare cose dall’alto. Una volta sono fitte dappertutto, la volta dopo ti sembra di avere sulla schiena un sacco pieno di farina che non riesci a scrollarti di dosso e ti fa fare lunghi respiri a bocca aperta perché ti sembra che l’aria non arrivi fino in fondo, fino a dove deve arrivare nel suo percorso normale.. ci sono stati giorni in cui mi facevano male le mandibole al punto che preferivo non masticare. Esami, medicine, controlli. Poi il ricovero. E la malattia diventa tua. A schiena nuda seduta su un letto aspettando il dolore dell’ago che si infila e risucchia un liquido giallastro e poi aspettando ancora che qualcuno ti dica qualcosa e poi il sangue che viene mandato in laboratorio e pisciare in un barattolino (mai una volta che non sia riuscita a non bagnarmi le dita) e infine, tornare in stanza. Tre letti e il bagno in corridoio. Dormire o cercare di farlo assieme a persone che non conosci (“russerò? darò fastidio?”) essere in un posto che non è casa tua e non sapere perché. Poi l’ho saputo: Lupus eritematoso. Mi ha suonato come un lupo mannaro malato di rabbia (ma si può?..). Mi hanno operato asportandomi dei pezzi di tessuto polmonare e mi hanno infilato una gomma nella schiena che spurgava liquido purulento (e qui torniamo alla rabbia..) e mi dicevano “siamo stati fortunati, poteva andare molto peggio”. Siamo.. come se operando qualcuno venissero operati loro stessi, e la mia fortuna fosse anche la loro. Ma forse è così. Forse per chi fa questo genere di lavoro in maniera cosciente e non sempre distaccata, deve essere proprio così. Un giorno dopo l’altro e cominci ad ambientarti e i letti di fianco diventano persone e in ogni corsia se stai più di una settimana, sai tutto di tutti e viceversa. È una strana comunità, un bisbigliare sommesso sulle malattie degli altri, sui cari che vengono a farti visita, è una conoscenza occulta sui bisogni di ognuno, uno scambio di saluti anonimi e giusti doveri.. “vado al bar, serve qualcosa?..” il problema di uno diventa il problema di tutti.. “non dormi? hai sete?” e nasce una confidenza che solo una padella sotto al sedere ti può dare perché per chi è del mestiere è tutto normale, ma per tutti gli altri è una consapevolezza devastante. Siamo fatti così, di sangue, carne, liquidi schifosi, piscio e merda e siamo fortunati se tutto questo un bel giorno non degenera, si infetta e imputridisce fino a scioglierci in acqua immonda che puzza di fiori recisi andati a male. Così si finisce. Così finiremo tutti. Non si riesce a scampare alla morte. È l’unica certezza che ogni essere vivente ha, ma malgrado questo, viviamo con una sensazione di immortalità che ci accompagna fino a quando non ci capita qualcosa o almeno fino a quando la sofferenza ci rimpicciolisce al punto da farci sentire quello che siamo veramente. Niente. Nel mio reparto c’era una donna che urlava tutta la notte. Stava nell’unica stanza singola di tutta la corsia e ho scoperto che a meno che tu non sia in una clinica privata non è bello avere il bagno in camera tutto per sé, perché chi è ospite di quella camera, difficilmente può usarlo. Cercano di farti morire lontano dalla confusione di altre malattie e fanno in modo che gli altri, non assistano alla tua che si sta snaturando in agonia. Tutti proteggono tutti, o almeno ci provano. Ho sentito solo la sua voce, di notte soprattutto, quando gridava cose per me, per tutti, insensate. Non l’ho mai vista in faccia. Ho visto però la donna che la accudiva. Una persona strana, con degli occhiali spessi come fondi di bottiglia e i denti trascurati che faceva discorsi sul terrazzino del reparto, lei in camice bianco e io in pigiama e la sua voce aveva il tono di predizioni strane “… è nata con il parto cesareo, prima del tempo e morirà prima del tempo…” Aveva quarantaquattro anni. La donna malata intendo, non la sua badante. Non ho mai visto il suo viso, ma quello di suo marito sì. Gli ho parlato, o meglio, lui ha parlato. Eravamo sul solito terrazzino a fumare e ha incominciato lui proprio quando io, avendolo riconosciuto stavo per andarmene perché quando certe cose puoi permetterti di ignorale la fuga è più che lecita, ma lui incominciò a parlare, senza guardarmi in faccia, i gomiti appoggiati agli stessi mattoni color marroncino che in perfetta sintonia rivestivano sia il terrazzo che il balcone. “.. sono due anni, non ne posso più”. Non disse altro. Eravamo lì per fumare e lui sembrava respirare fumo e buttare fuori stanchezza. Sapeva che io sapevo. Decisi di non muovermi da lì perché improvvisamente mi sembrò crudele andarmene anche se per lui, io o nessuno su quel terrazzino di mattoni rossi non avrebbe fatto differenza.. Stavo lì. Ascoltavo il suo fumare. Non girò mai il suo volto verso il mio. La mattina dopo mi portarono a Riccione per togliere il drenaggio. Quando tornai, lei era morta. Quando me lo dissero avrei voluto piangere, ma non mi veniva, pensavo a lui che era per me l’odore di una sigaretta e a lei, che era una voce scombinata nella notte giallastra di una corsia di ospedale. Avevano un bimbo di otto anni. Poi un giorno succede qualcosa. Non ho più male. Da nessuna parte. Le mani sgonfie, il respiro pieno, ginocchia ossute che non hanno paura di niente. Sana. Mi sento sana come non mi sentivo più da tempo. Lo dico ai medici che passano in visita e loro rispondono che sono contenti, ma che non è ancora finita.. devo rimanere, ma non è più come prima. Uscirei a correre, ma devo stare lì, perché sono ancora “malata” ma adesso che il dolore mi da tregua, mi riscopro a vivere questa situazione in una maniera veramente diversa. Succede che fino a che hai male sei malata a tutti gli effetti e vuoi che tutto finisca il prima possibile, ma se il dolore viene sedato allora vivi in un limbo che è uno squarcio. Mi trascino consapevolmente avvolta in una malattia che non mi si palesa come una sposa dal velo strappato. In una specie di stato di grazia. Assente giustificata da un lavoro non sempre gratificante (ma ugualmente retribuito), da un rapporto disastroso fallito da tempo senza il coraggio di un’ammissione, esentata momentaneamente dal pensare di dovere prendere una inevitabile, dolorosissima decisione.. Mi sentivo al sicuro. Il mio letto era diventata la mia casa. Per questo ogni volta che mi cambiavano stanza, e lo facevano per me, per mettermi con persone magari più giovani, per me era un trauma. Ricordo che alla terza volta andai piangendo dalla infermiera chiedendo di non essere più spostata, perché ogni volta era un trasloco mentale, una fatica boia che andava ben al di là di un armadietto diverso. Erano persone nuove a fianco a me, un letto diverso, una posizione diversa con una luce diversa. Era un attacco alle mie abitudini perché in quel momento quella era diventata la mia vita, il mio quotidiano e le persone accanto a me anche se molto più anziane erano diventate le mie compagne e i loro parenti, un po’ i miei parenti. Stare in ospedale per me stava diventando come quando a casa pioveva. A casa la pioggia, quella forte,quella che sembra un temporale, ti costringe a chiudere le finestre che è come chiudere fuori tutto il resto del mondo. È un tempo bagnato che ti costringe all’inattività, ti incrocia le braccia al petto. E ti raccoglie.In un altro contesto qualcuno ha scritto: “è come smettere di correre per guardarsi i piedi..” Trovare rifugio nella patologia.

E la paura di morire si trasforma in paura di vivere.

“Se oltre la porta trovi sollievo, conforto, pace, assoluzione, inevitabile oltrepassarne la soglia e ignorare tutte le altre”. Sono passati tanti anni da quel periodo. Sono successe tante cose . Alcune belle, altre meno, come è giusto che sia . Come è per tutti. Ho preso le mie decisioni, alcune coraggiose, altre dettate dalla codardia, ma le ho prese. Uscire da quel limbo non è stato facile, per diverso tempo avrei ricucito quello strappo della mia vita con me dentro, ma naturalmente non era possibile. Dopo poco tempo mi ritrovai a vivere sola (questo faceva parte delle mie decisioni) e la notte mi svegliavo sentendomi chiamare. Una voce decisa che diceva con fermezza il mio nome. Giovanna!

Mi sentivo rimproverata, con la sensazione di avere fatto qualcosa di sbagliato, di molto sbagliato e mi sedevo sul letto schiacciata dalla paura e da un senso di colpa che non riuscivo a decifrare come se avessi la consapevolezza di stare facendo qualcosa di male senza sapere cosa e a chi. Lo stavo facendo a me, ma ancora non lo avevo capito. Ci vuole tempo per certe cose. Ci vuole tempo per guardarsi intorno con la volontà di vedere e capire così che non siamo solo un corpo destinato a marcire, ma molto, molto di più. Ci vuole tempo per capire che una gravidanza è uno stato di grazia, non il Lupus o qualsiasi altra malattia, o problema fisico e che bisogna combatterli o quantomeno conviverci senza mai lasciarsi avviluppare.

Mi ci è voluto tempo per capire che il mio bozzolo è la mia famiglia. La famiglia. Siamo così disabituati a pronunciare questa parola che quando la sentiamo ci viene da pensare alla mafia. Siamo così presi da un quotidiano frenetico, spesso difficile che diamo per scontato che la nostra famiglia, nel bene o nel male ci sia. Non è così. Non sempre. Io sono stata fortunata. Un padre che mi ha lasciato a distanza di tanti anni dalla sua dipartita un vuoto incolmabile, una madre che con un carattere che te lo raccomando, ma che è sempre presente e ha dei momenti che lei neanche sa che mi fanno venire le lacrime agli occhi e ho delle sorelle, un fratello, che con i fatti, mi hanno fatto capire che sono lì. Sempre. E se capisci questo, capisci che non sei sola, non lo sarai mai. E non c’è bisogno che piova a dirotto per sentirti al sicuro.

Il mio bozzolo è la famiglia, e tutte le persone leali che ho incontrato nel mio cammino

E la seta può diventare acciaio.


Caffè per due di Sandro Serreri (Tempio Pausania, OT)


Sandro Serreri, nato a Massa Marittima (GR) il 01.10.1963, vive e lavora in Gallura. Mail: sandroserreri@libero.it

L'autore è talmente bravo a scrivere che eccede in virtuosismi che fanno perdere ritmo al racconto. Se non fosse per questo l'abilità di scrittura l'avrebbe reso primo rispetto a tutti gli altri racconti. (Daniela Mena)



Caffè per due

Ci sembrò un incontro casuale, ma non lo fu affatto, niente affatto. Anzi, il destino bussò, quasi sistematicamente, e si fece aprire la piccola porta laterale, quella che, solitamente, non aprivo mai, neppure quando era necessario un soccorso immediato.
Se non ricordo male, fu tra la prima e la seconda, ma anzi, adesso che ci penso meglio, forse, fu subito dopo la terza, girato l’angolo, proprio quello che sfioravo tutte le mattine, ancor prima dell’alba, sorprendendo il mattino e, qualche volta, persino me stesso, anche se da tanto tempo non ero più solito meravigliarmi né dell’odore del latte bollente né del pane abbrustolito.
Avevo appena incrociato il ragazzo del giornale quotidiano, precedendolo nel suo lancio olimpionico, e lo avevo salutato, come tutti i giorni, tranne la domenica, con i versi di Romeo alla sua Giulietta, perché sapevo, lo sapevo molto bene, era il nostro patto segreto, che poi li avrebbe recitati alla sua ragazza alla quale dava appuntamento nel piccolo parco, superata la quarta, quello dove persino in pieno inverno era possibile cogliere qualche piccola rosa bianca e incredibilmente odorosa.
Tenevo sotto l’ascella la pagnotta che il vecchio fornaio della settima mi metteva da parte facendomela trovare sempre fumante. Questa, mi faceva ricordare quando, bambino, venivo inviato da mia madre dalla nonna che, nel cortiletto, chi lo avrebbe mai detto? dietro la sua piccola casa, mi attendeva con la sua appena sfornata. Tornavo indietro di corsa e arrivavo col fiatone, ma felice.
Camminavo con la mia camminata da vecchio adolescente, un po’ timida e un po’ impacciata, la stessa, in fondo, dai tempi del Liceo. Unica differenza, ovviamente: l’andatura. Avanzavo, come sempre, guardando e osservando tutto e tutti. Era, questo, uno dei miei divertimenti preferiti. Sì, mi divertivo, soprattutto, a leggere negli occhi della gente quel che c’era ancora dentro della notte trascorsa e quel che di nuovo stavano iniziando a mettere dentro. Le mie erano occhiate furtive, ora qua ora là, quasi da spia, perché non volevo mettere nessuno in imbarazzo o, meglio, a nudo. Eh sì! c’era sempre questo rischio.
Le mie scarpe producevano un non fastidioso cigolio fatto di cuoio e di gomma, perché le avevo fatte risuolare già due volte, ma che potevo farci? mi ero affezionato. Come stramavo il cardigan blu notte che, quel giorno, come tutti gli altri giorni di fine inverno, portavo addosso anche se, e non c’era affatto bisogno che gli amici e i colleghi me lo facessero notare perché lo sapevo benissimo, era ormai quasi passato di moda. Ma, che potevo farci? Dopo tutto, ero stato sempre così da quando mi abituai presto ad indossare quello che aveva indossato, per qualche mese o per un anno, per primo il mio fratello maggiore.
Ecco, la mia camminata, il mio modo di incedere sui marciapiedi, tra la gente, il mio abbigliamento, la pagnotta sotto l’ascella alla francese, le mani nelle tasche, lo sguardo azzurro tra il sogno e il sociologico, il sorriso non ironico, tutto era appropriato alla icona che ormai, volente o nolente, i più mi avevo cucito addosso e che, in alcune interviste rilasciate ad amici giornalisti, avevo provato inutilmente a demolire o, meglio, a correggere e aggiornare, non fosse altro perché io ero molto di più di quella pur bella immagine. Ma, ormai, quella era e quella dovevo portarmi dietro, come i miei capelli o la mia pelle.
Notai, chi sa, poi, perché, che l’orologio meccanico al polso s’era fermato. Eppure, come tutte le mattine, gli avevo dato quindici giri di corda, né uno in più né uno in meno. Accostandolo all’orecchio sinistro non sentii nessun ticchettio. Si era fermato alle 7.27, ma chi sa, poi, se in quel preciso momento erano ancora le 7.27. Quanti minuti erano passati dalla scoperta? Non potevo saperlo, se non domandandolo a qualche passante, ma, non so per quale bizzarra e fuori luogo forma di riservatezza, non volli chiederlo a nessuno. Decisi, per questo, di non ridargli la carica. Il mio orologio taceva, come tacevano, lo sentivo benissimo, alcune di quelle voci interiori che si mettevano sempre a farfugliare tra di loro non appena mettevo piede fuori dalla soglia di casa. Il che voleva dire, tutti i giorni. Il loro mutismo mi suonò molto, molto inusuale visto che, in parte, erano queste ad alimentare la maggior parte della mia produzione. Ci feci caso e attenzione dopo aver ascoltato il riposo degli ingranaggi del mio vecchio orologio. Era stato l’ultimo regalo del nonno materno prima che mi lasciasse, all’inizio del Liceo, per andare via, lontano, e per sempre. La sua morte improvvisa mi addolorò per tutta la durata di quell’anno pur ricchissimo di novità e di eventi. Sulla cassa d’oro le sue iniziali.
Ecco, devo confessare anche questo, devo, è necessario e utilissimo: nessuno e niente al mondo poteva e doveva togliermi quella mia passeggiata mattutina. Sì, certo, la scusa era il ritiro della pagnotta dal fornaio, ma la verità era un’altra, questa: dopo la notte, il sonno, il riposo, che filosoficamente consideravo inutili, anzi dannosissimi alla vita degli uomini, mi tuffavo, senza perdere altro tempo, dentro il giorno, la luce, il lavoro, le altre vite, i luoghi, gli spazi, le impressioni, il sentire, il respirare confusamente tutti gli altri respiri e battiti di tutti gli altri viventi come me. Avevo sempre un gran bisogno di sentirmi vivo e attivo, in movimento. Odiavo, per questo, tutte quelle forme di coma come il riposo durante una vacanza. So che questo mio aspetto adrenalinico piaceva moltissimo ai miei figli, ma, purtroppo, molto, decisamente molto meno ai miei colleghi e collaboratori. Ma a me, francamente, poco importava.
Avevo così ormai svoltato l’angolo quando qualcuno mi urtò. La pagnotta cadde producendo un suono ovattato e quasi impercettibile. Era una donna. Ed io mi svegliai, quasi del tutto, dai miei sogni e pensieri e piaceri. Mi chinai meccanicamente e rapidamente e raccolsi la pagnotta. Poi, la vidi, finalmente. Era lei, bellissima, come, del resto, era sempre stata. Il suo sorriso era l’esatta riproduzione di quello del mio primo figlio. Gli occhi, poi, erano gli stessi che mi avevano stregato sin dal primo giorno di Liceo tanto che, cacciato un compagno mezzo tonto, mi misi seduto dietro di lei, alla sua sinistra. Il suo profilo lo sognavo tutte, ma proprio tutte le notti. Forse, fu anche per questo che da quel giorno sentii il bisogno irrefrenabile e febbrile di scrivere versi e di farglieli trovare tra i suoi quaderni e libri. Le labbra strano, ma, le ricordavo più carnose. I capelli raccolti a coda di cavallo le conferivano ancora un aspetto da ragazzina nonostante gli anni trascorsi. Quando me li faceva accarezzare, ebbene, impazzivo di piacere.
Tutto attorno a noi, così ebbi questa impressione, continuò a muoversi, ma anche ad osservarci. Dentro di me un misto di sorpresa e di piacere.
“Ciao!”, mi disse, semplicemente. “Ciao!”, risposi, semplicemente, e la baciai timidamente sulla guancia destra e non so perché. Lei, come imbarazzata da quel mio gesto non atteso, mi sorrise, però senza guardarmi. “Bella giornata!”, gli dissi guardandomi intorno. “Sì, bella giornata!”, mi rispose fissandomi. Eravamo come due estranei, ma io ero il padre del suoi tre figli e lei era la madre dei miei tre bambini. Eravamo sullo stesso marciapiede dove lei, qualche anno fa, mi aveva lasciato dandomi un bacio ed una carezza. Allontanandosi non si era voltata ed io per quasi un mese sognai la certezza che lei fosse morta.
“Dove vai?”, mi domandò. “Da nessuna parte! E tu?”, risposi. “Da nessuna parte!”. Allora, facemmo pochi passi ed entrammo dentro la vicina caffetteria, la stessa dove c’eravamo dati il primo appuntamento e, sorseggiando una cioccolata bollente, c’eravamo a lungo accarezzati le mani. Sedendoci, tra l’altro, nello stesso tavolino, senza dire una parola e osservando l’ambiente, poi, scoppiammo a ridere, perché nulla di quello che stavamo facendo era casuale. Lo sentivo e lo sapevo, lo sentiva e lo sapeva anche lei. Casuale? Non poteva essere casuale.
Avevo scritto quell’incontro, quella atmosfera, quel quasi piacevolissimo stordimento, centinaia di volte, e non per me, ma per i miei lettori. Ora, lo stavo vivendo e non sapevo se sarebbe durato o si sarebbe spento subito o presto. Ma, dopo tutto, che importanza poteva avere? Nessuna!
Lei, quindi, distese le sue mani sul tavolino. Portava ancora la fede, la nostra fede. Le presi tra le mie mani e il contatto con la sua pelle fu elettrico e profumato.
“Signori, prego?”. “Caffè per due, grazie!”.

Tempio Pausania, martedì-mercoledì 26-27 febbraio 2013

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