lunedì 29 luglio 2013

Il mondo in un condominio e nel suo ascensore: su Elevator di Lucia Grassiccia

Elevator, Prospero Editore, ebook, 2013
 

recensione di Subhaga Gaetano Failla
 Ho conosciuto Lucia Grassiccia a Fonte Avellana, a giugno, durante la kermesse letteraria Scrittura felice, organizzata da Fara Editore. Il suo brano narrativo, intitolato Un cin cin alla cen censura (dedicato a Ciprì e Maresco), mi aveva particolarmente colpito. Nonostante io sia ormai ben consapevole dell’imponderabile essenza dell’arte – astorica e oltre qualsiasi caratterizzazione sociologica – rimango ogni volta sorpreso quando incontro importanti opere di giovani artisti. La mente ragionieristica calcola quei pochi lustri di vita dell’autore, i pochi anni di attività nel campo artistico e ne trae come risultato l’immaturità dell’opera. Poi però si rimane smarriti di fronte alla sorprendente bellezza creativa d’uno di questi giovani autori. Tuttavia dovremmo saperlo infine: la bellezza non ha né tempo né spazio.

Lucia Grassiccia, nata a Modica (RG) nel 1986, specializzanda in arteterapia clinica a Milano, ha pubblicato un paio di settimane fa in ebook il suo primo romanzo intitolato Elevator (Prospero Editore), e sembra che la sua opera scaturisca da un retroterra strutturato in molti anni d’esperienza, talmente nel suo libro vi sia fluidità di scrittura, ritmo e armonia. Elevator è un romanzo sull’identità (individuale/collettiva) frantumata e perduta. I personaggi non hanno nomi, o meglio, hanno nomi piuttosto indefiniti che ruotano intorno a un dettaglio fisico: L’uomo coi baffi tagliati male, La vedova dai baffetti biondi, Il ragazzino senza baffi, ecc. Sono persone (maschere) che vivono una inconsapevole vita teatrale, sul palcoscenico d’un condominio – assurdo alveare umano caratterizzato da una unione fisica, quella che lega le persone attraverso i muri degli appartamenti, e al contempo da un distacco, quello delle stesse pareti che separano e delle psicologie che si autopercepiscono come isole e non come porzioni d’un vasto arcipelago. E paradossalmente, l’unica apparizione umana del romanzo che ha un nome definito, Jenny delle Spelonche, è davvero un personaggio teatrale, la prostituta di Brecht il cui ruolo si sta preparando a interpretare La donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili).
Elevator ha una scrittura lieve, umoristica e surreale, alla Queneau mi verrebbe da dire, ma anche filosofica e tragica, dove l’attenzione al dettaglio, alla minuzia, alla psicologia di uomini e persino di cose è calibrata con perizia e precisione. Elevator è inoltre un discorso sulla coscienza (“un’invenzione convincente, più o meno come la televisione o la farina”), sulla sospensione del giudizio (“Cosa succederebbe se il dubbio fosse l’unica cosa certa?”), ed è anche, quasi in risonanza con Il Cantico dei Cantici, un’ode all’Amore e all’Amato: “L’Amante si spalma sul corpo dell’Amato, si fonde per occultare i suoi Pori”. Lucia Grassiccia ha uno sguardo da entomologo, un’osservazione tuttavia compassionevole sulla natura divina degli insetti umani, illuminati da un fascio di luce che svela il caleidoscopio del mondo-condominio, attraverso spostamenti di prospettiva, nella narrazione dalla terza alla prima persona; memorabile in quest’ultimo caso il monologo d’un neonato, soffuso di profondissima nostalgia di fusione. E giungiamo alla figura centrale di Elevator, L’uomo dell’ascensore, un personaggio che per troppo amore – e qui ci esprimiamo per paradossi, perché l’amore non può mai essere troppo – e molta sofferenza vive nell’ascensore del condominio. È il fulcro attorno al quale si aggirano gli umani smarriti del romanzo, una sorta di coscienza incerta: “Ha fatto in modo che l’ascensore diventasse la sua casa perché forse può aiutarli, lui forse può, lo crede intimamente.”, “la sua casa li attraversa tutti i loro bei piani, ma questo non è sufficiente.” Vi è un mondo in Elevator, dicevamo, e come tale inesauribile, non esauribile tantomeno con una descrizione o un’analisi. Vi è ancora in questo romanzo un canto alla notte e una riflessione sul dolore, e l’invito alla ricostruzione della comunità disintegrata mediante la “memoria della vicinanza”, nella speranza di restare indenni nel percorso oltre i mille riflessi di specchio infranto: “Chissà se sarò in grado di districarmi in questa moltiplicazione di finte” dice La donna senza baffi (ma se li avesse sarebbero impeccabili), a proposito della sua interpretazione della prostituta brechtiana. Grassiccia, alla ricerca della propria voce, abbandona il barocchismo lussureggiante dei siciliani tra Novecento e nuovo secolo (D’Arrigo, Bufalino, Bonaviri, Consolo) rintracciabile anche, in residui più vaghi, tra gli autori siciliani più recenti (Alaymo, Ranno, Maugeri, Lo Iacono), ma forse di quella impronta isolana rimane in lei, in metamorfosi, la radice pirandelliana delle “maschere nude”. In questo importante romanzo, da leggere e rileggere, vi è dunque un mondo caotico, indisciplinato e indefinibile, e nel suo tessuto narrativo scopriamo l’antico anelito alla ricomposizione, dal Caos al Cosmos, dalla separazione dell’Io illusorio all’essenza dell’Uno. Questa aspirazione tuttavia non sollecita uno spostamento, anch’esso illusorio, da una dimensione all’altra, poiché “in ogni caos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto.” (C.G. Jung)

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