giovedì 29 aprile 2010

Fratelli amatevi gli uni gli altri

Omelia del giorno 2 Maggio 2010
V Domenica di Pasqua (Anno C)

Credo sia bello ricordare a tutti i miei cari lettori, che con me seguono Gesù, guidati dalla Sua Parola, che il mese di Maggio si veste della dolcezza della devozione a Maria SS.ma, la Mamma che Gesù ci ha dato. Tutti ne sentiamo il fascino. Basta essere a Lourdes o Fatima in un pellegrinaggio, per commuoversi nel vedere come ci si affidi a Lei, tutti, a cominciare dai nostri fratelli infermi.
È davvero una grande commozione, non solo, ma è come se ci aprisse il cuore al desiderio del Cielo.
E tanti di noi portano con sé il S. Rosario, come compagnia della vita, contemplando la vita di Gesù e di Maria ogni giorno.
Nella grande processione della sera, con le lampade accese, al canto andrò a vederla un dì
nasce davvero il desiderio di uscire dalla tristezza della nostra ferialità, per andare con Lei nella gioia senza fine del Cielo. Nostalgia di Mamma.
Non lasciamola cadere nel vuoto questa nostalgia, ma conserviamola.
Così come è rassicurante scoprire che lì ci sentiamo 'una cosa sola' e ci si ama tanto, uniti dallo stesso amore a Dio e a Maria SS.ma. Ed è l'atteggiamento a cui ci esorta il Vangelo di oggi:

"Quando Giuda fu uscito dal cenacolo Gesù disse: – Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in Lui."

Se Dio è stato glorificato in Lui, anche Dio Lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Fratelli, ancora un poco sono con voi. VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO, CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI, COME IO VI HO AMATO, COSÌ AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI. DA QUESTO SAPRANNO CHE SIETE MIEI DISCEPOLI, SE AVRETE AMORE GLI UNI PER GLI ALTRI". (Gv 13,31-35)

È il grande testamento che Gesù ha consegnato alla Chiesa; il comandamento che distingue il cristiano dal mondo dominato dalla superbia, che porta non solo a isolarci in noi stessi, a essere indifferenti verso chi ci sta vicino, come non esistesse, ma anche a fargli del male, per prevalere su di lui. E in questi modi non solo è come se si cancellasse la presenza del fratello, ma si rischia di cancellare l'amore di Dio.
La sentiamo tutti questa tristezza di vivere in una famiglia, in una società, come non vivessimo... quando per natura siamo portati a riconoscerci e fare dono del nostro amore sempre. È la grande tristezza del nostro tempo, così come vivere, sapendo di trovare in tutti amici pronti ad offrire, è dare alla vita quella gioia che è 'pane della vita'.
La scorsa domenica, se ricordate, Gesù, parlando soprattutto di noi sacerdoti, ma potremmo dire la stessa cosa di una mamma, di un papà, dei nonni, e di chi ha responsabilità. Portava l'esempio del buon pastore, che vigila con amore sul gregge, al punto che se una 'pecorella' si perde, non esita a mettersi alla ricerca, finchè la ritrova. E ritrovatala se la mette sulle spalle e invita a fare festa.
Così dovrebbe essere per tutti noi, qualunque sia il ruolo che copriamo, nei confronti di ogni nostro fratello. Ciò che fa strada nel cuore di tutti è l'amore che si dona. Come è stato per noi l'amore di mamma, papà, dei nostri sacerdoti, insegnanti, tutti.
C'era un tempo, di povertà, in cui regnava solidarietà, amicizia, aiuto vicendevole, ma molto di questi valori, sembra spazzato via dall'egoismo del benessere che, per fare posto nel cure a cose senza vita, non fa più posto all'amore. Peccato, perché ne soffriamo tutti.
Rimane lì, come regola fondamentale, il richiamo urgente di Gesù:

'AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI, COME IO HO AMATO VOI".

Così Paolo VI rivolgeva un giorno le sue esortazioni, parlando in un 'oratorio':

«Grande voi lo sapete è la vostra missione - parlando ai sacerdoti. Voi avete la custodia del campo pastorale, più bello, più delicata, i giovani. Voi esercitate la funzione più assidua, più umana, più feconda del sacro ministero, quella pedagogica. Voi siete in contatto più continuo e più diretto con anime di cui potete avere tutta la filiale confidenza, la completa fiducia. Voi potete indovinare nell'istintiva sensibilità delle anime giovanili i problemi vivi e nuovi del nostro nuovo mondo moderno. Voi potete dare alla professione cristiana, nel cuore delle crescenti generazioni, un'espressione nuova, forte, autentica. Voi avete in mano l'avvenire delle famiglie, della parrocchia, della società. Potete fare del vostro ministero una palestra di esperienze spirituali, una rete di amicizie, un sacrificio giocondo. Voi siete Gesù fanciullo, Gesù adolescente, Gesù operaio, Gesù maestro, Gesù modello in mezzo alla nostra gente e alla gioventù.
Questo lo sapete. E sapete quanto la Chiesa attende da voi, energia mai stanca, letizia pura, lavoro indefesso, paziente, senza gloria e pieno di meriti.
Coraggio, quindi, mettete riflessione, mettete impegno, impegno, impegno.»

Una delle mie preoccupazioni pastorali, sia come parroco nel Belice, sia come vescovo, era quella di amare con tutte le forze, non badando alle difficoltà, chi il Signore mi consegnava da amare.
Tanto che un giorno, ai fedeli che si chiedevano la ragione di quanto facevo, durante una Messa festiva, sentii il bisogno di esplicitarla: 'Tutto quello che faccio ha una sola ragione, quella di amarvi con tutte le forze, perché so che per noi sacerdoti, e potrei dire per tutti, per ciascuno di voi, il sale della gioia è l'amore'. Era come se avessi dato sfogo al cuore e mi venne da piangere, tanto che, non riuscendo a frenarmi, mi riaccompagnarono nella mia baracca.
Lo stesso mi fu chiesto da vescovo. Vedendomi impegnato con tutte le forze su tutti i fronti, compresa la guerra alla malavita, tanti si chiedevano la ragione: 'E' solo perché so che il cuore della gente si lascia condurre dall'amore e per noi pastori amare con tutte le forze, in nome e con la grazia di Dio, come fece Gesù, è la sola strada da percorrere'.
E non c'è opera più grande nelle famiglie, nelle parrocchie, nella società, che l'amore dato.
Così come nella Chiesa è il compito primario nella costruzione della comunità, come è descritto negli Atti degli Apostoli:

"Molti ascoltavano con assiduità l'insegnamento degli Apostoli, vivevano insieme fraternamente, partecipavano alla mensa del Signore e pregavano insieme. Dio faceva molti miracoli e prodigi per mezzo degli Apostoli. Tutti i credenti vivevano insieme e mettevano in comune tutto quello che possedevano. Lodavano Dio ed erano ben visti da tutta la gente. Di giorno in giorno il Signore faceva crescere il numero di quelli che giungevano alla salvezza." (At 2,42-46)

Paolo VI, reduce da un Congresso eucaristico, tenuto a Bombey, così proclamava l'urgenza del vivere come fratelli in comunità:

«Il progresso civile viene scoprendo come esigenza, come conquista, ciò che Cristo, fattosi uomo come noi e nostro Maestro, già .,ci aveva insegnato dalle pagine, ma non pienamente comprese, non ancora universalmente applicate, del Suo Vangelo: 'Voi siete tutti fratelli', cioè uguali, solidali, cioè obbligati a riconoscere che in ciascuno di voi è riflessa l'immagine dello stesso Padre celeste... Oggi la fratellanza si impone, l'amicizia è il principio di ogni moderna convivenza umana.
Invece dí vedere nel nostro simile l'estraneo, il rivale, l'antipatico, l'avversario, il nemico, dobbiamo abituarci a vedere l'uomo, che vuoi dire un essere pari al nostro, degno di rispetto, stima, assistenza, amore, come a noi stessi.
Ritorna a risuonare nel nostro spirito la stupenda parola di un santo dottore africano: 'che i confini dell'amico sì allarghino'. Bisogna che cadano le barriere dell'egoismo e che l'affermazione di legittimi interessi personali non sia mai offesa per gli altri.»

Si dovrebbe a questo punto pregare e sognare che avvenga oggi quanto Giovanni l'apostolo scrive nell'Apocalisse: "Ecco la dimora di Dio tra gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo, ed egli sarà Dio-con-loro' e tergerà ogni lacrima dai loro occhi". (Apocalisse 21,1-5) Ogni volta scrivo le riflessioni sul Vangelo, che poi arrivano a voi, ciò che mi anima e mi accompagna è il grande amore che vuole solo trasmettere Amore, quello di Dio, in modo che non vi sentiate soli. E i tanti 'grazie', che poi mi arrivano dalle vostre e-mail, sono un racconto di amicizia. Grazie a voi!
E con don Tonino Bello, prego che non siate mai vittime della solitudine, invocando la Madonna così: "Mettiti accanto a noi e ascoltaci, mentre confidiamo le nostre ansie quotidiane, che assillano la nostra vita moderna: la paura di non farcela, la solitudine interiore, l'instabilità degli affetti, l'educazione difficile dei figli, l'incomunicabilità persino con i più cari.
Ritorna, Maria, in mezzo a noi, e offri l'edizione aggiornata di quelle grandi virtù umane, che ti hanno resa grande agli occhi di Dio."


Antonio Riboldi – Vescovo

Internet: www.vescovoriboldi.it

email: riboldi@tin.it


mercoledì 28 aprile 2010

LA VOCE DI GWEN

L'unico programma di diffusione della poesia (ma non solo) in una Web-radio svizzera.



Dagli studi di Radio Gwendalyn (o più familiarmente Radio Gwen) di Chiasso, ogni Lunedi dalle ore 20.00 un'ora è dedicata alla diffusione della poesia in lingua italiana.


Si ascolta solo in Svizzera?
no, si ascolta via Web ovunque, collegandosi al sito www.radiogwen.ch (ed ora è on-line il sito totalmente rinnovato)



Il format prevede una prima parte, "La voce di Gwen",  dedicata ad una voce della poesia contemporanea con letture di testi alternati ad un percorso esplicativo sulla poetica dell'autore affrontato.

Seguono le rubriche "A parer nostro", consigli di libri di narrativa scelti dalla redazione e "A me gli occhi", consigli di libri di poesia per voce di svariate librerie del Cantone Ticino, interpellate appositamente.



Quando possibile, LA VOCE DI GWEN lascia lo studio e registra dal vivo, come è stato con Alberto Nessi o per la prima presentazione mondiale del nuovo libro di Laura Pariani "Milano è una selva oscura" uscito nel 2010 per Einaudi.



Ogni puntata è poi riascoltabile nella sezione Podcast ed ascoltabile ovunque, con disponibile una breve scheda informativa dell'autore, tutti i  libri affrontati, la tracklist completa dei brani musicali che accompagnano l'emissione e con i link attivi per una immediata lettura o ascolto per andare oltre oltre il confine della puntata. 



LA VOCE DI GWEN è la prima Web-radio  della svizzera italiana entrata a far parte della associazione ASROC (Association Suisse des Radios Online et du Cable  http://www.asroc.ch/site/index.php/home ) ed è l'unico programma di diffusione della poesia in una Web-radio svizzera



Ideatore e conduttore del format è Fabiano Alborghetti www.fabianoalborghetti.ch  poeta, critico e organizzatore di eventi culturali,

Co-conduttore è  Raffaele Sanna che firma la scelta degli intermezzi musicali nonchè dei volumi di narrativa presentati.



LA VOCE DI GWEN:
la poesia, in radio, come non l'avete mai ascoltata.

redazione@radiogwen.ch

contact@fabianoalborghetti.ch

www.radiogwen.ch


per chi ha uno spazio web, è gradito l'inserimento nei Link come "La voce di Gwen"

lunedì 26 aprile 2010

Cinzia Demi in tournée a maggio

Cari amici, il mese di maggio mi vedrà protagonista di vari eventi che ho il piacere di cominciare a segnalarvi, sperando di farvi cosa gradita e invitandovi se possibile a partecipare.
Ringraziandovi per la vostra preziosa attenzione.
Cinzia Demi
Tutte le notizie si trovano anche sul sito: www.passionepoesia.blogspot.com
 

LICEO GIOSUE’ CARDUCCI
VIA DELLA PACE 27, 29 – PIOMBINO (LI)

MERCOLEDI’ 5 MAGGIO 2010 - ORE 11.00
CINZIA DEMI INCONTRA GLI STUDENTI DEL LICEO PER PARLARE DEL SUO LIBRO DI POESIE “IL TRATTO CHE CI UNISCE” (EDIZIONI PROVA D’AUTORE) PRESENTAZIONE A CURA DEL PROF. FABIO CANESSA



Cinzia Demi è nata a Piombino (LI), lavora e vive a Bologna. È operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. È fra i collaboratori della rivista nazionale di poesia e letteratura «ClanDestino». Fa parte del gruppo Poetico il “Laboratorio di Parole” per il quale cura le relazioni esterne e dirige la rivista bimestrale «Parole», e per il quale ha curato l’uscita della prima antologia dei Poeti, per la casa editrice Pendragon. Organizza scambi culturali e gemellaggi in varie località d’Italia. Cura la regia di eventi di poesia e arte varia. Nel 2007 pubblica il libro Incontriamoci all’Inferno, parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia (Pendragon, prefazione di Gianfranco Lauretano) - ristampa 2010 -. Diffonde la conoscenza del Poema tramite incarichi per progetti scolastici (scuole medie di primo e secondo grado), conferenze e drammatizzazione dei testi in varie realtà istituzionali d’Italia. Un suo saggio sulla poetica dantesca è inserito nell’annuario «Lògoi» 2008/2009, realizzato dal Liceo Classico “Giovanni Pantaleo” e dal Liceo delle Scienze Umane “Giovanni Gentile” di Castelvetrano (TP). Ha collaborato e collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna, con l’Università Primo Levi di Bologna, con l’Associazione Italia Medievale, con La Festa della Storia organizzata dal Dipartimento delle Discipline Storiche dell’Università di Bologna e con molte altre associazioni e istituzioni sul territorio nazionale. Nel febbraio 2009 pubblica il libro di poesie Il tratto che ci unisce (Prova D’Autore, prefazione di Davide Rondoni), e ottiene vari riconoscimenti di merito in alcuni tra i più prestigiosi Premi Internazionali di Poesia. Il libro che affronta temi e sentimenti del “vivere quotidiano” è stato inserito in programmazione didattica in alcuni licei classici d’Italia, quale viatico preferenziale alla poesia, in un momento in cui i giovani sembrano allontanarsene sempre di più.

Ha curato l’uscita per Pendragon del libro di poesie in dialetto romagnolo Voci del buio del poeta Arnaldo Morelli. Suoi testi compaiono in varie riviste e antologie nazionali, come nella recentissima La poesia, il sacro, il sublime a cura di Adele Desideri (Fara, 2010). E’ appena uscito il suo ultimo lavoro per Fara Editore, Caterina Sforza – Una forza della natura fra mito e poesia con prefazione di Marco Viroli. Il libro, nato da un laboratorio didattico svolto con la scuola media di Cotignola e pubblicato con il contributo del comune stesso, racconta in modo empatico la vita di questa grande protagonista dell’ultima fase del Medioevo italiano, suscitando in forma poetica le emozioni dettate dalla sua grande energia e passionalità. Della poesia dice che “fa parte della sua vita, soprattutto in forma di ascolto”.


Fabio Canessa, insegna italiano e latino al Liceo Giosue Carducci di Piombino. Critico cinematografico "militante, a metà strada tra pagina e schermo". Scrive di cinema e di letteratura su vari giornali. Organizzatore e coordinatore di corsi di aggiornamento per insegnanti delle superiori, ha promosso numerose attività nei cineclub e nelle biblioteche. Ha partecipato a trasmissioni televisive di Vittorio Sgarbi e Renzo Arbore (da qui la definizione di "critico arboriano" atttribuitagli da alcuni). Di recente, ha curato la parte letteraria della mostra torinese su “Il Male” e ha scritto di calcio e filosofia sull’ultimo numero di "Linea Bianca". Ha pubblicato il libro “Azzurro. Conte, Celentano, un pomeriggio…” Donzelli Editore, con prefazione di Vittorio Sgarbi.








Oratorio di San Filippo Neri
11 Maggio 2010 – ore 18.00

“INCONTRIAMOCI  ALL’INFERNO”

PARODIE DI FATTI E PERSONAGGI DELLA
DIVINA COMMEDIA
Spettacolo ironico-musicale
in occasione della ristampa del libro

(Pendragon Edizioni)

di

CINZIA DEMI

(AUTRICE E VOCE NARRANTE)
CON
 RICCARDO FAROLFI

(MUSICHE PER LIUTO E CHITARRE RINASCIMENTALE - BAROCCA)

Portami con te: un cd da ascoltare

mercoledì 21 aprile 2010

L’Amore del Pastore

Omelia del giorno 25 Aprile 2010
IV Domenica di Pasqua (Anno C)

Il Vangelo di oggi ci presenta un brano che con due pennellate dipinge la situazione degli uomini `lontani da Dio', non si sa se per scelta o per ignoranza, e la vicinanza di Dio, che dà davvero un grande respiro di speranza anche a noi, oggi, a cui sembra che troppi lascino la Chiesa, avventurandosi in un mondo che non può che fare del male.

In un'altra parte, il Vangelo definisce poi “cattivi pastori, mercenari”, coloro a cui nulla importa della felicità del 'gregge' loro affidato. È la tragedia, non solo di oggi, ma di tutti i tempi.

Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il Vangelo del Regno e curando ogni malattia e infermità.
Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe, che mandi operai nella sua messe.” (Mt. 9, 35-38)

In questo piccolo racconto c'è soprattutto Lui, Gesù, mandato dal Padre a dare la vita, perché noi l'avessimo e in abbondanza. Si avvicinava a tutti, con la cura di un padre, di un fratello: li guardava con lo sguardo di uno che ama senza limiti, gratuitamente, liberamente ed ha nel cuore non la volontà di morte del peccatore, ma la sua salvezza.

Voleva guardare in faccia le ferite di tutti per guarirle: “Non sono venuto per i sani, ma per i malati”, dirà. Non accetta facilmente che qualcuno si perda e, quando qualche “pecora”, per dabbenaggine o per altre ragioni, si allontana, Gesù stesso racconta come vada in cerca di lei, senza curarsi dei pericoli, della fatica, della sofferenza: l'importante è ritrovare chi è stato catturato dai “mercenari”, che per nulla si curano della sua felicità e della sua vita. Come succede oggi.

Sono tanti davvero i mercenari, ossia quelli che catturano con le lusinghe – la ricchezza, il prestigio, il successo, il piacere, il potere… - e tutti sappiamo come a costoro nulla interessi della nostra felicità vera, della nostra sofferenza o insoddisfazione. Basta osservare quanti giovani, attratti dalle discoteche e dalle droghe, sono poi vittime delle loro stesse scelte.

Nello sguardo di Gesù c'è lo sguardo di Dio: uno sguardo incredibilmente e meravigliosamente pietoso, “ebbe compassione”. Quelle folle che Lo cercavano e seguivano, come per aggrapparsi all'ultima speranza, attendendo da Lui chissà che cosa, apparivano “stanche e sfinite”. Due aggettivi che danno la piena misura dí un uomo che è giunto ad un punto morto: non ha più nessuno da cui sperare giustizia, amore, verità; non ha più chi gli dia ancora la voglia di “camminare” e, soprattutto, un senso e un gusto al cammino che è costretto a compiere.

Gente sferzata da tante ingiustizie, che l'uomo stesso, ripiegato su sé stesso, inventa giorno per giorno, cercando solo vie per affermarsi, magari calpestando gli altri. Sono le stesse folle che incontriamo ancora oggi: un triste spettacolo, che penetra fino in fondo al cuore, come ci riguardasse da vicino, come sofferenza nostra, e non ci dà pace.

A questa umanità in cerca di pastore, Gesù indica la strada: “Pregate il padrone della messe, che mandi operai nella sua messe.”

E questi operai che Gesù manda siamo noi, sacerdoti, vescovi, chiamati giustamente, sull'esempio di Gesù, “pastori”.

Lo sappiamo molto bene, noi che siamo “pastori” di una comunità, nella Chiesa, come la quella “compassione” debba essere il nostro cibo quotidiano.

È dal 1951 che la Chiesa mi ha ordinato pastore. Poi ci fu l'obbedienza che mi affidò il gregge, tra cui, per 20 anni rimasi, a Santa Ninfa nel Belice: una parrocchia molto provata e sfiduciata, soprattutto verso i sacerdoti, per un cattivo esempio avuto prima. Fu il vescovo di Mazara del Vallo, che ci pregò di accettare quel gregge disperso, perché la gente chiedeva ad alta voce preti “continentali”. Eravamo in tre confratelli e per alcuni anni, dovemmo solo “essere lì”, dare fiducia ed attendere che la fiducia si ricostruisse giorno per giorno. La gente voleva vedere i segni che eravamo pastori a cui potersi affidare. La pazienza, il tempo, la bontà, la prontezza nel servizio, si fecero strada fino a creare tanta, ma tanta fiducia, soprattutto quando poi fummo colpiti dal terribile terremoto che sconvolse il Belice, distruggendo tutto.

Ma la gente, fin dal primo momento, vide in noi, terremotati come loro, la sola via alla speranza nell'immediato e nel futuro. La nostra fiducia fu ripagata in pieno.

E quando i miei superiori credevano fosse il tempo di cambiare, intervenne Paolo VI, che mi affidò come vescovo la diocesi di Acerra: un'altra realtà difficile, ma niente affatto impossibile se si ha fede e zelo, come devono essere le doti di un pastore. Solo Dio conosce la mia passione per chi mi veniva affidato e il mio abbandono alla Sua opera di “Buon Pastore”, che sa tracciare strade e sostenere lo zelo… nonostante tutto, compresa la nostra povertà.

Oggi mi ritrovo ad affermare la bellezza dell'essere stato scelto come “pastore”, e a non avere parole adeguate per ringraziare Dio e tutti coloro che ho guidato nei “pascoli eterni”.

A chi, forse chiamato, ha tanta difficoltà nell'accogliere la vocazione del Signore, vorrei trasmettere la bellezza e l'immensa gioia che viene dal sapere di avere dato tutto, ma proprio tutto, per la salvezza. Scriveva il nostro caro Paolo VI, davvero esperto nell'amore del sacerdote:

“È il giorno dell'amore questo. Tutta la nostra iniziazione sacerdotale si è svolta proprio su questo tema: Ti amerò, Ti amerò per tutta la vita. Il mio cuore è tuo, quello ti dono, di comprensione, di emozione, di affetto, tutto è tuo, o Signore. Io sono tuo. Abbiamo detto questo nel giorno in cui abbiamo ricevuto il nostro sacerdozio. Lo diciamo ogni giorno.
Nella stessa misura? Con la stessa capacità di dono, di sacrificio? Con la stessa pienezza? O è passata sopra di noi l'usura del tempo? Le cose, nel tempo, diminuiscono, si affievoliscono; non siamo capaci, noi, di perdurante intensità. Di fedeltà sì, io spero che lo siamo tutti, ma di intensità, deboli come siamo, probabilmente no; ci lasciamo a volte andare, e diviene complice forse di questa nostra debolezza, l'abitudine. L'abitudine toglie l'emozione, la meraviglia dei doni che Dio ci ha dato con tanta effusione per farne dono ai fratelli nel nostro immenso esercizio che ci fa esaltare di gioia e di umiltà ogni volta ne siamo catturati, e così ciò che prima ci dava tanta gioia ora a volta passa senza emozioni sulle nostre labbra.
Sì, abbiamo tante cose da fare alla fine. E queste 'cose', se da un lato sono sempre amore, prove di servizio e fedeltà a Gesù, rischiano di essere esteriorità. Ma il focolare della nostra vita ha continuato, per fortuna, ad ardere, a brillare, a darci alimento per esercitare bene il nostro ministero; forse un po' di cenere si è adagiata sopra la brace infuocata. Ma dovremmo sempre ricordare le parole che Gesù disse ai suoi, ieri, e oggi a noi: 'Rimanete nel mio amore'. E risentiamo sempre quanto Gesù, dopo la grande debolezza mostrata durante l'arresto di Gesù, domandò a Pietro: `Mi ami tu?'. E che la nostra risposta sia come quella di Pietro, che intuendo forse la sua debolezza, confermò: 'Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti voglio bene'. ..In fondo a Gesù diciamo oggi: 'Sono un tuo sacerdote, povero, debole, manchevole, ma sono tuo'.” (11.4.1963)

È proprio vero, i fedeli che Dio ci dà da amare, vogliono vedere testimoniato sempre e in tutto il grande Amore, che diventa comunicare gioia evangelica, ottimismo, felicità di essere con Dio e nel Cuore di Dio, proprio attraverso il prete. Forse a volte c'è chi ci guarda con distacco o si fa di noi un'immagine deformata. A volte ci cancella dalla sua vita, se non ci disprezza, generalizzando senza ragione.

Ma, ripeto, noi ci sentiamo sommersi da un'infinita compassione al punto che le loro sofferenze, le loro stanchezze, sono le nostre sofferenze e stanchezze. Lo sperimentavo da vescovo e lo sperimento oggi. Ai miei confratelli vorrei affidare quanto dice il Santo Padre, Benedetto XVI:

“Lo stupore per il dono che Dio ci ha fatto in Cristo, imprime alla nostra esistenza un dinamismo nuovo, impegnandoci a essere testimoni del Suo amore. E diveniamo testimoni, quando, attraverso le nostre azioni, parole, modo di essere, un ALTRO appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell'amore di Dio raggiunge l'uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell'uomo.” (Sacramentum veritatis, n. 85)

Ai fedeli, di cui ho avuto la fortuna di essere loro pastore, confermo che li ho sempre amati, tutti, come è possibile amare e ho avuto la gioia di conoscere l'accoglienza di Cristo, che passava per questo amore. Così come sono felice dell'accoglienza che mi riservate ogni settimana.

Quante volte mi ringraziate, ed è il segno che l'amore di Dio è in noi e tra noi. Grazie a voi!

Antonio Riboldi – Vescovo –

Internet: www.vescovoriboldi.it

email: riboldi@tin.it


Riviste a Milano

martedì 20 aprile 2010

Dal sogno al segno 23 apr

dal Kenya in Romagna

SIMBA NA MENDE

una fiaba tradizionale africana

interpretata da 13 Piccoli Artisti

del Koinonia Children Team di Nairobi

domenica 25 aprile a Riccione

alle ore 18 piazzale Ceccarini

(di fronte al Palazzo del Turismo)

                    ****

lunedì 26 aprile a Rimini

alle ore 10,30 presso il CEIS di Rimini

per i bambini di scuole elementari

           
****

FESTA DI AMANI

26 aprile Santarcangelo

ore 18, Campo della Fiera

giochi e attività

Saranno ospiti i Piccoli Artisti

del Koinonia Children Team di Nairobi

ore 20, Campo della Fiera
: cena insieme

ore 21, supercinema - sala wenders

 
le periferie del mondo

incontro pubblico con Padre Kizito

missionario comboniano fondatore di Koinonia



SIMBA NA MENDE http://www.newsrimini.it/i/simbanamende.jpg

È uscito Profili critici di Vincenzo D'Alessio

Donal d'Irlanda-di P. GalloniVincenzo D'Alessio
Profili critici

€ 12,00 pp. 234 (Neumi)
ISBN 978 88 95139 82 1
Postfazione di Massimo Sannelli

«Questo libro è uno scrigno di emozioni. Sì perché anche un critico letterario può svolgere con passione il proprio lavoro e proporre al lettore un giudizio non solo preciso e professionale, ma anche empatico e coinvolgente.» (dalla Presentazione di Alessandro Ramberti)

Opere recensite:
Abate Carmine La festa del ritorno
Antologia Pubblica
Ariano Luca e Luca Paci Pro/Testo
Basagoitia Gladys Acquaforte - La carne / El sueño - Il fiume senza foce
Bianchi Gabriella Il paradiso degli esuli
Bianchi Stefano Le mie scarpe son sporche di sabbia
Bonalumi Laura Gli occhi del mondo - Fragile
Borghi Daniele Pinocchio non abita più qui
Borsani Roberta Il rosaio d’inverno
Bottoni Marco Mi siete mancati
Bruschi Brunella Lune persuase .
Callegari Giuseppe L’amore si sporca le mani
Camporesi Caterina Solchi e Nodi
Castagna Paola Figli. Come cotone al vento
Celli Alex La Compagnia S.E.
Celli Vincenzo Cocci d’ombra
Ciancio Maria Pina Storie minime
Cipriano Domenico L’enigma della macchina
Conti Armando Stati di nebbia e altri racconti
Crozzoletti Stefania Prima vita
D’Alessio Vincenzo Come muore un premio letterario
De Angelis Carla Salutami il mare
De Angelis Carla, Stefano Martello
Diversità apparenti - Il resto (parziale) della storia
De Falco Carmine – Leonardo Marini Mai – Linkami
l’immagine

De Luca Chiara La collezionista
De Luca Chiara La Mina (stra)vagante
De Luca Chiara (a cura di) Nella borsa del viandante
Dente Emilia È luce il tarassaco
Desideri Adele Il pudore dei gelsomini
di Consoli Andrea Il padre degli animali
Di Paolo Nicola (Nino) Anno Santo 1975 - Il primato della pietà
Franca Fabbri Sto consumando l’ultima casa
Failla Subhaga Gaetano La signora Irma e le nuvole
Fattori Narda Verso Occidente - Il verso del moto
Fontanella Luigi Azul
Fozzer Giovanna Sixteen Poems
Fresa Mario Alluminio
Gandolfini Enrico La caverna dell’orso
Gandolfini Enrico Quando gli ulivi scendevano a mare
Garbin Andrea Lattice
Gardini Sonia Dove allunata?
Ghonim Mohamed Colombe raggomitolate
Gianni Bernardo F.M. (a cura di) Poeti profeti?
Gnerre Antonietta Fiori di vetro: restauri di solitudine.
Gnerre Antonietta Preghiere di una poetessa - PigmenTi
Hajdari Gëzim Poema dell’esilio/Poema e mërgimit
Legenda
Luongo Michele Irpinia terra del Sud
Marampudi Leela Il destino immobile
Merlin Marco Mosse per la guerra dei talenti
Molinaroli Simone Cani al Guinzaglio nel Ventre della Balena
Montebelli Ardea Ma il cielo ci cattura
Mori Alberto Raccolta
Musio Enrica Dediche sillabiche - Senza saperlo nemmeno
Nannipieri Luca Mario Luzi. Il Maestro e i suoi dialoghi
Parato Andrea Da luoghi intravisti
Passini Guido Senza fiato
Passini Guido Io, Lei e la Romagna
Pizzo Antonella Catasto ed altra specie
Poesia Meridiana
poesia (La) racconta 2
Ramberti Alessandro In cerca - Tela di bordo - Pietrisco - Inoltramenti
Ricciardelli Michele L’Arcadia di Jacopo Sannazaro
e di Lope de Vega

Righi Zina (a cura di) Il coraggio dei sogni
Rigoni Patrizia Andature
Rosenberg Barbara Piccolo canzoniere di città
Sablone Benito Uomini donne e santi di paese - L’Angelo di Redon
Saggese Paolo Poeti del Sud 3
Saggese Paolo, Giusepp e Giuliano Versi per il Formicoso
Sanchini Stefano Interrail
Sannelli Massimo Philologia Pauli. Il corpo e le ceneri
di Pasolini con Il mese Giugno Venti poesie
- Scuola di poesia
Specchio Poetico
Stabile William Contrappunti e Tre poesie creole
Stefani Sauro Vita e personaggi nella Santarcangelo
dei nostri padri

Storie di Vita
Taufer Giovanni Sciure e papagne
Zanobbi Guido In questo bar non consuma nessuno
Zavarini Marco L’analisi di infinite conseguenze

Vincenzo d’Alessio è nato a Solofra (AV) nel 1950. Vive a Montoro Inferiore (AV). Laureato in materie letterarie presso l’Università di
Salerno, ha ideato il Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra”, ha fondato il Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e la casa
editrice omonima. Ha pubblicato diversi saggi di archeologia e storia locale e le seguenti raccolte poetiche: La valigia del meridionale
(1975), Un caso del Sud (1976), Oltre il verde (1989), Lo scoglio (1990), Quando sarai lontana (1991), L’altra faccia della luna (1994), Costa d’Amalfi (1995), La mia terra (1996), Ippocampo (1998), D’amore e
d’altri mali
(1999), Elementi (2003), Versi di lotta e di passione (2006).
L’ultima raccolta, Figli (2009), è dedicata al figlio Antonio, prematuramente scomparso. La raccolta Padri della terra è inserita nell’antolgia
Pubblica con noi 2007 (Fara) che raccoglie le opere dei vincitori dell’omonimo concorso. È presente in numerosi blog letterari e siti web,
ne ricordiamo solo alcuni:
farapoesia.blogspot.com
viadellebelledonne.wordpress.com
www.viacialdini.it
lucaniart.wordpress.com



venerdì 16 aprile 2010

Simone di Giovanni, mi ami?

Omelia del giorno 18 Aprile 2010
III Domenica di Pasqua (Anno C)

Sembra siano passati centinaia di secoli dal momento della paura e della fuga degli Apostoli alla vista della cattura di Gesù nell'orto del Getsemani. Avevano accolto con grande prontezza l'invito di Gesù a seguirLo: erano stati con Lui per tre anni, il tempo per rinsaldare amicizia e fiducia, ma all'ora della prova erano fuggiti tutti, abbandonando Gesù al suo destino.

Non ebbero il coraggio di seguirLo fino in fondo, rivelando così l'intera debolezza dell'uomo, di tutti gli uomini.

Solo dopo la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste ritroveranno fede e coraggio in modo impressionante, come se fossero passati secoli dal momento dell'abbandono: erano diventati uomini `nuovi'.

Ce lo raccontano oggi gli Atti degli Apostoli:

In quei giorni, il sommo sacerdote cominciò ad interrogare gli apostoli, dicendo: “Vi avevamo espressamente ordinato di non insegnare più nel nome di costui, ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina, e volete fare ricadere su di noi il sangue di quell'uomo. Rispose allora Simon Pietro insieme agli apostoli: 'Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padre ha resuscitato Gesù che voi avevate ucciso appendendolo alla croce Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore per dare ad Israele la grazia della conversione e del perdono dei peccati. E di questi fatti noi siamo testimoni, noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui.”

Allora li fecero fustigare e ordinarono loro di non continuare a parlare nel nome di Gesù: quindi li rimisero in libertà. Ma essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù. (At. 5, 27-32)

Dopo la fuga, la paura al momento dell'arresto di Gesù nel Getsemani, che cambiamento è avvenuto negli Undici! Alla paura si è sostituito il coraggio della testimonianza, fino alla gioia di essere oltraggiati per amore di Gesù!

Ricordate? Al momento dell'arresto di Gesù, Pietro e gli altri avevano tentato una timida difesa del Maestro, talmente intrisa di spavento che non poteva che conoscere il fallimento disastroso e vergognoso della fuga.

Pietro, che amava Gesù e non si rassegnava a lasciarLo in mano ai nemici, Lo aveva seguito, cercando però di passare inosservato. E quando era stato scoperto, per la paura, addirittura, aveva ricorso al falso giuramento di non conoscerlo affatto, rinnegando un'amicizia e un amore che invece viveva profondamente.

Solo dopo aver sentito cantare il gallo, Pietro si era reso conto del male fatto - aver negato di conoscere Chi amava tanto, ma proprio tanto - e aveva pianto amaramente.

Quanto sarà stato difficile ammettere e riconoscere la vigliaccheria cui aveva ricorso per non correre pericoli! Non è facile accettare una tale umana debolezza. Ma Dio lo aveva permesso proprio per preparare nell'umiltà e nel coraggio colui che poi designerà per grandi cose. E capita a tutti noi.

Quante volte ci sentiamo pronti ad affrontare chissà cosa - parlo nel campo della fede, dell'amicizia, della virtù, della dignità - e poi al momento del confronto con la mentalità del mondo, che chiede a volte 'martirio' nel confessare ciò che siamo e crediamo, si manifesta tutta la nostra debolezza. Quanta gente generosa, che avrebbe, a parole, data la vita per il Regno di Dio, di fronte alla virulenza della mentalità che vuole dominare le persone, annullando i grandi valori, si china per paura. Non c'è da spaventarsi: è ciò che siamo senza la Grazia di Dio che ci sostiene.

Essere davvero cristiani, fino in fondo, con naturalezza, senza venir mai meno a ciò che veramente siamo 'dentro', non è facile. Più facile piegare la testa al mondo, per evitare, come Pietro, di fare, seguendoLo, la fine di Gesù nella passione.

Il Vangelo di oggi è bene leggerlo parola per parola. Pietro aveva ammesso il suo fallimento durante la passione, senza tentennamenti, anzi con aria di disfatta.

Sapeva quanto era grande la fiducia di Gesù, che lo aveva chiamato e scelto, ma forse, essendo venuto meno nella prova, ormai dubitava di poter essere ancora amato da Gesù, come prima, ... ma non dubitava del suo amore per il Maestro, che sicuramente era aumentato dopo quanto successo. Era un amore, quello di Pietro, che ora era fondato su una profonda e sincera umiltà, come deve essere sempre l'amore.

Ma è bene affidarsi a questo gioiello di Vangelo, che svela quanto sia grande l'amore di Gesù e la sua fiducia in noi, quando trova nel nostro cuore l'umiltà, di chi sa fidarsi di Lui.

Gesù si manifestò di nuovo agli apostoli sul mare di Tiberiade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedo e altri due discepoli. Simon Pietro disse loro: “Vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. Quando era già l'alba Gesù si presentò loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”. Allora disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non potevano più tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”

Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi la sopravveste, perché era spogliato, e si gettò in mare. Gli altri discepoli vennero invece con la barca, trascinando la rete piena di pesci; infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri....

Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, così pure il pesce...

Quando ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che io ti amo.”

Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni mi ami?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: “Mi ami?” e gli disse: “Signore, tu sai tutto: tu sai che ti amo”. Gli rispose: “Pasci le mie pecorelle. In verità in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo disse: “Seguimi”. (Gv. 21, 1-19)

Incredibile quanto abbiamo letto nel Vangelo: la fragilità non sempre va insieme al non amore e soprattutto la fiducia illimitata di Gesù non viene meno, perché Lui conosce i nostri cuori, impastati di miseria e di slanci di generosità e continua a “credere” in noi... come se nulla fosse accaduto.

La storia di Pietro è un poco la nostra vita cristiana: può essere grande la nostra fragilità, ma quando si ama, con la fiducia in Gesù possiamo andare oltre.

A volte possiamo essere vittime della nostra miseria, che ci porta quasi a negare Gesù, ma poi al giusto momento, diventiamo capaci di affermare un amore grande.

Forse l'amore ha bisogno, per trionfare, di questa nostra debolezza, che troppe volte si affida, per affermarsi, alla superbia, dimenticando le parole del Maestro: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli.

E commuove davvero la fragilità di Pietro, che torna a riva a mani vuote, dopo una faticosa notte di pesca, ma riempie il cuore di grande stupore l'impeto nel cercare di raggiungere a nuoto Gesù e poi la forza convinta con cui risponde alla meravigliosa domanda: Mi ami tu?

Chissà quante volte queste due realtà, fragilità umana e amore, si sono alternate nella nostra vita. C'è solo da pregare che alla fine prevalga sempre l'amore.

Ricordo quando nel Belice mi giunsero assolutamente inaspettati, attraverso la comunicazione del Santo Padre Paolo VI, che mi voleva davvero un grande bene, la richiesta e l'invito di Gesù: Mi ami tu? Pasci le mie pecorelle., ossia la nomina a vescovo.

Non nego, che grande fu la mia sorpresa: “Impossibile - mi dicevo - che Dio si fidi della mia povertà e mi affidi il Suo gregge. Mi sentivo smarrito, come Pietro. Ma qualcosa dentro mi invitava a rispondere come Lui, perché era la verità: Signore, tu sai che io ti amo.

È la storia di tutti noi, che tanto assomigliamo a Pietro: fatichiamo tanto, in tutte le direzioni, per poi vivere la sensazione di essere a mani vuote. Forse occorre cambiare rotta: non affidarci unicamente alle nostre povere forze, ma alla Presenza di Gesù nella nostra vita.

Se Gesù ci domandasse oggi: Mi ami tu?, guardando alla quotidianità del nostro vivere, quale sarebbe la nostra risposta?

L'augurio e la preghiera è che sia sempre, nonostante tutto:

Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene.

Con Madre Teresa preghiamo:

Signore, tu sei la vita che voglio vivere,
la luce che voglio riflettere,
il cammino che conduce al Padre,
l'amore che voglio condividere,
la gioia che voglio seminare attorno a me.
Gesù, tu sei tutto per me, senza di te non posso nulla. 
Tu sei il Pane di vita, che la Chiesa mi dà:
è per te, in te e con te, che posso vivere. Amen.



Antonio Riboldi – Vescovo –
Internet: www.vescovoriboldi.it
email: riboldi@tin.it

mercoledì 14 aprile 2010

Avrò i tuoi occhi in Friuli

L'aturice, Patrizia Rigoni, svelerà i segreti del suo ultimo romanzo nelle seguenti località

Libreria Rinascita di Monfalcone
ore 18 di venerdì 16 aprile
presenta Tiziano Pizzamiglio

Casa dei Popoli di Villasanta
ore 18 di giovedì 29 aprile
presenta Mario Origo
occhi

Mi siete mancati a Bergantino 16 apr


scheda del libro qui

Poesia e Salvezza a Fonte Avellana 8-9 maggio 2010


v. anche qui

sabato 10 aprile 2010

Su Il senso del Male di Gottfried W. Leibniz

recensione di Michele Giovannetti al «microbo» fariano


Gottfried Wilhelm von Leibniz (Lipsia, 1 luglio 1646 – Hannover, 14 novembre 1716) è stato un matematico, filosofo, scienziato, glottoteta, diplomatico, giurista, storico, magistrato e bibliotecario tedesco. Dotato di notevole intelligenza, a soli sei anni aveva già imparato il latino, grazie alla lettura di Tito Livio. A quindici entrò all'Università di Lipsia: conseguì la laurea in filosofia a diciassette e un dottorato in legge a venti. A lui si deve il termine funzione (coniato nel 1694) che egli usò per individuare varie quantità associate ad una curva, tra cui il suo valore, la pendenza, la perpendicolare e la corda in un punto. A Leibniz, assieme a Isaac Newton, vengono generalmente attribuiti l'introduzione e il primi sviluppi del calcolo infinitesimale, in particolare del concetto di integrale, per il quale si usano ancora oggi molte delle sue notazioni.
Quest’opera che mi appresto a recensire fu denominata da Leibniz stesso Saggi di Teodicea ovvero una giustificazione dell’opera di Dio, dinanzi al male presente nel mondo. Sono una raccolta messa per iscritto delle risposte che il filosofo diede in virtù delle pressanti critiche riguardo la bontà e quindi la natura di Dio e la libertà dell’uomo, che insorsero nel periodo di fine ’600 e primi del ’700, contemporaneamente all’opera di Cartesio, dalle parti più disparate: il soggettivismo di Hobbes e Locke, il determinismo di Spinoza, la critica distruttiva alla teologia dello studioso Bayle. Dopo la stesura di quest’opera molte furono le critiche che fiorirono da più parti, principalmente quella di Voltaire, che in Candido ironizza sulla figura di Leibniz attribuendogli espressioni semplicistiche nonché assolutamente contrastanti col pensiero del filosofo: “Tutto è bene nel migliore dei mondi possibili”. Nella Teodicea Leibniz parte dal presupposto che Dio sia essere intelligente, in cui si racchiudono tutte le esistenze e le essenze (quindi le possibilità). Questo mondo in cui viviamo è necessariamente il mondo migliore possibile, perché scelto da un atto volontario di Dio, che nella sua perfezione non può che aver scelto il mondo migliore fra tutte le possibilità che gli si prospettavano. Il mondo migliore esiste (ed è questo), perché diversamente non sarebbe esistito alcun mondo. Qui vediamo una prima incertezza, potremmo dire, nel pensiero di Leibniz che non procede alla spiegazione del perché questo mondo sia il migliore possibile: a suo avviso non se ne può avere diretto intendimento e rimette il giudizio alla fede in Dio. Detto questo, si sofferma a pensare come il male presente nel mondo altrp non sia che causa di un bene che altrimenti non sarebbe mai potuto esistere, e come questo male ci faccia gustare meglio il bene. Anche se Leibniz ci ricorda una pagina evangelica che ammette quanto sia difficile salvarsi, non dobbiamo smettere di credere che la sommatoria di tutti i beni dell’Universo sia maggiore a quella dei mali o che il bene esercitato da pochi abbia un valore maggiore del male di molti. Ma qual è l’origine del male? Dare una risposta a questa domanda è per Leibniz render conto della natura stessa di Dio. Egli ravvisa il male già nelle essenze presenti nell’intelletto divino. Egli sceglierà le essenze che dovranno esistere senza aver alcun potere sulla loro costituzione. Il mondo dei possibili è imposto a Dio da sé stesso. Ma se il male ha sede nell’intelletto di Dio, al pari del bene, questi non è conseguentemente né buono né cattivo. A questo sillogismo Leibniz risponde che Dio vuole il bene di ciascun individuo (escludendo quindi il peccato e la dannazione), ma che la realtà è determinata dal conflitto di tutti i voleri (le azioni morali e fisiche della creatura e le volontà divine a priori). Ne consegue che Dio in origine vuole il bene, e conseguentemente il meglio. Dio, sostiene Leibniz, dona a tutti gli uomini la ragione, considerandola antecedentemente un gran bene; ma vi sono dei mali che ne derivano e Dio non può evitarli se non privando l’uomo della razionalità, ma questa sarebbe una scelta contraria alla saggezza divina, la quale considera la ragione un bene superiore a tutti i mali che l’accompagnano. Il male, per Leibniz è metafisico (imperfezione di ogni creatura altra da Dio), fisico (sofferenza) e morale (peccato). Il male metafisico è una necessità della condizione di creatura limitata: risulta quindi una privazione d’essere, non ha conseguenza ontologica. “Dunque la materia è portata originariamente alla lentezza o alla privazione di velocità: non che essa abbia la facoltà di diminuire la velocità una volta ricevutala – infatti questo significherebbe agire –, bensì ciò vuol dire che, con la sua recettività, attenua l’effetto dell’impulso quando lo riceve.”
Dio è causa solo delle perfezioni che comunica alle creature. Solo l’aspetto materiale del male è causato da Dio, non quello formale. A questa teoria del migliore dei mondi possibili Bayle obiettò che Dio non sarebbe libero se la sua scelta dovesse sottostare alla regola del meglio. Questo escluderebbe anche, a detta di Spinoza, un’intelligenza divina, dato che Dio si muoverebbe solo per necessità, essendo motore immobile. Leibniz risolve la questione, dicendo che Dio è vero che sceglie sempre il meglio, ma lo fa per la libera scelta morale. Una necessità non logica, ma morale lo ha portato a scegliere l’esistenza delle leggi naturali stimandole più convenienti al perseguimento della sua natura. La necessità logica si fonda quindi su una necessità morale che è a sua volta conseguenza dell’esercizio di una volontà sempre concorde con la sua essenza divina. “Tuttavia, benché la sua volontà sia sempre immancabile, e tenda sempre al meglio, il male o il minor bene che Lui rifiuta non cessa di essere possibile; altrimenti la necessità del bene sarebbe assoluta… Ma questo tipo di necessità, che non distrugge la possibilità del contrario, non ha tale nome che per analogia; essa diviene effettiva, non per la sola essenza delle cose, ma per ciò che è fuori di loro o al di sopra di loro, vale a dire per la volontà di Dio. Tale necessità viene chiamata morale, perché per il saggio, necessario e dovuto sono cose equivalenti; e quando essa ha sempre il suo effetto, come essa lo ha di fatto nel saggio perfetto, cioè Dio, si può dire che è per felice necessità… Infatti ciò che essa comporta non accade checché si faccia, e checché si voglia, ma perché lo si vuole.”
Dio ha l’obbligo di seguire sempre la sua natura (il bene), ma non aveva l’obbligo di creare il mondo; poteva non crearlo affatto o crearlo diverso da questo. Quindi è libero. Dal tema della libertà di Dio si giunge a quello della libertà dell’uomo: l’essenza che Dio sceglie di creare tra tutti quelle possibili che ha già in sé. Allora il possibile include il necessario. Per escludere il predeterminismo si dovrebbe consentire alla stessa esistenza di poter assumere diverse determinazioni essenziali, ma questo è impossibile quando l’esistente non è altro che l’essenza passata dal piano dei possibili a quello del reale. Un’effettiva contingenza, per cui un esistente possa essere diverso mantenendo la propria identità, non si ha nel sistema leibniziano.
In linea di massima, posso ritenermi d’accordo con Leibniz, salvo quanto specificherò ora in merito alla libertà di Dio e dell’uomo. In accordo con la Rivelazione, Dio è Amore, ma questo non esclude che nella sua mente esista la possibilità del male, che viene inteso come rifiuto della sua stessa natura divina. Egli ha quindi un intendimento della propria negazione, che non può risultare che nel Male, la morte, il rifiuto dell’essenza e dell’esistenza stessa. Il Male non ha una dignità ontologica, ma viene percepito come necessario per definire la Sua stessa identità. Posto questo, data la sua perfezione Lui segue con la sua volontà la propria natura, ma non può escludere la possibilità del male, che appunto lo definisce. L’esistenza stessa di Sé stesso come Amore è quindi in parte una scelta morale: Egli è amore sia come sostanza che come forma. Si è scelto, in questo ha esercitato la Sua libertà. Ma a mio avviso, Dio non ha creato il migliore dei mondi possibili, ma il mondo perfetto: l’Eden. È l’uomo ad aver determinato poi, la contingenza reale del male, col suo comportamento, con la sua scelta morale. In origine l’uomo viene creato ad immagine e somiglianza di Dio: la creatura è limitata rispetto al Creatore, ma il Creatore stesso non può creare qualcosa che non sia conforme alla propria natura. Come specchio attraverso il quale questa creatura si possa misurare, Dio crea e la Natura. Il Male a questo punto è una possibilità, come Leibniz ritiene, nell’intelletto di Dio tanto quanto dell’uomo. Nella Genesi infatti, noi troviamo l’albero della Conoscenza del Bene e del Male, del quale noi ci è proibito, per ordinamento divino, di nutrirci. Ma questo albero è presente, ed è piantato da Dio, che non può prescindere da esso, da questa necessità morale, persino nell’opera della Creazione. Ma è questa interdizione che dà il senso della nostra libertà: sceglierci o rifiutarci. Nella nostra condizione di creature, sceglierci equivale a scegliere il Creatore. Questo passaggio è importante, perché l’albero della Conoscenza del Bene e del Male non implica da parte dell’uomo una ignoranza del peccato e del Male stesso, non implica una impossibilità a discernerlo. Implica una possibilità di scegliersi o di sostituirsi al Creatore, scegliendo la possibilità del Male. Tanto è vero che è già nell’atto in cui l’uomo contraddice Dio, quando decide di nutrirsi del frutto di quell’albero, che compie l’opera di anteposizione della propria volontà a quella legislativa del Signore. L’uomo antepone la propria scelta morale a quella del Creatore. Rinnegando la divinità di Dio, l’uomo rinnega la propria natura e concretizza la possibilità del male. Ne può quindi avere esperienza, averne una conoscenza diretta. È l’uomo che quindi sceglie un mondo dove esista il male. Dio quindi non crea il mondo migliore, in origine crea l’unico mondo possibile, in perfetto accordo con la sua natura. L’uomo snatura il mondo nel quale è piantato, concretizzando quella possibilità che è il male. Satana si fa veicolo d’errore, ma non può corrompere da sé il mondo, perché non è partecipe di quella seconda natura che è invece propria dell’uomo. La caduta di Satana è stata più repentina, perché essendo un angelo, puro intelletto, in lui l’esperienza dell’idea del Male è immediata quanto la scelta. Anzi, coincidono scelta coincide con l’esperienza. Nell’angelo, forma e sostanza sono la medesima cosa. Tutta la sofferenza, deriva dal peccato ed è la possibilità di fare esperienza del Male. Essa è un atto di contrizione per entrambi. Ma la concessione che Dio fa all’uomo di pentirsi, di rinnegare la propria negazione, bandendolo dall’Eden, è in virtù della sua natura che lo rende figlio di due mondi, uno materiale ed uno immateriale. Per l’uomo, al contrario di Satana, ancora non è tutto perduto: forma e sostanza nell’uomo sono differenziate. Gli rimane quindi la possibilità della Redenzione attraverso Cristo, che altri non è che il Signore che viene incontro a questa nostra seconda natura, quella materiale, complementare alla prima.

venerdì 9 aprile 2010

giovedì 8 aprile 2010

Tommaso, metti qua la tua mano e credi!

Omelia del giorno 11 Aprile 2010

II Domenica di Pasqua (Anno C)

Fino a poco tempo fa, questa seconda domenica di Pasqua era detta 'IN ALBIS', ossia, quanti nella notte di Pasqua erano 'risorti a vita nuova' nel Battesimo o nella conversione della vita, a significare la loro 'nuova vita in Cristo', indossavano una veste bianca, che conservavano per una settimana e deponevano in questa domenica, anche se in realtà erano tenuti, partecipando sempre dello Spirito del Risorto, a conservarla integra, nella vita, fino alla resurrezione dopo la morte.
Se facciamo attenzione, nel rito del Battesimo, dopo aver ricevuto il sacramento, e quindi essere `risorti', il ministro del Battesimo fa indossare al neobattezzato una piccola veste bianca, invitando a non deporla mai con la vita.
C'è da chiedersi se conserviamo quella veste battesimale, ancora oggi, magari stazzonata o sporca per le nostre debolezze, ma con la volontà di non deporla mai?!
In fondo il Mistero pasquale della Resurrezione, dovrebbe essere presente e vissuto e, anche se con tante debolezze e incertezze, accompagnarci nella vita come 'stella polare' delle nostre scelte. Afferma Paolo VI, che ci accompagna sempre nelle nostre riflessioni:
"Così grande, così importante per noi è il fatto della resurrezione di Gesù, che, come la Chiesa prolunga per alcune settimane la meditazione su di essa e ravvisa nell'avvenimento della passione, morte e resurrezione del Signore Gesù, il Mistero per eccellenza, così noi cristiani, rinnovati dalla sua recente celebrazione, sostiamo ancora una volta sulla riflessione, per chiederci qual è il nostro rapporto tra Cristo Risorto e noi. Cosa ci resta di Gesù Risorto. La questione non è una curiosità vana. È una domanda essenziale per la nostra fede e la nostra vita religiosa. Che cosa resta di Gesù Risorto in noi? È presente in noi e come? Le ultime parole di Gesù, registrate da Matteo, ci attestano una cosa meravigliosa. Nell'atto di scomparire dallo sguardo dei suoi discepoli, Gesù disse: 'Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo'. Dunque Gesù continua la Sua Pasqua, oggi. Sta a noi partecipare, anche se è grande ma necessaria fatica sostenuta dalla Grazia sentire e vivere il Mistero della Pasqua nella vita quotidiana. È possibile? Direi necessaria per dare alla vita quel senso di eternità con Cristo che è la verità dell'esperienza".
Il Vangelo di oggi ci prende per mano per superare le debolezze della natura così ansiosa di un vero domani. Racconta l'apostolo Giovanni:
"La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano gli apostoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: 'Pace a voi!: Detto questo mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore Gesù disse loro di nuovo: 'Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: 'Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi'. Tommaso, uno dei dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: 'Abbiamo visto il Signore. Ma egli disse loro: 'Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi, e non metto la mano nel suo costato, non crederò'.
Otto giorni dopo (oggi per noi) i discepoli erano di nuovo a casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse; si fermò in mezzo a loro e disse: 'Pace a voi. Poi disse a Tommaso: 'Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani, stendi la tua mano e mettila nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente!'. Rispose Tommaso: `Mio Signore e mio Dio!'. Gesù gli disse: 'Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!
Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché credendo abbiate la vita nel Suo Nome". (Gv. 20, 19-31)
Possiamo immaginare lo stupore degli apostoli nel vedere ciò che mai avrebbero potuto immaginare, ossia che un morto possa risuscitare.
Ma se vogliamo è anche il nostro stupore quando riflettiamo che 'forse' la vita non finisce qui. Confusi di fronte alla prospettiva di una vita senza domani e senza sapore, quando all'improvviso scopriamo che va oltre con la resurrezione, davvero questo Mistero dà quel senso alla vita che cambia tutto in noi.
Altro è vivacchiare, passando da un'esperienza all'altra, senza mai essere felici, altro è sapere con certezza che, se vivremo nella fede di Tommaso, tutto prende altra forma.
In fondo il nostro domani è sempre quello che ci interpella ed è un domani che non ha un suo traguardo solo qui su questa terra, ma va oltre, e lo sentiamo profondamente nel cuore, anche se a volte qualcuno non vuole ammetterlo!
È questa non accoglienza della verità che crea le incertezze di tanti, che sembrano dare ragione alle parole di Tommaso: 'Se non metto le mie mani nelle piaghe... .'
Ma se ci apriamo al 'dubbio' – quello vero, riguardante le nostre 'scientifiche', pregiudiziali, `troppo terra, terra' certezze – disposti ad accogliere la Verità, anche a noi Gesù si fa presente e mostra i segni della Sua Resurrezione e anche noi diremo: 'Signore, mio Dio!'.
Per gli Apostoli, come per noi, da quel momento la prospettiva cambia.
Essi avevano lasciato tutto per seguire Gesù, lasciando alle spalle le poche sicurezze che offre la vita. C'era stato il momento della prova nella passione e morte del Maestro, come un sogno, forse, di felicità terrena svanita e la grande paura del fallimento e di una fine come quella del Maestro.
Ma poi tutto è cambiato.
Ora sanno, e anche noi lo comprendiamo, che cosa significhi seguire Gesù,
Vuol dire andare dove Lui è andato, essere magari scherniti, essere uccisi... ma è soprattutto partecipare alla gloria del Maestro, che li ha, ci ha chiamati a seguirlo, fino a risorgere con Lui. È la vocazione di tutti coloro che sono stati 'chiamati da Gesù nel Battesimo', sempre che Lo seguiamo.
Ma Gesù non si limita a confermare i suoi nella fede in Lui; apparendo loro li fa partecipi della Sua missione tra di noi, consegnando loro, addirittura, `le chiavi del Regno': 'Tutto quello che voi rimetterete, sarà rimesso'.
Così là dove Gesù risorge inizia la resurrezione degli uomini; là dove si manifesta la gioia, la pace del Signore, questa è estesa a tutti gli uomini.
Gli apostoli sentono ormai di appartenere a quella Resurrezione, di essere inondati da quella gioia, da quella pace, ma nello stesso tempo ricevono il mandato di farne parte all'intera umanità. Il dubbio di Tommaso sembra proprio la provocazione dell'uomo che di fronte a tanto ineffabile Mistero contrappone le sue certezze, ed è accettata da Gesù, per dare una ulteriore conferma alla Resurrezione.
E Tommaso rappresenta molto noi.
C'è troppa gente, magari battezzata e quindi chiamata alla resurrezione, che vive, ma senza pensare al domani che l'attende e neppure si dà pensiero del dopo.
È triste vivere così, è riduttivo...è drammatico, angosciante.
Spiega forse il fallimento di tanti nella vita, che ricorrono al suicidio e di tanti che si disperano interiormente perché non trovano la ragione e il senso del vivere, quasi la vita fosse una maledizione e non una meravigliosa opportunità, una vocazione alla felicità piena con Dio e con gli altri.
È facile incontrare persone così, vanificate o distrutte dentro.
Ne ho incontrate nella mia vita di pastore e si rimane senza parole, perché di fronte a queste tragedie dell'anima, l'unico atteggiamento è l'ascolto... è la preghiera. , . nell'attesa che Gesù si affacci e trovi spazio nel loro cuore per dire: 'La pace sia con te.
Sono tanti questi 'smarriti' tra di noi.
È il dolore di noi pastori che spesso non riusciamo a raggiungerli, perché spesso rifiutano di essere raggiunti.
In questo caso non sono paragonabili a Tommaso: egli non ha rinunciato a stare con gli altri apostoli ed è lì che Gesù lo ha cercato e trovato... ed è rinata la gioia.
A volte, è vero, ci sentiamo cosi miseri e confusi nella nostra vita di cristiani, che proviamo un senso di smarrimento, quasi di averLo perso e ci ritroviamo 'abbattuti e nascosti', come gli Apostoli.
Ricordiamocelo sempre: nella vita non c'è peggior scelta di quella di chiudere la porta del cuore in faccia a Dio o di perdere la fiducia in Lui, nel dono della Sua Resurrezione, tanto da credere che parlare di Pasqua sia qualcosa che non ci appartiene.
Noi pastori vorremmo 'usare le chiavi del Regno' per aprirlo a tutti, rimettendo i peccati.
Ma quanta fatica. Una fatica però necessaria se si ama l'uomo ovunque sia, comunque sia. Vorremmo che la Pasqua fosse la festa per tutti e non resta che pregare e amare.
Lo faccio con le parole di Madre Teresa di Calcutta:
"Signore, Ti prego dona luce agli smarriti e disperati
per vedere la cupa profondità della loro tentazione.
Dà loro il Tuo amore affinché possano almeno intravedere
le ricchezze che Tu hai preparato per tutti noi.
Infondi in loro lo Spirito Santo
affinché possano vedere che Tu hai bisogno di loro
e li ami ed hanno ancora uno scopo nella vita,
quello di trasmettere l'amore e la misericordia che hai per loro.
Dà loro la speranza per il futuro e lasciali vivere, Signore".

Antonio Riboldi – Vescovo –
Internet: www.vescovoriboldi.it
email: riboldi@tin.it

Mi siete mancati a Rovigo 9 apr


scheda del libro qui

venerdì 2 aprile 2010

Pasqua - Resurrezione del Signore (Anno C)

Omelia del giorno 4 Aprile 2010

GESÙ È RISORTO E NOI CON LUI: ALLELUIA!

Mi preme anzitutto porgere a tutti un grande augurio per questa divina e sublime Festa, che riguarda tutti noi ed è la vera sorgente della speranza e della felicità: la SANTA PASQUA.

La Gioia che Gesù ci dona raggiunga tutti e dia alla vostra vita il 'vero respiro' del cuore, che sgorga proprio dal Divino Amore del Padre.

AUGURI e Vi assicuro che TUTTI SARETE PRESENTI NELLA MIA PREGHIERA E GIOIA, CON AFFETTO.

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La Pasqua è, per noi cristiani, la più grande festa dell'anno liturgico. Vogliamo metterci per un giorno nei panni degli Apostoli, di Maria SS.ma, Sua Madre, e di quanti amavano Gesù, pronti a seguirLo fino in fondo. E Lo amavano sul serio, 'scelto' come 'il Tutto della vita'.

Per Maria SS.ma poi Gesù era 'il figlio prediletto'. Un figlio 'venuto dal Cielo', è proprio il caso di dirlo: annunziato dall'arcangelo Gabriele, nato per opera dello Spirito Santo, circondato da tante profezie e fatti straordinari, ma anche il Figlio dell'uomo, 'intessuto' nel Suo verginale grembo, 'sangue del suo sangue'.

I 30 anni, vissuti 'insieme' a Nazareth, nella semplicità e povertà, dovevano essere stati per Lei una vera esperienza di 'vivere con Dio', anche se l'ombra della Croce era sempre presente, a cominciare dalla Natività a Betlemme. Con il cuore sempre pronto a ricevere e conservare ciò che sentiva, vedeva ed accadeva al Figlio, chi meglio di Maria poteva affermare quanto poi anche l'apostolo Paolo dirà di sé: 'Per me vivere è Cristo'?

Un grande Bene, un Dono celeste, come nessun altro: un vivere in pienezza, che non può avere nulla di migliore da contrapporre.

E Maria lo aveva accolto, questo Dono, vivendolo fino in fondo, accompagnando Gesù nella Sua missione, fino a percorrere la via del Calvario, 'stando' sotto la Croce, completamente unita a Lui. Ma ora Gesù era morto, era stato sepolto.

Scomparso dalla loro vista, ma non dalla loro vita.

Quanti non amavano Gesù, forse avevano ritrovato una misera e umana tranquillità di chi non sa, ancora oggi, riconoscere il Bene che è Dio per tutti, e quindi non possono amarLo.

Sapevano — come sappiamo — che le futilità, di cui tante volte riempiamo la nostra esistenza, ci nutriamo, sono come i fiori di cartapesta, ma si accontentavano, anzi forse preferivano questo: `uomini di dura cervice', arroccati nel proprio ego.

Per Maria e gli Apostoli deve essere stato davvero angosciante e triste quel venerdì e sabato santo.

Sulla nostra misera terra era apparsa, in Gesù, il Figlio fatto uomo per noi e come noi, la Grazia, ossia l'Amore stesso del Padre.

Gesù aveva camminato per un tratto di storia con noi e tra noi uomini.

Immensamente bello anche solo sapere che Dio 'fatto uomo', abbia sperimentato il sapore della nostra terra, fatto di speranze, ma anche di tante tristezze.

Ma quel sabato santo la terra, l'umanità si sentiva nuovamente tremendamente sola.

Voler cancellare le impronte di Dio tra noi – anche oggi – è cancellare l'alito di Vita di Dio in noi. Ma non era possibile che Gesù, la Vita, fosse stato spazzato via dalla morte, dall'odio o meglio dall'ottusità degli uomini... come pare continuino a voler fare oggi, stupidamente.

L'Amore, ricordiamocelo, è sempre una vita che resta, e non conosce fine.

Gesù lo aveva affermato più volte: 'Il terzo giorno risusciterò...Io sono la resurrezione e la vita'. Grande giorno la Pasqua... come se il passato di noi uomini, pellegrini senza patria dopo il peccato originale, orfani senza gioia, improvvisamente fosse spazzato via, facendoci entrare in un mondo nuovo, 'nelle braccia del Padre', aperte per sempre ad accoglierci... sempre che noi 'rientriamo in noi stessi' e crediamo in Lui, 'tornando a Casa'.

Cerchiamo di vivere insieme la Pasqua, mettendoci nei panni degli apostoli e di quanti non avevano cessato di sperare.

"Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino – racconta Luca – le donne si recarono alla tomba portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro, ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini, apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite, e avendo chinato il volto a terra, essi dissero: 'Perché cercate tra i morti Colui che vive? Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno'.

Esse si ricordarono delle Sue parole e tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli. Quelle parole parvero loro un vaneggiamento e non cedettero ad esse. Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende E tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto". (Lc. 14, 1-12)

E' comprensibile l'atteggiamento di stupore e di incredulità in chi era stato vicino a Gesù e Lo aveva visto morire in croce, martoriato.

Assomiglia tanto alla nostra incredulità di fronte all'annuncio che un giorno risorgeremo.

Se pensassimo che verrà anche per noi la Pasqua, quando saremo noi a risorgere e - speriamo - entreremo nella gloria del Risorto, come vivremmo più intensamente la nostra esistenza quaggiù!

Un pensiero che dovrebbe accompagnarci sempre, per dare alla vita quotidiana la giusta prospettiva con il senso dell'attesa di quel giorno.

Se vivessimo in tale consapevolezza, cambierebbe tanto di noi, che a volte ci affidiamo alla vita come una situazione 'provvisoria' senza futuro.

Per questo la Pasqua ci aiuta ad entrare nel Mistero della vita con Cristo. Il saluto dei primi cristiani era: 'Gesù è risorto! Alleluia!', come conferma della loro fede.

Così Paolo VI spiegava l'Alleluja: "Per noi questo Alleluia conserva il duplice significato originale di lode e di gioia, l'una e l'altra riferite al Signore ed erompenti dall'anima, piena, ad un tempo, di entusiasmo religioso e di gaudio spirituale. Anche noi oggi facciamo nostra l'esultanza commossa della Chiesa. Possiamo dimenticare questo avvenimento, che fa ricordare a noi e in noi rivivere la resurrezione di Cristo? La sua vittoria sulla morte? La sua promessa, già in via di iniziazione mediante la virtù e il sacramento del Battesimo che anche noi un giorno risorgeremo? Possiamo dimenticare che sul fatto prodigioso, reale e soprannaturale della resurrezione del Signore, si fonda la nostra certezza che Gesù è il Salvatore del mondo e quindi il nostro impegno a fare della nostra vita una testimonianza che appunto si chiama cristiana?

E tutto questo noi diciamo con la acclamazione convenzionale: Alleluia! Atto di fede, di fiducia, di gaudio, di vittoria, che in sé riassume una somma di verità e di sentimenti. E questo atteggiamento di lieto vigore dell'anima si va diffondendo fra tanti cristiani anche di oggi, tempo difficile: essi sono disinvolti e allegri a un tempo: e sta bene. Ma così sia, ad una condizione che li preservi dal decadere in naturalismo gaudente, che rischia di diventare illusorio. Occorre custodire nel tempo questa nostra fede e con essa la gioia interiore e la propria esteriore serenità. Sia l'Alleluja il canto che ci accompagni fino a quando sarà pieno in cielo con Cristo Signore!".

Esprimo così i miei auguri a tutti voi, carissimi, con un piccolo brano che scrissi anni fa, in occasione della S. Pasqua.

`Ci doveva essere un grande silenzio sul Calvario, quel mattino.

Il silenzio della paura, forse, per quello che era successo con la crocifissione di Chi meritava, per la Sua bontà, un grande altare.

L'ignoranza, l'odio, l'inferno che alle volte diventa il cuore dell'uomo, credevano di averla spuntata addirittura su Dio, che è l'Amore.

Forse ci fu chi, quella notte, si era compiaciuto del male fatto, ma si può essere felici quando crocifiggiamo Gesù con i nostri peccati?

Regnava anche il silenzio dell'attesa, quel mattino!

Silenziosamente si alzò il sipario della Vita, come se il mondo aprisse gli occhi per la prima volta. Era la Pasqua di resurrezione di Cristo, nostro Signore.

Finalmente era spuntato il Giorno del Signore, giorno che non conosce tramonto e fa tramontare definitivamente il giorno dell'uomo, che è sempre notte.

Tutto il creato, quel mattino, deve aver spalancato gli occhi, sbalordito e commosso di aver ritrovato i passi del Suo Signore. Ogni fiore deve aver fatto cadere l'ultima goccia, che lo chiudeva nella notte, come una lacrima di gioia, vestendosi a festa. Era il giorno del Signore!

ancora oggi il giorno del Signore. Alleluia!

Eppure ci sono ancora tanti uomini e donne che si affaticano stupidamente e tragicamente a costruirsi un Golgota, convinti di creare 'giorni di uomini', illusi di poter, ancora una volta, oscurare il giorno del Signore.

Ma ci sono anche - per Grazia di Dio - oggi, uomini e donne (e tra questi voi che mi leggete) che si fanno riempire gli occhi di stupore e il cui cuore trabocca di amore, raccontando le meraviglie del mattino della Resurrezione. Sono uomini e donne 'pasquali', che con gioia e sincerità sanno farsi lavare nel sacramento della Penitenza dal Sangue di Cristo, per essere perdonati e continuare a vivere, giorno per giorno, nella Gioia del Risorto.

Viene da pregare con le parole della sequenza della Messa di Pasqua:

Raccontaci, Maria, che hai visto sulla via?
La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto e vi precede in Galilea.
Sì, ne siamo certi: Cristo, nostra speranza è risorto,
Tu, Re vittorioso, portaci la Tua salvezza.



Antonio Riboldi – Vescovo –

Internet: www.vescovoriboldi.it

giovedì 1 aprile 2010

Contributo a 4 mani


intervento di Guido Passini e Morena Fanti al convegno faentino Scrittura e impegno



La poesia, è una delle tante arti, dei tanti veicoli di comunicazione che il mondo di oggi utilizza. Lo posso affermare senza destare suscettibili provocazioni, ma sono altresì certo che sia il mezzo più bistrattato dai media attuali. Nonostante questo trovo nella poesia e quindi nella maggior parte dei poeti che conosco una vera voglia di esorcizzare quello che oggi è diventato un punto esanime del mondo. L'impegno. L'impegno visto come un modo per portare alla luce, un modo per identificare un problema e fare si che il mondo conosca, sappia ciò che lo circonda. Ho sempre creduto che la poesia nello specifico sia l’arte che riesce a mettere in evidenza l’uomo. Tutti i giorni siamo investiti da cronache, da spot, da monologhi, leggi… bugie.
Siamo pronti a crederle, siamo pronti a giudicarle, e giudicare, ma non riusciamo mai a metterci nei panni di chi lo sta vivendo. Siamo a un punto che ci lasciamo condizionare dagli eventi, ritrovandoci a catalogarli in base ad annunci. In tutto questo che fine fa l'uomo? L’uomo come me, come te, come lei, come voi.
L'uomo perde di valore in tutto questo, perché siamo i primi ad aver perso il tempo di ascoltare. Per questo arriva in aiuto la poesia. L'arte che nasce dall'io più nascosto, in grado di parlare degli argomenti più svariati; in poche parole si mostrano le sensazioni più disparate. Mi verrebbe da dire che la poesia è lo spot per eccellenza della vita. La poesia è quello che in parte mi salva ogni giorno. Dico in parte perché ovviamente prima vengono l’amore e l’amicizia, ciò che ogni giorno mi supporta in quello che faccio, in quello che dico e in quello che scrivo. Dopo questo, credo, e lo dico con soddisfazione, venga la poesia. Pensando all’uomo che sono oggi, non sarei in grado di vedermi senza la poesia. L’impegno civile, che ho intrapreso con quest’arte va oltre ogni sacrificio, va oltre ogni dolore, va oltre le soddisfazioni che posso trovare in altri progetti. Con la poesia ho vuotato più volte l’anima, per poi lasciarla nuovamente riempire degli eventi che costituiscono la vita quotidianamente, per poi tornare a vuotarla. Per quel che mi riguarda l’impegno è quello che ho rivolto verso la malattia che mi vede lottatore da trent’anni. Parliamo di Fibrosi Cistica, una malattia considerata rara, una malattia che uccide ogni giorno senza preavviso. Mi piacerebbe oggi, in questo momento alzare gli occhi e contare gli occhi di chi conosce questa realtà, presumo molto pochi, e quindi più volte mi sono chiesto il motivo di questo. Semplicemente perché non se ne parla, se non in ambito medico. Ecco perché nascono libri come Senza Fiato, che mi vede curatore e autore, dove l’unico tema delle poesie e racconti brevi, nonché quadri sia appunto questa malattia. Questo è stato il mio Impegno verso l’uomo, verso me stesso, verso i quasi cinquemila malati di fibrosi cistica presenti oggi in Italia. Mi sono messo a nudo, ho messo a nudo la sua storia, il suo passaggio, ho messo in luce uno dei tanti tasselli che compongono questa vita. L’impegno di far vincere la speranza, la forza, il coraggio di reagire in ognuno di noi, la forza di credere che un giorno tutto sarà più bianco. Questo è quanto la poesia per me vale. Ricordo con orgoglio il giorno in cui lanciai questa raccolta di poesie sul web, alla ricerca di chi avesse avuto la volontà di aiutarmi in questo atto d’amore. Ancora meglio ricordo il giorno in cui trovai un editore, qui al mio fianco anche oggi, che ha creduto in questo progetto. Ho scritto un altro libro, partecipato ad altre antologie, e se Dio vorrà ne scriverò ancora altri, ma un giorno purché sia vorrei essere ricordato come il curatore di Senza fiato. Questo perché non importa quanto bene o male sappia aver scritto, non importa quanto la gente mi riconosca, ma è importante essere ricordato per un messaggio lanciato, e Senza Fiato è senz’altro il messaggio più bello che potessi trovare. L’impegno per la vita.
Se la poesia sapesse darmi vita, cosi quanta io ne riversi al suo interno, avrei la possibilità di rivivere ancora, o forse nel mio piccolo lo sto già facendo.


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La scrittura, apriscatole delle menti

L’impegno in scrittura è possibile esprimerlo in tanti modi e con tante modalità espressive. Lo scrittore, proprio perché voce udibile da tante parti e da molte persone, ha un dovere morale e civile verso i lettori. Anche quando disegna opere di pura fantasia, non è mai scollegato dal resto del mondo, e può usare, quindi, la sua fantasia per disegnare mondi in cui noi ritroviamo le asperità della nostra vita, offrendoci visioni allargate e spunti di riflessione. Un testo non deve mai lasciarci indifferenti: può indignarci, offenderci perfino. Anzi, dovremmo augurarci che ciò accada: se così fosse, lo scrittore avrebbe raggiunto il suo scopo, ci avrebbe dimostrato il suo Impegno.
Abbiamo avuto in passato tanti scrittori che hanno usato la loro penna per raccontare la loro indignazione, il loro rammarico, il dolore, denunciando problemi civili e sociali. Penso ad un Pier Paolo Pasolini ad esempio. Leggere le parole di chi vive le cose sulla propria pelle e le trasforma in emozioni e sentimenti comprensibili da chi legge, è un modo per capire cose che non possediamo o che ci risultano ancora incomprensibili. È un modo per allargare la nostra visuale e approfondire la conoscenza: in una parola “aprire la mente”. Ecco cosa la scrittura, sia poesia o prosa, dovrebbe fare.
Abbiamo ancora oggi, scrittori capaci di usare se stessi per aprire le menti? Perché di questo si tratta: di usare il proprio vissuto, il proprio corpo, quell’insieme di sensi e materia, di vita e di esperienza, per scrivere e denunciare.
Quando ho conosciuto Guido ho pensato subito a una certa somiglianza tra di noi, tra le nostre vite e le scelte che abbiamo fatto. In ogni emergenza che ci troviamo ad affrontare abbiamo sempre, anche quando non sembra possibile, due o più possibilità. Possiamo dirigere la nostra vita verso più direzioni e anche cambiarla, perfino migliorarla.
Questo è ciò che ha fatto Guido e questo è ciò che significa “impegno”. È un impegno civile e sociale, quello che anima i suoi gesti e trasforma i suoi pensieri in parole, ed è ciò che ci piacerebbe vedere e sentire più spesso.
Usare la scrittura, la poesia, per forzare le coscienze, per scardinare le anime e ribaltarle dovrebbe essere una strada più praticata.
Quando si scende dentro i nostri sentimenti più forti e si trasformano in scrittura, in comunicazione, in parole che aprono le menti, ecco che la scrittura diventa davvero “l’apriscatole delle coscienze”, uno strumento sociale di crescita per tutti.

Dare voce al silenzio: questa è la grande possibilità che ha la scrittura. Fare parlare le minoranze, le malattie sconosciute, gli aventi di cui nessuno parla. Sono discorsi difficili e non tutti li vogliono ascoltare; è quindi una letteratura destinata ad avere meno risonanza di altra scrittura che usa il testo per creare mode o suscitare morboso interesse, ma basta che una sola persona conosca cose che prima non sapeva, basta che una persona si avvicini ad argomenti da cui rifuggiva, e l’impegno diventa solidarietà d’intenti e di pensiero.
Perciò chi scrive non si deve lasciar fuorviare dalle esigenze di cassetto e deve affrontare argomenti scomodi, se questo è ciò che sente. Sentire e credere in ciò che si fa dà grande forza alle parole che arrivano dirette e coraggiose a chi legge. Queste parole, poi, si nutrono dei sentimenti che esse stesse hanno suscitato, generando un circolo che si autoalimenta e che cresce sempre.
E i sentimenti sono potenti: certi sono anche sintomo e sinonimo di Vita.
Concludo con un pensiero sul libro Senza fiato, ideato pensato e curato da Guido Passini, e sul mio Orfana di mia figlia. Quando abbiamo scritto non ci conoscevamo ancora, ma abbiamo seguito percorsi simili, partendo dalle nostre esperienze e cercando di portare conoscenza e condivisione.
Io ero in un momento particolare di grande dolore. Ho intuito che chi si trovava nella mia stessa situazione avrebbe potuto trovare un motivo di consolazione leggendo i pensieri di qualcuno che aveva provato sentimenti simili ai propri. Credo inoltre che parlare di ‘cose scomode’ possa aiutare chi le vive e non osa parlarne, facendogli sentire che non è solo e che qualcuno condivide i suoi pensieri.
Ma, e non è da considerare ultima, credo che anche chi non vive le cose possa trarre buoni spunti di riflessione leggendo ad esempio ciò che scrive Guido Passini sulla fibrosi cistica. Conoscendo i sentimenti, i disagi, le emozioni e i dolori altrui, possiamo crescere tutti.
La scrittura è il mezzo più immediato per coinvolgere molte persone contemporaneamente ed è uno strumento potente.
La letteratura, e nella sua forma più ‘alta’, la Poesia, hanno questo grande potere. Dobbiamo augurarci che continuino ad usarlo.

Morena Fanti

13 marzo 2010