domenica 29 novembre 2009

La poesia, il sacro, il sublime: alcune foto

Intensa e ricca di spunti, testimonianze, percorsi poetici, di pensiero e di vita… la giornata milanese del 28-11-09 organizzata da Adele Desideri e Alessandro Ramberti che ha visto la partecipazione di Tomaso Kemeny, Davide Rondoni, Dome Bulfaro, Paolo Rabissi, Eros Olivotto, Isabella Vincentini, Alberto Mari, Patrizia Rigoni, Rosa Elisa Giangoia, Maria Carla Baroni, David Aguzzi (che ha scattato quasi tutte le foto qui sotto, Maria Pia Quintavalla, Ottavio Rossani, Giuseppe Curonici, Riccardo Burgazzi, Giancarlo Pontiggia, Nino Di Paolo, Luigi Cannillo, Alfonsina Zanatta, Cinzia Demi, Angela Passarello, Gabriela Fantato, Mariangela De Togni, Natascia Ancarani, Luigi Metropoli, Paolo Fichera, Carlo Penati e altri: grazie a loro e a tutti i partecipanti che hanno animato il frizzante dibattito finale. Un grazie particolare a uno sponsor che desidera restare anonimo e ai padri carmelitanti che ci hanno ospitato.

venerdì 27 novembre 2009

Non senza l'altro a Milano 28 nov


         stati generali degli immigrati in italia
legittime aspettative: il cammino degli immigrati nella nuova italia 
Milano 28 novembre 2009

non senza l’altro.
per una creazione di culture ospitali
di Ivan Nicoletto, monaco di Camaldoli

           
Avvio
Ringrazio di cuore il signor Otto Bitjoka per l’invito rivoltomi a partecipare a questo incontro.  Desidero esprimere la mia gratitudine anche a tutti gli immigrati e le immigrate che con la loro presenza, disseminata sul territorio, contribuiscono a forgiare il profilo di una nuova Italia, con la molteplicità dei volti e degli aneliti, dei bisogni e delle aspettative, dei patimenti e della creatività di cui sono portatori e portatrici. Grazie a loro, la nostra società viene traghettata da un microcosmo chiuso e impaurito, verso il più ampio contesto di una società europea e mondiale, multietnica e multiculturale.
            Credo sia essenziale, nel passaggio d’epoca travagliato che stiamo vivendo, educarci ad un respiro ampio del pensiero e della visione, per non naufragare in un presente senza profondità e prospettiva. Direi che è lo stesso crogiolo di trasformazioni rapide e profonde della nostra vita personale, sociale e planetaria, a nutrire delle aspettative verso di noi. Sollecita in ciascuno di noi la creazione di mentalità e di identità ospitali, che non respingono, per paura, il proliferare delle diversità, ma si arricchiscono della relazione con esse, tanto da considerare le differenze non come ciò che minaccia di disintegrare il mondo, bensì come ciò che lo tiene unito, e lo apre ad un futuro. Uniti dalle e nelle diversità che siamo, verso una coabitazione che non porta all’uniformità dell’assimilazione, ma ad una convivenza delle diversità [Z. Bauman 2009].
Per questo ampio sguardo sulla storia, mi sembra istruttiva la visione dell’Italia che ci offre l’ultimo volume degli Annali della Storia d’Italia Einaudi, che porta il titolo Migrazioni [P. Corti e M. Sanfilippo 2009]. La nostra penisola appare come un molo che si adagia sul Mediterraneo da tempi immemorabili, per vocazione luogo di movimenti umani. I nostri confini sono sempre stati attraversati, simultaneamente, in entrata e in uscita, da flussi di emigrazione e di immigrazione che ci rende tutti emigranti. Questa mobilità interna ed esterna sfata  il mito della nazione etnica, che ci rende titolari di una cittadinanza originaria ed esclusiva, e rivela invece che siamo l’esito di una lunga sequenza di processi ibridativi con le diversità delle genti con cui siamo venuti a contatto, immettendoci così nell’odierna prospettiva di una cittadinanza globale.
La breve riflessione che condivido con voi, in tre sguardi, è un tentativo di fare spazio, nel nostro corpo, a questa cultura ospitale che sa trarre beneficio della presenza di ciascun altro/a.

1. L’opportunità di fare-mondo insieme o di fare-muro
La nostra civiltà sta vivendo un passaggio importante del suo lunghissimo percorso evolutivo, che implica un profondo mutamento antropologico. Con la straordinaria accelerazione di quest’ultimo secolo, per la prima volta nella storia ci viene offerta l’opportunità, mai data finora, in cui tutte le tribù umane possono incontrarsi e scambiare saperi, valori, tradizioni ed etiche; possono imparare a sentire, pensare e agire insieme, collegati da strumenti mediatici e da vicende globali che noi stessi abbiamo approntato.
L’emblematico crollo del muro di Berlino, avvenuto appena due decenni fa, è stato l’avvio di un travolgimento di moltissimi confini geografici, razziali e culturali stabiliti [T. Friedman 2006].
Contemporaneo a questo movimento di comunicazione e di contaminazione fra persone e idee, beni e tecnologie, sono insorte però molte controspinte impaurite, che producono l’innalzamento di tante altre mura, visibili e invisibili: quello della West Bank fra Israele e Palestina, alla frontiera fra California e Messico, fra Tibet e Cina, in Via degli Anelli a Padova, barricate contro i campi nomadi di Verona… e, ultimamente, le crociate White Christmas nelle terre del bergamasco…
Mura erette a difesa degli stati nazionali, o dei localismi, come risvolto securitario delle politiche di difesa, di paura, di esclusione, di sorveglianza e di controllo, che dopo l’11 settembre 2001 hanno trasformato l’idea stessa di comunità nella forma di una fortezza assediata da nemici.
Il paradosso drammatico che stiamo vivendo è infatti un mondo che esalta il libero mercato, i legami d’interdipendenza e di circolazione delle persone, ma contemporaneamente chiude le frontiere a coloro che anelano a condividere il benessere raggiunto da alcuni, innesca una spirale crescente di ostilità, dove la semplice diversità viene ritenuta devianza, se non crimine.
Il recente decreto di sicurezza sull’immigrazione, con l’introduzione del reato di clandestinità, che fa terra bruciata intorno all’immigrato, e mina radicalmente la possibilità della solidarietà nei suoi confronti, testimonia la fatica che facciamo tutti ad accogliere la sfida che la specie umana non ha mai finora affrontato in modo così impellente, ossia di approntare le forme politiche e sociali convenienti ad una civiltà globale composta di differenze singolari, dove convergono occidentali e orientali, islamici, turchi e confuciani, cinesi e africani, buddisti e slavi… e innumerevoli altre civiltà, culture, spiritualità... Un incontro con lo straniero non soltanto fuori dalle nostre frontiere, ma all’interno delle nostre stesse realtà locali, che ci chiede di inventare dei comportamenti nuovi, rispetto a quelli ereditati dalla nostra specie finora, dettati da possesso, esclusione e repressione.
Che tipo di domanda ci rivolgono infatti i corpi, i volti, le mani protese di coloro che ci raggiungono con le loro fragilità, vulnerabilità e precarietà, se non un bisogno di relazione, di partecipazione, di condivisione?
Per disporci a creare questi nuovi spazi fraterni, sociali e politici accoglienti, occorre però uno sguardo che riconosca e disinneschi la miscela esplosiva della paura, delle dinamiche di immunizzazione, e del mito della purezza.

2. Disinnescare la miscela di paura, di immunizzazione, e di purezza
Tutte le vicende che si susseguono in questo periodo, nel rapporto con gli immigrati, sono sintomi di una cultura che genera e alimenta paura nei confronti di tutto ciò che è diverso, che parla una lingua, indossa una pelle e una cultura diverse. Una paura strumentalizzata politicamente, che combatte sistematicamente questi altri come se la differenza stessa fosse sinonimo di pericolo. Non riusciamo a pensare l’altro, a pensarci in relazione con l’altro, a rispecchiarci nel volto dell’altro.
Alzando continuamente la soglia di attenzione delle nostre società nei confronti della minaccia, regrediamo ad uno stadio di aggressione contro tutti i diversi, e torniamo a creare nuovi particolarismi, a rifugiarci nelle tradizioni locali, nelle piccole patrie chiuse e murate nei confronti del loro esterno. In realtà, il risultato è opposto alle aspettative: invece di proteggere, le barriere cristallizzano le differenze, favoriscono il ripiego identitario, e alimentano proprio quella paura che dovrebbero contenere. Più ci si chiude all’altro, più la paura aumenta, finché progressivamente si finisce con il credere che i nemici siano ovunque, e che tutti i mezzi siano legittimi per proteggersi.
Le paure innescano delle dinamiche immunitarie. Immune è il corpo individuale o sociale che vuole circoscriversi nella sfera del proprio interno, vuole conservare integra la propria sostanza, vuole essere proprietario di se stesso, autosufficiente. Crea una distanza/distacco dall’altro, dall’esterno, da tutto ciò che minaccia di attraversare i propri confini di corpo, e si rinchiude nel guscio della propria soggettività, innescando una reazione difensiva contro ogni minaccia di alterazione esterna [R. Esposito 2008].
Questa paura, che si immunizza contro l’altro, alimentando nuove forme di xenofobia, ha la propria matrice nel principio di epurazione. Il concetto e la ricerca di purezza risulta uno dei temi più problematici della storia dell’uomo, perché è legato all’idea di estrarre dal mondo delle forme o delle identità perfette, autentiche, preservate dal disordine, dalla contaminazione, dall’ibridazione e dalla devianza. Il riferimento alla purezza conduce ad interpretare le identità non come corpi dialogici, bensì come isole che devono preservare il loro profilo costruendo dei muri, rafforzati da pretese di egemonia, superiorità, eccellenza..
Non intendo dire che l’incontro fra culture o la compresenza di pluralità etniche siano situazioni di interscambio armonioso e senza conflitto, ma che l’idea di purezza scatena delle dialettiche oppositive, comporta un atto di violenza per il ripristino dell’ordine e della pulizia, appellandosi a principi, valori, usi e costumi che si immaginano originali e primigeni.
Questo orientamento porta a vedere la mutazione, il mescolamento, la pluralità come qualcosa a cui opporsi, per questo  la ricerca della purezza porta a semplificare, distruggere, ripulire, allontanare, omologare, sacrificare. Il diverso diventa barbaro, deviato, entità estranea, alieno.
            Considerati gli eventi di globalizzazione in atto, caratterizzati dal multiculturalismo e dall’interscambio, ogni appello alla purezza e alla immunizzazione diviene, inevitabilmente, foriero di scontri e di battaglie, un risuonare di armi, per cui l’unica strategia percorribile è quella integrativa delle diversità, un nuovo pensiero di comunità o di identità che ospita singolarità fra loro irriducibili, aperte alla differenza da sé.
Vivere in un processo di ospitalità permanente non significa dissolvere la propria casa o identità, ma mantenere aperta la soglia di ingresso e le finestre, per una condivisione e  una reciprocità, abitanti di un unico mondo che abbiamo in comune, a cui apparteniamo in modo dialogico, che non è appropriabile da nessuno [L. Irigaray 2008].
            Un’identità forte, in questo contesto, si costituisce nella capacità di venire a contatto, esporsi, dialogare, interagire con-creativamente con le diversità. Risulta invece debole, quell’identità che crede di rafforzarsi separandosi, difendendosi, pretendendo di salvaguardare una chimerica, incontaminata purezza, che è un’illusione. Come le parole che accompagnano l’invito a questo incontro: “Conoscere una sola lingua, un solo lavoro, un solo costume, una sola civiltà, conoscere una sola logica, è prigione”.
           
3. Culture e spiritualità ospitali: non senza l’altro
            In questo contesto attuale di globalizzazione multiculturale da un lato, e il suo controcanto immunitario e xenofobo dall’altro, come si pongono le tradizioni religiose, le fedi, le spiritualità?
Sono terreni che promuovono l’incontro, il dialogo, l’accoglienza, oppure, al contrario, favoriscono l’intolleranza, lo scontro, gli assolutismi?
            L’esperienza storica dei nostri monoteismi ci insegna che possiamo brandire come un’arma il nome del nostro Dio, per imporre un ordine sacro, il proprio, e combattere quello falso o corrotto degli altri… E sappiamo che non c’è forza maggiore di quella che si sprigiona dall’identificazione con le potenze ritenute divine, che ci garantiscono con la loro protezione.
            Credo che questo frangente della storia rappresenti per tutte le fedi e le spiritualità l’occasione di scoprirsi umani, saggi e religiosi nelle forme più diverse, tutti appartenenti all’avventura immensa e imprevedibile della terra. Nasciamo ad una nuova visione di Dio come la straordinaria creatività che ci avvolge e ci accomuna, come quella sorgente che tutto vivifica ed è immanente presenza, nella cui luce tutto è interconnesso e diviene, e che noi umani simboleggiamo nei mille nomi e nei mille volti di Dio.
Il contatto con altre tradizioni ci apre oltre noi stessi, e non sappiamo se nascerà qualcosa di nuovo, ma intanto facciamo vivere le differenze senza disprezzo, anche se in modo sofferto, in un atteggiamento di ascolto e di simpatia.
Tale emergenza ci sollecita a non asserragliarci in identità chiuse e arroganti, ma sprona ciascuna fede e spiritualità a produrre frutti di comunione e di umanità, a coltivare e promuovere le figure relazionali e accoglienti della propria tradizione.
La tradizione cristiana alla quale appartengo, si alimenta di due misteri centrali, come i due fuochi di un’ellisse, misteri che ci dispongono ad un’esistenza aperta, accogliente e dialogale con gli altri. Essi sono la trinità e l’incarnazione di Dio.
La trinità non è dominio di un Uno assoluto, che dissolve le differenze, ma è una comunicazione di diversi che suscita inedite forme di ospitalità accogliente. Ogni persona divina non fa corpo su se stessa, ma è relazione aperta all’altra, in un gioco fra libere e irriducibili differenze, unite da un legame di Amore, per il quale uno non è mai senza l’altro: non senza te [M. De Certeau 1993].
L’incarnazione è il secondo evento di fede: Dio rivela il suo volto umano nell’esistenza amante di Gesù. Egli è la rivoluzione pericolosa e misericordiosa di Dio, che si concretizza in un’attiva compassione e indignazione per togliere i motivi di pianto e di disperazione, di esclusione e di inimicizia dalle relazioni intraumane, consentendo al nuovo di sprigionarsi, di rompere la ripetitività dell’oppressione, per instaurare legami di fiducia e di condivisione.
Il Figlio di Dio rivela un bene per il mondo così incondizionato, da spalancare senza misura le porte e le finestre del proprio corpo per abbracciare tutti, fino a destabilizzare le gerarchie e le potenze di questo mondo, che vivono sul dominio e sull’ingiustizia.
La pace, il bene, la giustizia di Dio non sono però belli ideali, teorie disincarnate: il figlio dell’uomo conosce e attraversa le tenebre, il conflitto, le resistenze che l’umanità oppone alla benevolenza, che ha come esito tragico una morte di croce.
L’immaginazione creatrice e amante di Dio non si ferma però nemmeno di fronte alla potenza della morte iniqua. La resurrezione è l’insorgenza di un amore così forte che non si rassegna al fallimento, ma riapre la storia al nuovo, all’inedito, all’impensato. Questo, forse, implica per i credenti meno preoccupazioni per i crocifissi esposti negli edifici, e più testimonianze di accoglienza e di liberazione che il crocifisso vuol significare.
Mi sembra inoltre che non ci sia realtà così distante e opposta fra il richiamo ad una appartenenza cristiana e ogni comportamento aggressivo, violento e intollerante nei confronti del diverso, dello straniero, soprattutto se povero.

Conclusione
Concludo questa riflessione con la consapevolezza che oggi stiamo vivendo in una temperie, europea e mondiale, in cui un ordine sta venendo meno, e un altro sta nascendo. Nel trapasso, le identità nazionali e politiche, economiche e religiose, che hanno fatto finora da cornici di senso e di valore, sono sfidate a trasformarsi profondamente, e non a  reagire chiudendosi in se stesse, divenendo normative, aggressive, e talvolta sanguinarie.
Questo tempo ci sprona, invece, a non aggrapparci alle mappe già conosciute, ma a crescere in una prospettiva pluralista, e in un quadro istituzionale, politico e religioso inclusivo, cogliendo nelle differenze un potenziale creativo senza precedenti. La possibilità di mettere insieme esperienze, visioni, sensibilità, memorie, competenze può portare alla creazione di una nuova, inedita cultura, che non può fare a meno dell’altro, dell’immigrato, e non solo per ragioni economiche, ma come presenza che contribuisce a forgiare la futura identità dell’Europa, il volto del nostro pianeta.
A noi la responsabilità creativa di sviluppare un coinvolgimento aperto e simpatetico con le alterità, in una cornice di ospitalità che rende sacro lo straniero, anche se portatore di ignoto e di impensato. Ci siamo: tutti uguali, tutti diversi, tutti insieme.
             Termino, evocando l’immagine di un film che si intitola Crash, contatto fisico, vincitore dell’Oscar nel 2004. La vicenda si svolge  a Los Angeles, emblema della metropoli contemporanea anonima e corrotta, nella quale una stessa atmosfera sembra accomunare i rapporti fra bianchi e neri, integrati e nuovi immigrati, iraniani, ispanici e asiatici… è l'aria acuminata della paura e del pregiudizio etnico, diffusasi dopo l'11 settembre. Intriso ormai di quest'aria, ognuno è pronto a difendersi, o a reagire all'altro, con rabbia e con odio, che esplode per un qualsiasi motivo, per un sospetto qualunque.
Si ha come la sensazione che questa paura imprigioni uomini e donne in un circolo dal quale non si esce più, che induce a fare e a farsi del male, nell'incapacità di vedere e di lasciarsi guardare dagli altri: "Ci scontriamo l'un l'altro, perché così riusciamo a sentire qualcosa" - dice un personaggio del film - come se cercare lo scontro fosse un ultimo, disperato modo di incontrare l'altro, di sentire qualcosa…
Eppure, questa spirale di paura e di odio, che sembra avvolgere inesorabilmente tutto, a tratti s'interrompe. Lascia filtrare squarci di luce di un altro segno, di un altro regno… La stessa mano che prima aveva umiliato e offeso si offre ora come àncora di salvezza in un pericolo estremo; lo sguardo che prima era una muraglia impenetrabile si scioglie, e sa riconoscere, ricambiare quello dell'altro; la paura dello straniero invasore improvvisamente si scioglie in un abbraccio d'intesa amicale… e il colpo di pistola, programmato e sparato, è sventato dalla fiducia di una bambina e dallo scherzo del destino… Sono le scintille imprevedibili del divino che splende nel brusio meccanico e violento del mondo, suscitando spazi ricettivi, connessioni inedite, corrispondenze d'amore, istanti di grazia…
Alla fine del film, mentre la città è immersa nei suoi consueti ritmi frenetici e scontrosi, lo sguardo si eleva, sù sù, fino ad offrire una visione dell'ingorgo dall'alto, forse da un altro occhio, che la telecamera vorrebbe insinuare…e dal cielo inizia a scendere una neve che sembra abbracciare, benedire tutto il travaglio umano e cosmico…
La neve… e sulla neve le tracce degli umani… Quale orma o scia lascia sulla terra il mio passaggio? Una scia luminosa, cercante, amante, accogliente? …Oppure un camminamento che dissemina ferite, risentimenti, odi?
In quali mani ho riposto il mio cuore, in chi ho rimesso la mia fiducia, per chi gioco la mia vita?
Grazie del vostro ascolto, attento e ospitale!

sfondo bibliografico
Zygmunt Bauman [2009], Quel diverso che ci fa paura. Perché la tolleranza non basta più, in La Repubblica 16 novembre.
Ulrich Beck [2008], Conditio humana: Il rischio nell’età globale, Laterza, Roma-Bari.
Otto Bitjoka e Marina Gersony [2007], Ci siamo. Il futuro dell’immigrazione in Italia, Sperling & Kupfer, Milano.
Paola Corti e Matteo Sanfilippo (a cura di) [2009], Annale 24 della Storia d’Italia dedicato alle Migrazioni, Einaudi, Torino.
Michel De Certeau [1993], Mai senza l’altro, Quiqajon, Magnano.
Carmine Di Sante [2002], Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina.
Roberto Esposito [2008], Termini della politica. Comunità, Immunità, Biopolitica, Mimesis, Milano.
Thomas L. Friedman [2006], Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, Mondadori.
Luce Irigaray [2008], Condividere il mondo, Bollati Boringhieri, Torino.
Ivan Nicoletto [2008], Transumananze. Per una spiritualità del/nel mutamento, Città Aperta, Troina.
Raffaele Nogaro [2009], Ero straniero e mi avete accolto, Laterza, Roma-Bari.
Giangiorgio Pasqualotto [2003], East & West. Identità e dialogo interculturale, Marsilio, Venezia.
Amarthia Sen [2006], Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari.
Tzvetan Todorov [2009], La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano.
Bernhard Waldenfels [2008], Fenomenologia dell’estraneo, Raffaello Cortina, Milano.

suggerimenti filmografici
Crash, contatto fisico, di Paul Haggis
Lasciami entrare, di Tomas Alfredsom.
Verso l’Eden, di Costa-Gavras
Il giardino dei limoni, di Eran Riklis
L’ospite inatteso/The Visitor, di Thomas McCarthy
Welcome, di Philippe Lioret
La cosa giusta,  di Marco Campogiani
La straniera, di Marco Turco
Giallo su Milano, di Sergio Basso
Francesca, di Bobby Paunescu

giovedì 26 novembre 2009

Alex Celli e Il ritorno di Chicken Breast al Mulino di Poggio Berni (RN)



Martedì 1 dicembre alle 21.00 Alex Celli presenta l'ultimo volume dedicato alle fantasmogoriche avventure esistenziali di Chicken Breast e dei suoi amici e nemici.
Il tutoo presso la nuova sede della biblioteca di Poggio Berni - Mulino Sapignoli (di fianco a Brusarul)

Via Santarcangiolese, 4631
47824 Poggio Berni
Tel. 0541.629701 int. 215
Fax 0541.629158
Email: pbbiblio@tin.it

Giornate Tondelli 2009


Comune di Correggio - Assessorato alla Cultura - Isecs

Giornate Tondelli 2009
11 e 12 dicembre  – Correggio – Palazzo dei Principi

SEMINARIO TONDELLI – 9° EDIZIONE
           Incontro fra giovani studiosi e ricercatori
             dedicato all’ approfondimento di temi relativi all'opera di Pier Vittorio Tondelli

Venerdì 11 dicembre ore 15,00  
Presentazione di  Viller Masoni (Responsabile Centro documentazione Tondelli)
Introduzione di  Elisabetta Mondello (Università “la Sapienza”, Roma)
Massimo Sannelli  (Università di Genova)
Accontentarsi”, “Qualcosa”, “Tutto”: tre parole di Tondelli
Sciltian Gastaldi (Università di Toronto, Canada)
Tondelli, Palandri e gli anni Settanta : così lontani, così vicini
Francesca Giglio (Università di Tor Vergata, Roma)
Quel ragazzo...
Elisabetta Eugeni (Università di Perugia)
            La cultura americana in “Altri Libertini”
             Andrea Vighi (Università di Parma)
            “Mi considero infantilmente apolitico”. Nuove forme di impegno in Pier Vittorio Tondelli
            Andrea Gratton  (Università di Venezia) 
Breve storia della letteratura inventata: Pier Vittorio Tondelli

Marcin Kuczur (Università di Cracovia, Polonia)

La Hassliebe tondelliana per la città di Berlino

Federica Trotti (Università “La sapienza”, Roma)

La generazione di Tondelli nei 33 giri di “ Radiofreccia”



Sabato 12 dicembre ore 10,00  
            Gianni Cimador (Università di Trieste)
“Forse un drago nascerà” : il ’77 di Tondelli attraverso Giuliano Scabia

Christian Castellano (regista teatrale)
            “Autobahn”: Parola e corpo ad alta velocità. Tondelli e la ricerca di un ritmo narrativo
Gianpaolo Bigoli (regista), Patrizia Dall’Argine (sceneggiatrice)
I personaggi di Tondelli incontrano le persone di Tondelli

Alessandro Taddei e Enrico Caravita (autori teatrali)
Le varie parti di un viaggio

Fragile. Una storia di " disturbi alimentari" e di speranza.



dal sito http://www.genitori.it

di Laura Bonalumi

Laura Bonalumi è una scrittrice di talento e nel suo ultimo romanzo Fragile (FaraEditore) offre al lettore un testo originale, commuovente e, soprattutto, profondo.
La storia è quella di Anna, Anna la Fragile, una sedicenne ricoverata in ospedale che, come le vicine di stanza, soffre di “disturbi alimentari”. Ha perso, con il peso, il controllo del suo corpo e, soprattutto, fa fatica a gestire quel che pensa la sua testa.

Quando ci si imbatte in corpi consunti, in visi emaciati e spenti alla vita, siamo colti dalla pietà e dalla commozione, turbati da una patologia che crediamo di conoscere e che dimostra invece tutta la nostra impotenza.
Il cibo diventa per queste persone uno strumento di ribellione, veicolo di messaggi che rimangono per lo più inascoltati.
Laura Bonalumi ha dimostrato di saper padroneggiare la trama e, soprattutto la psicologia dei personaggi, le loro angosce ed i drammi che si consumano nel ristretto spazio di un’ala d’ospedale.

Un talento sobrio e capace di andare al di là delle apparenze, dietro le quali si nasconde un mistero che solo chi sa aprire il proprio cuore potrà comprendere.

mercoledì 25 novembre 2009

Con la testa fra i gomiti





Con la testa fra i gomiti.
Raggomitolato sotto le coperte, le gambe piegate sulle cosce, le cosce flesse sull’addome, con il corpo raccolto in posizione fetale per quanto me lo concede l’artrosi.
Sto.
La sveglia non ha fatto in tempo a suonare.
Come accade quasi ogni giorno mi sono svegliato un attimo prima, esattamente un minuto prima del click.
Da settimane, da mesi ormai, il suono della sveglia è un appuntamento mancato al quale io mi presento in anticipo.
La testa stretta fra i gomiti, c’è già luce, fuori.           
Mi ravvoltolo di più nelle coperte, non è più estate da un bel po’ di tempo, ormai, fra poco non sarà più nemmeno autunno; comincia a fare freddo.
Sto qui.
Gli occhi chiusi come uno che dorme, la testa presa in mezzo ai gomiti, schiacciata sul cuscino come a cercare una profondità, coperto solo da un lenzuolo e da un copriletto leggero (e ormai non è più estate già da un bel po’ di tempo, fra poco non sarà più nemmeno autunno, comincia a fare freddo), le gambe flesse contro il corpo piegato in posizione fetale come uno che dorme.
Fuori c’è già luce, io rimango ancora qui, la testa schiacciata sul cuscino, gli occhi chiusi come uno che dorme, il respiro regolare e profondo di uno che dorme.
Tempo che sto qui.
È il respiro che misura il tempo.
Non è presto, o tardi, non è prima o dopo nessun tipo di ora.
La sveglia non ha suonato, l’appuntamento con qualsiasi tipo di orario è un appuntamento mancato al quale io mi sono presentato in anticipo, non è nessuna ora e nessun tempo, il tempo è solo quello del respiro, profondo e regolare, lento.
Il respiro di uno che dorme.
Lo sento, il mio respiro.
Sento l’andare e il venire dell’aria nei polmoni, l’andare e venire del torace sotto le coperte, l’andare e venire del tempo che fluisce insieme all’aria dentro e fuori dai polmoni, tempo che va e che viene, che finalmente ha cessato di scorrere solo in avanti e che ora è qui con me, dove io sto, tempo che si muove fluente dentro e fuori me, nel ciclo regolare e lento del respiro che è di me mentre rimango qui col corpo flesso in posizione fetale per quello che l’artrosi mi concede, la testa presa stretta in mezzo ai gomiti schiacciata sul cuscino, fuori c’è luce ma io sto qui con gli occhi chiusi come uno che dorme.
Il tempo scorre ciclico dentro il mio tempo, il mio respiro è un rotolare ciclico e infinito mentre io, qui, non dormo.
Sto.

Per primo mi appare l’oblio.
L’oblio è una distesa bianca, un mare di liquido lattescente che occupa tutta la superficie, una distesa uniforme e piatta, uguale a se stessa in ogni parte della sua estensione, solo leggermente increspata, a tratti, da strie più dense e più corpose, ugualmente bianche ma più spesse, quasi materiche, che emergono dalla superficie in strisce disposte obliquamente, se ne riconosce la presenza solo dall’ombra che il loro rilievo disegna sulla superficie piatta e uniforme, immacolata, immobile.
Bianca.
L’oblio appare ai miei occhi chiusi, compare alla mia vista dentro i miei occhi chiusi, e sarebbe un oblio perfetto se non fosse per quegli addensamenti, per le sottili increspature oblique che prendono forma sulla distesa lattiginosa uniforme e infinita, onde tutte uguali a se stesse, perfettamente sincrone fra loro e sincrone con l’andare e venire del mio respiro, così come io lo sento entrare e uscire dal mio petto, dai miei polmoni, dalle narici schiacciate sul cuscino.
Ho la testa presa fra i gomiti sprofondata nella molle profondità del cuscino.
L’oblio non ha tempo, il suo esistere non conosce né prima né dopo, né alcun tipo di ora.
È.
Allo stesso modo non è in nessun modo né dentro né fuori di me, perché è l’oblio totale, unico e assoluto, e non ha nulla con cui mettersi in relazione, niente rispetto cui essere prima o dopo, dentro o fuori perché tutto ciò che è, è solamente oblio, e di ogni altra realtà non rimane più nemmeno il ricordo.

Poi, la Morte.
La Morte è un grande armadio di colore scuro con le ante aperte spalancate e con dentro nulla.
La Morte è un cassettone di colore scuro con i cassetti aperti spalancati e dentro nulla.
La Morte è un comodino da letto con lo sportello aperto spalancato e dentro nulla.
La Morte è tutti questi mobili di colore scuro aperti spalancati che stanno dentro il nulla, perché stanno dentro una stanza senza pareti, dentro un bosco senza alberi, dentro una cascata senza acqua, dentro un mattino senza luce, non appoggiano su un pavimento, non si accostano a un muro, non stanno vicini a niente né sopra o sotto o davanti o dietro a nessuna cosa.
La Morte, solamente, è.
Io la guardo da stare dentro i miei occhi chiusi e lei mi guarda dai suoi cassetti aperti, dalle sue ante spalancate, dal suo colore scuro sospeso in mezzo al nulla, entra ed esce da me col mio respiro, una Morte che è in risonanza perfetta con l’andare e il venire del mio fiato, Morte che finalmente ha cessato di essere solamente alla fine, e che ora è qui con me, fluisce e defluisce da me risuonando armonicamente col mio essere, Morte che è un andare e venire dentro e fuori di me ciclico e pulsante.
Morte che mi accoglie, aperta e spalancata, nei suoi cassetti spalancati in mezzo al nulla allo stesso modo nel quale io accolgo lei dentro il mio essere qui, nel nulla, dove sto con il corpo piegato in posizione fetale per quanto me lo concede l’artrosi.
E con la testa fra i gomiti.

Click.
Il minuto è passato, fra un istante la sveglia si metterà a suonare.
Spegnerla, se voglio farlo, equivale ad un gesto; non farlo, equivale a non muovere un gesto.
Comunque sia qualcosa che accade nel tempo, un gesto o un non gesto che comunque verrà trascinato via dal moto senza fine di un tempo che ha ripreso a scorrere solo in avanti, un tempo che, con tutti i suoi eventi collocati “prima” o “dopo”, non è più qui con me, in nessun modo ed in nessun istante è qui con me.
Il minuto è passato ormai da qualche istante, qualche istante fa c’è stato un click.
La sveglia suona, poco tempo dopo un mio “non gesto”.

Non c’è Morte, né oblio.
Solo “gesti” o “non gesti”, nel tempo.

Buongiorno, Marco.



venerdì 20 novembre 2009

È uscito il novo romanzo di Marco Bottoni


scheda del libro qui

Marco Bottoni
Mi siete mancati

€ 15,00 pp. 246 (Sia cosa che)
ISBN 978 88 95139 73 9
Un paese sulla riva del Po. Una piazza. Un campanile. Un’osteria. E, la domenica,
dopo il vespro, lo struscio sotto i portici.
Attorno, gli orti e i vasti cortili, le vigne e i broli, i boschi e le stalle. Campiture agresti
che sfiorano l’argine del Grande Fiume, il quale raccoglie, lungo il suo liquido percorso, storie, leggende, mattane, filastrocche e stramberie. Ci pensa la nostalgia a tradurle
in vibrazioni poetiche. In questa dimensione ambientale agiscono i personaggi che
Marco Bottoni coglie in un percorso episodico al quale non rimane estranea l’indagine
psicologica e il piacere dell’ironia.
Personaggi o interpreti? Distinzione difficile, perché le due figure si fondono.
È così per l’incallito giocatore di briscola nella fumosa atmosfera della bettola; è così
per l’ortolano itinerante con la bicicletta carica di gustose primizie; è così per il barbiere orgoglioso di un accurato taglio di capelli per il cliente in procinto di far visita al Papa.
È così per lo stravagante “cronista sportivo” che inventa, davanti ai tavolini dell’unico
bar del paese, le fasi e le conclusioni di tante tappe del Giro di Francia.
Cronache che diventano filastrocche, filastrocche che diventano appartenenze popolari.
Chi ha lasciato il paese, la casa, gli affetti, gli amici, il fiume, il campanile, e vive lontano, sente la mancanza di tanti irripetibili personaggi. E quando li pensa, il ricordo
diventa magone.

Nemo Cuoghi

Marco Bottoni, medico, scrive per passione dal 1999. Nel Novembre 2004 ha pubblicato L’Altro e altre storie con Montedit di Milano. Fara Editore di Rimini ha pubblicato nel 2005 due suoi racconti (“Storie di donne”) nella raccolta Antologia Pubblica; nel 2006 Sullo stesso treno e nel 2007 sei suoi racconti (“Vita”) nella raccolta Storie di Vita.
Con Prosecco e Prolegomeni – memorie di un filosofo da bar edito da Montedit nel 2007 ha vinto il Premio Nazionale di Letteratura umoristica “Umberto Domina” indetto dal Rotary Club di Enna.
Nel 2009 ha pubblicato Luna – quattro storie di scacchi e di mistero con la casa editrice Tindari di Messina.


giovedì 19 novembre 2009

Poesia e libri d'artista a Bologna 25 nov




presidente fondatore, Prof. Giorgio Celli


reading di poesia ed esposizione di libri d’artista,
in occasione della
giornata mondiale  contro la violenza Alle donne
(25 novembre 2009) 

In occasione della Giornata mondiale contro la violenza alle Donne,
l’Associazione culturale Club di Fantomas è orgogliosa di ospitare 

nei giorni 25, 26, 27 novembre 2009,
dalle ore 17 alle 19
presso il Teatrino di Fantomas
in vicolo Vinazzetti 1, a Bologna, (zona universitaria),

una originalissima iniziativa culturale, promossa dalla Casa editriceBeatrix V.T.”,
dal titolo:

Violenza e libertà:
 ovvero come rendere sublime l’esistere
contro ogni tentazione autoritaria”

Con la partecipazione degli Artisti:
Loredana Alberti, Anna Boschi, Manuela Candini, Gabriella Cappelletti,
Mirta Carroli, Maria Grazia De Stefani, Roberta Ferrara, Donatella Franchi, Benedetta Jandolo, Angela Marchionni, Rossella Piergallini, Rossella Ricci, Emanuela Santoro, Greta Schödl, Valentina Zanardi, Toni Bellocci,
Mario Boldrini, Lamberto Caravita, Roberto Marino
    
Musiche:
Fiorella Petronici

Sculture:
Loredana Alberti, Mirta Carroli, Roberta Ferrara

Ideazione e allestimento:
Angela Marchionni

con la collaborazione di:
Benedetta Jandolo (Ass. “Donne D’arte”)

Nel corso di questa inusitata kermesse, che è, nel contempo, mostra d’arte, performance teatrale, reading di poesia, ed esposizione di istallazioni scultoree, la Casa editrice “Beatrix V.T.” presenterà due nuovi volumi collettivi realizzati dagli Artisti che interverranno nei tre giorni della  manifestazione: 

la raccolta di poesie: “Dafne o del guadagno
ed il ‘libro d’Artista’: “Tekne: ius vitae necisque

Spiega Angela Marchionni, organizzatrice della mostra: “La casa editrice Beatrix V.T  presenta la voce collettiva di 20 artiste e artisti  coraggiosamente sostenuta da anni di serio lavoro nel campo dell’arte, che nel silenzio rintraccia non la colpevole complicità – si può essere complici anche facendo molto rumore – quanto la dignitosa ricerca di segni e parole capaci di incidere come ricchezza sociale  e come autonoma difesa, anche dalle violenze della comunicazione di massa.

 

Tutta la Cittadinanza è invitata.
 Il Sindaco e la Giunta saranno graditi ospiti.


Addetto stampa: Claudio Beghelli: 329/3231640 




opera di Lamberto Caravita

Incontri poliedrici a Forlì: Carla De Angelis e Il resto (parziale) della storia




scheda del libro qui

mercoledì 18 novembre 2009

Lectio a S. Miniato




India, Orissa, 17 Novembre 2009 - Foto di Krishnendu Halder
«Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme» (Luca, 19.28)



Carissime amiche e carissimi amici della Lectio divina,

è desiderio mio e di Stefano ricordarvi il primo incontro di Lectio divina di questo anno, programmato per giovedì 19 novembre alle ore 18.40 presso la consueta sede dell'Archivio storico del Cimitero, il piccolo edificio che si incontra entrando lateralmente nel piazzale di San Miniato al Monte.
Proseguiremo la lettura del Vangelo di Luca, in particolare il bellissimo capitolo 19, con il celebre episodio della sosta a casa di Zaccheo il peccatore e la nota parabola delle dieci mine. Orami siamo prossimi all'ingresso di Gesù a Gerusalemme...

Vi allego il testo che commenterò giovedì pomeriggio, mentre fin da adesso Vi ricordo che Sabato 5 Dicembre alle ore 15.30 dedicheremo la consueta meditazione mensile al tempo di Avvento, che interpreteremo come una vera e propria "scuola del desiderio"!
Ad entrambi questi incontri siete tutti invitati.

Vorrei con Voi tutti benedire il Signore per l'eccezionale partecipazione di amici e ascoltatori vari al nostro primo incontro lo scorso sabato 7 Novembre: io e Stefano siamo rimasti davvero colpiti nel vedere un centinaio di persone affollare l'antico frantoio per ascoltare con attenzione una riflessione sulla bellezza che spero di potervi inviare in tempi brevi. Vi ringraziamo di cuore per tanto interesse e Vi aspettiamo anche il primo sabato di Dicembre.

Ricordo anche che il secondo sabato del mese alle ore 16 ci ritroveremo con gli oblati e le oblate del nostro monastero per continuare gli incontri spirituali a loro dedicati, ma soprattutto per incontrare assieme a loro chi, anche attraverso questo annuncio, desiderasse meglio conoscere quel magnifico itinerario di sequela del Signore nella fedeltà al Vangelo, alla spiritualità benedettina e alla nostra comunità monastica che è l'oblazione. Chi lo fosse è pertanto invitato a visitare il sito http://www.oblatiinsieme.it/ e a salire a San Miniato il prossimo 12 Dicembre alle ore 16 presso lo stesso Archivio storico delle Porte Sante.

Vi allego le sintesi dei nostri due ultimi incontri di lectio della scorsa annata, che si riferiscono a versetti dei capitoli 17 e 18 del Vangelo di Luca. I testi in questione, corredati dalle consuete foto, sono stati impeccabilmente curati e redatti dalla nostra Alba.

Vorrei ancora segnalarvi che sono usciti, per i tipi dell'editore Fara, gli atti del secondo incontro di poesia tenuto a San Miniato al Monte lo scorso giugno. I saggi, fra cui splendide pagine di Giorgio Mazzanti e Antonio Spadaro, e i testi poetici lì raccolti indagano l'affascinante relazione fra poesia e profezia. Qui Vi allego anche il mio piccolo contributo per quella intensa giornata di riflessione e di amicizia. Notizie sul volume e modalità di acquisto le trovate visitando questo indirizzo www.faraeditore.it/html/neumi/poetiprofeti.html.

Infine una altra e forse ancor più importante segnalazione: alcuni di Voi sanno che la nostra Abbazia ospita da qualche tempo un gruppo di genitori accomunati dal dolore indicibile della perdita di un figlio. Tale gruppo si è costituito in una associazione, che ha la sua sede e il suo riferimento spirituale qui a San Miniato al Monte. L'associazione, presieduta da Lori Recami, si chiama "La stanza accanto", titolo di una celebre poesia di Charles Peguy. Lori, con la determinazione che le è propria, unitamente alle forze di altri genitori, ha realizzato, grazie al formidabile aiuto di Mauro Pagliai, un bellissimo calendario che vede raccolte le opere di ben quindici artisti di notevolissimo pregio e fama.
Le pitture, che illustrano i vari mesi dell'anno nella pagine del calendario edito da Polistampa, verranno messe all'asta, presso il Convitto della Calza, Domenica 29 novembre 2009 alle ore 16. Vi darò informazioni più dettagliate ma intanto voglio che annotiate tale data per partecipare alla vendita dei quadri e degli stessi calendari, il cui ricavato sarà totalmente devoluto in beneficenza, per l'esattezza ad un dispensario nello Zimbabwe. Vi allego intanto qui il bellissimo invito nella speranza di vedervi numerosi e... generosi!

Grati per l'affetto e l'attenzione con cui seguite i nostri tenui ma determinati passi al servizio di Cristo e del suo Regno, con Stefano e tutti i fratelli Vi abbraccio con vivissimo affetto,

vostro Bernardo 



lectio.divina@libero.it

Visioni ad occhi chiusi (di Alessandro Chiarini)



"Chiudi gli occhi. Cosa vedi? Vedo schizzi di pittura in un cielo di cartone, ora vedo un pesce in una lampadina, ora un fiammifero infuocato in una foresta innevata, ora... Dipinti a mouse (stampati su tessuto ecologico), frutto di uno sguardo interiore in cui si presenta un mondo dove ogni cosa non è più sé stessa. Chimici esperimenti visivi che danno vita a composizioni inaspettate, che spiazzano, stupiscono, strappano un sorriso… naturale e artificiale si contaminano, scenari surreali da gustare ad occhi chiusi."





Alessandro Chiarini ha 31 anni, da una decina è professionalmente impegnato nelle arti grafiche, da molto più tempo in Azione Cattolica, attualmente vicepresidente del settore giovani Bresciano. Sposato e padre di due creature.
 
www.aledigitale.com
blog: aledigitale.blogspot.com
X acquistare foto: www.uzoom.it
on skype: aledigitale
cell: 3405008554
t/f 0302120239
home: Mazzano - Brescia

martedì 17 novembre 2009

Il dispetto



– Degli stornelli in so una cavagnola,
che j’ho imparà a andare a la scola.

Degli stornelli in so una cavagnen’na,
che j’ho imparà a andare a dotren’na.

Ancor prima che l’ultima nota del canto si spegnesse, Bajardo, con il cuore che gli batteva forte per l’affanno, riaprì gli occhi e scrutò rapidamente il dirupo che precipitava ai suoi piedi, di balza in balza fino al nastro luccicante del fiume che, un tempo, segnava il confine del Ducato.
Anche stavolta, però, la sua voce, dopo aver vibrato nell’aria, si era dispersa per la valle senza lasciare traccia. Un battito di ciglia e le balze ai suoi piedi erano già tornate tranquille, placido il fiume sul fondo e immoto il caseggiato dall’altra parte, velato dalla lontananza e a malapena riconoscibile sui toni scuri della pendice.
Fino all’anno prima, con la bella stagione era toccato a lui spingere le bestie al pascolo fin lassù. Tranquille se le lasciava alle spalle e risaliva alla pietraia che chiudeva l’orizzonte. Raggiungeva una fenditura nella chiostra delle rocce, si accoccolava sui talloni e, frenandosi come poteva tra pietra, terra e radici pencolanti, si lasciava scivolare su un ripiano che sporgeva sulla voragine. Là, solo tra cielo e fiume, per anni aveva sfogato senza imbarazzo la sua bella voce ricantando gli inni ascoltati in chiesa, i canti origliati all’osteria, provando e riprovando parole nuove sulle vecchie melodie.
Un frullo d’ali che all’improvviso si alzò verticale da un cespuglio lo fece trasalire. Bajardo lo seguì finché si perse nel cielo, poi tornò a contemplare il filo di fumo che saliva lento dai tetti lontani. Chissà se da là in fondo lo potevano sentire. A dir la verità non ci aveva mai pensato, ma tanto questa era l’ultima volta. Gonfiò il petto, che dall’anno prima si era fatto grande e potente, portò le mani aperte alle guance e cantò forte come non aveva mai cantato:

Quando c’avevo le braghette corte
cantavo con la voce di bambino,
piacevo in chiesa alle donnette smorte
e fuori mi dicevan: che carino!


Adesso che la braga s’è allungata
e il petto pare quello d’un torello,
non passa notte senza serenata
e tutte quante dicono: che bello!

Diede un’ultima occhiata al fumo che continuava ad alzarsi e a disperdersi pigro contro la macchia, tirò su con il naso e si girò per andarsene. Fino all’anno prima si sarebbe vergognato se qualcuno lo avesse sentito o, peggio, gli avesse risposto; stavolta, ne fu quasi infastidito. Afferrò con forza la grossa radice sopra la testa e si tirò su, infilandosi a fatica tra terra e pietra nell’anfratto che in soli pochi mesi era diventato troppo stretto. Stava sbucando sul pascolo, quando lo raggiunse un fruscìo lontano che subito gli sembrò un’alito di vento, oppure il gorgoglìo di una piena remota e poi crebbe modulandosi in una voce bassa di donna:

– …cantava come un angelo del cielo
e adesso canta come una cornacchia,
sembrava un dolce fiore sullo stelo
e adesso pare spino nella macchia…

Bajardo, immobile con la schiena alla vallata, sentì il rossore che gli montava al viso e ogni verso gli bruciò sulle guance come altrettanti segni lasciati da uno  schiaffo.

*  *  *
Un ponte non c’era mai stato. O forse sì, ma tanto tempo prima che ormai era quasi del tutto dimenticato. Certe estati, quando i sassi del greto inghiottivano il fiume e per settimane intere riverberavano al sole, aveva sentito dire che tra le pozze verdastre e i grovigli di tronchi spuntavano conglomerati di ciottoli bruni, forse i resti degli antichi piloni. Poi la frana si era portata via la strada e, con la strada, la possibilità di scendere al fiume, lasciando il grande sbrego chiaro sul fianco della montagna. Ma era accaduto tanti anni prima, forse quando il fiume segnava ancora il confine del Ducato.
– E cosa c’è di là? – chiese ancora Bajardo scaricando sull’asse il secchio di calcina che aveva faticosamente sollevato fino al petto. Ferraù, accovacciato sul ponteggio, era intento a scegliere i sassi dal mucchio.
– E che vuoi che ci sia – sbuffò tra i baffi grigi – c’è della gran miseria, peggio che qui, e della gente strana.
– Strana?
– Strana sì. Si sforzano di parlare come noi cristiani ma non ce la fanno: pensa che la capra la chiamano cräva! E poi sono piccoli, storti e con poca voglia di lavorare.
Ferraù esaminava un sasso rigirandoselo tra le mani brunite dal sole e Bajardo aveva appoggiato i gomiti sull’asse. Esitò, prima di fare l’altra domanda:
– …e le donne?
– Le donne? Ah, le donne no, sono alte e belle, comandano loro e, soprattutto, sono molto meno difficili che di qua. Ti ho detto che è gente strana, prova a chiederlo al commerciante di maiali, che lui va e viene… Ma, ma che fai lì impalato, garzone, al lavoro!

*  *  *
–  Ma tu senti questo! – rise Ruggieri, il commerciante dei maiali, guardandosi attorno per assicurarsi di avere un bel gruppo di ascoltatori – Certo che ci vado di là. Di affari pochini, perché di soldi ne girano pochi, ma in compenso…
Erano sul sagrato della chiesa e Ruggieri si faceva trovare lì una domenica ogni due o tre mesi per incontrare gli uomini e trattare qualche affare. Strizzò l’occhio a Bajardo, che intanto era avvampato, ma poi si era rivolto agli uomini dimenticandosi completamente di lui.
Dunque – raccontò – l’anno prima alla fiera di San Vito dell’Acqualenza, il paesone dagli antichi palazzi allo sbocco della valle nella pianura, viene avvicinato da uno di quelli di là, che gli propone un certo affare. Lui è restìo, perché quelli sono dei bagoloni e abitano tutti a casa del diavolo e si rischia, come è già successo, di fare tanta strada per niente. Così si lasciano con un appuntamento vago, ma qualche mese dopo, siccome ha un affare nei paraggi, decide di andare a vedere se riesce a concludere qualcosa anche con quell’altro là. Paraggi per modo di dire, perché per arrivare a casa del bifolco ci mette mezza giornata su e giù per delle rive in mezzo ai boschi. Finalmente raggiunge un caseggiato cadente. Ci sono i maiali che grufolano davanti, ma non si vede nessuno. Allora chiama e sulla porta compare una mora.
“Oh, bella sposa, c’è vostro marito?”
“Quello? Manca da due giorni, sarà ubriaco da qualche parte”.
“E come si fa a lasciare da sola una così bella sposa? Peccato, avevamo un affare da trattare, ma se non c’è…”
Lei si rattrista e s’asciuga l’angolo degli occhi.
“Non vorrete lasciarmi sola anche voi?” sospira. Lo invita a entrare, lo fa sedere in cucina e gli mette davanti un fiasco e un bicchiere.
“Servitevi” gli dice “io intanto devo sistemare una cosa”.
Mentre lei si gira e traffica nella credenza, Ruggieri contempla soddisfatto i suoi fianchi pieni e rotondi. “Chissà come va a finire!”, pensa scuotendo lievemente la testa. Ridacchia, afferra il fiasco, mentre lo inclina le dà un ultima occhiata e intravede che lei, con le mani dietro la schiena, traffica con le cocche del grembiule, ma non ci fa caso più di tanto e sta attento solo a riempirsi il bicchiere. Un improvviso fruscìo proprio davanti a lui gli fa rialzare la testa e, com’è come non è, se la vede lì davanti tutta spogliata e per la sorpresa si rovescia il vino sulle brache.
Dopo – e il commerciante non scese in molti particolari, lasciando tutto alla complice immaginazione degli ascoltatori – lei gli lava le brache e intanto che asciugano gli prepara un pranzetto con i fiocchi e non avrebbe più voluto lasciarlo andar via.
Il commerciante dei maiali neri raccontò questa storia tra l’ilarità dei presenti e le occhiatacce delle donne che nell’uscire da messa dovevano passare vicino al crocchio, una domenica della metà di settembre. Fino all’arrivo della brutta stagione ci fu molto da fare e Ferraù non mollò Bajardo per un attimo; poi, con la fine dell’autunno, andarono in giro per i casolari ad ammazzare e lavorare i maiali e per mesi Bajardo non potè più salire ai pascoli alti.

*  *  *
La primavera Bajardo entrò a far parte dei maggerini e recitò una piccola parte nell’“Amadigi di Gaula”, che veniva rappresentato quell’anno. Doveva cantare solo pochi versi, ma fece comunque la sua figura, a cominciare dalla sfilata lungo la via del paese fino alla conca naturale che fungeva da palcoscenico, col bosco e i monti a far da scenografia. Bajardo era diventato ancora più robusto dell’anno prima e marciò impettito, con il torace che riempiva bene la corazza dorata sul velluto nero del costume, le spalline, lo scudo dalla mezza luna dipinta all’avambraccio, la sciabola ricurva al fianco e l’elmo dal pennacchio verde che lo faceva sembrare ancora più alto. Anche la voce era diventata più profonda e, quando entrò in scena puntando la sciabola verso il cielo e cantò le sue quartine di sfida ad Amadigi, un autentico brivido percorse gli spettatori. Tre volte urtarono gli scudi nella finzione dell’assalto e tre volte s’incrociarono le spade, poi Bajardo cadde tra gli applausi e giacque nell’erba per un po’, mentre attorno a lui la rappresentazione continuava. Quando ritenne che fosse il momento opportuno, rotolò fuori dal cerchio che delimitava la scena. Gattonò fino ai vicini castagni, si tirò su con la schiena contro un grande tronco e si levò l’elmo con i pennacchi. Per quel giorno la sua parte era finita e chiuse gli occhi soddisfatto, cullato dal canto del maggio che gli arrivava attutito. A un lieve tocco sulla spalla sussultò: Metilda, china su di lui, gli sorrideva. Bajardo cercò di toccarle il viso, ma lei si ritrasse e il sole lo abbagliò. Adesso lei era in piedi a pochi passi:
– Canterai per me? – gli chiese ridendo.
Bajardo guardò il cielo, si alzò, la raggiunse e la prese per mano:
– Vieni!

*  *  *
– Uffa, sono stanca! C’è ancora molto?
– No, è qui vicino.
Giunti alla fine del pascolo, dove iniziava la pietraia, le lasciò la mano e andò avanti. Esitò un attimo, prima di individuare il varco giusto tra le rocce. Vi s’infilò a fatica, si sedette per terra incurante del costume e si lasciò scivolare per un tratto, poi afferrò una grossa radice e si girò verso Metilda, che dall’alto lo guardava perplessa.
– Vieni! – le sorrise tendendole la mano e lei, riluttante, raccolse la gonna e lo seguì. Giunti sulla sporgenza, lei si accovacciò contro la roccia tenendosi a distanza dal dirupo, mentre lui, in piedi sul ciglio, abbracciava soddisfatto la valle che gli s’apriva dinnanzi, il fiume sul fondo, le case immerse nella boscaglia dell’altro versante. Chissà perché, se le ricordava molto più lontane.

– Avevi promesso che avresti cantato per me.
Metilda aveva il muso, era impaurita e guardava fisso davanti a sé. Bajardo la raggiunse, le si inginocchiò accanto e inspirò profondamente.

– Come sei bella il lunedì mattina,
più bella ancora il martedì seguente;
mercoledì mi sembri una regina
e il giovedì la stella rilucente.
Al venerdì la rosa in fra la spina
e al sabato ‘l garofano pendente;
la domenica poi, quando t’adorni,
tu sei più bella ancor degli altri giorni!

– Chissà a quante l’hai cantata.
Bajardo inspirò ancora e riattaccò:

– Se vuoi sapere, amor, quando ti lascio:
quando la terra non farà più frutto,
gli uccelli voleran senza le ali
e i pesci nuoteran sopra l’asciutto.
Allora, amor, ci lascerem del tutto!

Adesso Metilda stava seduta abbracciandosi le gambe, la guancia appoggiata alle ginocchia, e lo guardava seria. Bajardo notò che una ciocca di capelli le era scivolata dalla fronte sfiorandole le labbra e allungò la mano per scostarla.
Fu allora che arrivò il canto dall’altra parte del fiume:

– Giovanottino dal pennacchio verde,
alla tua dama gli porti le sorbe,
alla tua dama gli porti le sorbe,
e falle maturar che sono acerbe!

Metilda soffocò un grido di sorpresa e fuggì inerpicandosi lesta su per l’anfratto.
– Metilda! – la richiamò Bajardo e fece per seguirla, ma poi si lasciò ricadere e, pieno di rabbia, si girò verso la valle. Tutto era immobile, come sempre, il dirupo, il fiume, le case dall’altra parte. Gonfiò il petto più che potè e cantò con stizza:

– Non canto perché contento sia:
canto di rabbia e di malinconia!
e di malinconia e di rabbia nera
e per colpa tua brutta ligera!

      Sono l’Ancilla e sto di qua dal fiume,
lingua che taglia se ve n’è ragione:
devi mettere su ben altre piume,
prima di adoperare il pungiglione!

Bajardo arrossì e non osò rispondere. S’inerpicò appiattendosi il più possibile contro la roccia e quando sbucò sul pascolo, vide in lontananza Metilda che correva lungo la china. Si sedette sull’erba e, trattenendo le lacrime, la guardò farsi sempre più piccina, senza nessuna voglia di chiamarla né di raggiungerla.

*  *  *
L’unica maniera per andare di là è quella di discendere fino a San Vito, dove le colline spianano, passare il ponte sul fiume e risalire la valle dall’altra parte. Ma poi, a che scopo? di là si guarda di qua come di qua si guarda di là e la vita è grama uguale da tutte e due le parti. “Lo so io”, pensava cupo Bajardo. Intanto lavorava a testa bassa e diventava sempre più grosso e robusto.
Meditò per due anni la ripicca e, quando pensò che fosse arrivato il momento, salì al pascolo alto, strisciò a fatica per l’anfratto e balzò sul ripiano. Si guardò bene attorno, con la testa alta, gonfiò i muscoli e attaccò:

– Se ieri di cornacchia avevo il canto,
tre anni non son stati senza frutto:
or di gorgheggi la vallata incanto,
e ancor più canta l’usignol di sotto.

Per completare l’opera, si calò le brache restando così, immobile, a sfidare la valle. Dopo qualche minuto di silenzio si sentì impacciato e si affannò per rivestirsi. Mentre armeggiava per ricomporsi, arrivò la risposta:

      Ancor tant’anni avrai da gorgheggiare,
o rosignol, per ferirmi l’orecchia,
ché non è solo il fiume a separare,
è che tu sei garzon, io son più vecchia.

Son coppie che fan rider la vallata:
il garzon e la donna navigata.
Cerca tra quelle più vicine a te,
che ben presto ti scorderai di me.

Dio sa in quanti rifugi della sua vallata poteva ormai cercare, e forse trovare, Bajardo. Insistiti incroci di sguardi sfuggenti, labbra che si piegavano appena in sorrisi discreti, l’incedere fiero per la strada delle giovani spose e le camminate impacciate delle ragazze, erano un’unica, indistinta, promessa. Il dischiudersi di un universo segreto, da cui però, si sprigionavano anche i suoni di voci che sussurravano, parlavano, gridavano, cantavano: voci dolci, voci stridule, profonde, squillanti, flebili, ma nessuna rassomigliava a quella che l’aveva raggiunto  attraverso la vallata e continuava a risuonargli nella testa.
Intanto era passato un altro anno e la peluria rada sul labbro aveva preso l’aspetto di un vero paio di baffi. Bajardo se li osservò attentamente nella specchiera del comò. S’era messo il vestito buono e finì di abbottonarsi sotto il collo la camicia bianca. Era pronto.
Uscì di casa dopo l’una, quando era sicuro che non ci fosse nessuno che lo potesse vedere salire ai pascoli vestito in quel modo. Sudò sotto il sole alto e, quando fu arrivato alla pietraia, s’infilò con cautela nel pertugio tra le rocce e si lasciò cadere pesantemente sul ripiano. Passò più volte le mani sull’abito per ripulirlo e lisciarlo e, quando gli sembrò di essere presentabile, si mise ritto sul ciglio e, compunto, cantò:

– L'acqua la va dove la terra pende
e l'uomo va dove l’è innamorato.
Quando la donna sa chi la pretende
se lei lo vuole lui resta legato.

Un anno, se il garzon è maturato,
fa la diversa età meno evidente.
Con tutto il tempo che adesso è passato,
ora son pronto ad affrontar la gente.

Restò così, con le braccia rigide lungo i fianchi e la testa bassa, ad ascoltare la sua voce che riecheggiava per la valle. Quando anche l’ultima eco si disperse, era ancora lì immobile, intenzionato a non andarsene fino a che non fosse arrivata una risposta. Una qualsiasi. E alla fine la risposta arrivò:

– Fior di gramigna,
sarà arrivata anche la tua stagione,
prima contenta il re, poi la regina.

Bajardo ascoltò compunto, poi accennò a un inchino, si girò e s’infilò su per l’anfratto. Riemerso sul pascolo, si rialzò in piedi e, mentre indugiava a scuotersi la polvere dall’abito buono, pensava al significato quelle parole.

*  *  *
Quasi quattro anni ci erano voluti, per contentare il re.
Quattro anni lontano da casa significano già una certa esperienza del mondo e, appena balzato giù dal treno, Bajardo si era fermato nella prima osteria sul viale della stazione. Ridendo e scherzando con amici occasionali, aveva brindato più volte alla fine della naja, poi si era gettato in spalla la sacca militare e aveva ripreso allegro il cammino. Fischiettando, aveva attraversato la città e mentre tra i fabbricati della periferia si andava aprendo la campagna, gli erano perfino venute le lacrime agli occhi nel vedere i suoi monti chiudere l’orizzonte. Lungo la strada lo aveva caricato un carrettiere di poche parole. Giunto a San Vito, Bajardo era saltato giù dal cassone, aveva ringraziato con un cenno ed era entrato in paese di buon passo. Era allegro e gagliardo e, nonostante l’aria fredda, teneva la giubba aperta sul petto, mentre la nappa del fez amaranto gli batteva ritmicamente le spalle sulla cadenza del passo.
Di mattina presto, per strada c’erano solo le donne e quando lui passava ne calamitava gli sguardi e, nel guardarlo, i loro occhi sembrava che ridessero. Una giovane con una cesta di panni sul fianco si era fermata all’ombra di un’androne e continuava a sorridergli reclinando la testa. Bajardo la guardava senza rallentare la marcia e nel passare le soffiò un bacio. “Sarà per un’altra volta” sussurrò.
Quattro anni da soldato gli avevano aperto gli occhi su molte cose e, forse, in capo all’anno, avrebbe sposato. Ma, prima, aveva un’altra faccenda da sbrigare.

*  *  *
Attraversato il paese, anziché tirare diritto verso casa, tenne la destra per la strada al piede delle colline, fece risuonare al passo di marcia il selciato del ponte sul fiume dell’antico confine e, quando arrivò al bivio, imboccò la strada che risaliva il versante sinistro della valle.
Salì di buon passo, canticchiando, senza fermarsi neppure per mangiare, e a mezzogiorno aveva già fatto parecchia strada. Quando il paesaggio chiazzato di neve si apriva sulla valle, Bajardo vedeva di là i suoi luoghi e stentava a riconoscerli e non sapeva spiegarsi se era il diverso punto di vista a renderglieli strani o solo il tempo che era stato lontano. Nell’attraversare i pochi gruppi di casupole lungo la strada, aveva anche cercato di chiedere qualche informazione, ma perfino la parlata della gente gli sembrava strana e poco comprensibile.
Quando finalmente riuscì a distinguere sull’altro versante l’ampio squarcio della frana, il cuore prese a battergli più forte. Andò avanti con maggiore attenzione e, allorché incrociò una mulattiera acciottolata che scendeva nel bosco, la imboccò senza esitare. Continuò a scendere per una buona mezz’ora, tenendo sempre d’occhio il dirupo oltre il fiume che, illuminato dal sole ormai alle sue spalle, andava e veniva tra i rami.
D’improvviso, girata una curva, si trovò dinnanzi alle case. Tutto sembrava abbandonato e Bajardo si aggirò tra mura invase dai rovi, guardando deluso i neri vani delle finestre che si aprivano su stanze disabitate. Solo dopo un po’ s’accorse delle galline che razzolavano tra le pietre.
“Allora ci sei”, mormorò.

*  *  *
Forse l’Ancilla non era libera e aveva un uomo, un marito o dei fratelli, ma lui era giovane e gagliardo, era stato quattro anni soldato, teneva una baionetta nascosta nella sacca e non aveva paura di niente e di nessuno.
Andò avanti deciso a passo di marcia tra galline che scappavano e schizzi di fango sollevati dagli scarponi. Si diresse verso un edificio che gli sembrava messo meno peggio degli altri: una scala di pietra sbrecciata saliva al loggiato del primo piano, la porta in cima alla scala pareva chiusa e socchiuse erano le persiane delle finestre.
Bajardo si piazzò a gambe larghe in mezzo all’aia, respirò a pieni polmoni e un lieve odore di fumo gli pizzicò le narici. Guardò in alto e ne vide il filo che saliva oltre il tetto. Allora lasciò cadere la sacca e con una mano si sistemò il fez ben indietro sulla testa. in quattro anni aveva messo su una voce baritonale ancora più bella di prima.

– Quattr’anni fan più di mille giorni,
il re alla fine è stato contento,
nessuna si è lagnata nei dintorni,
per la regina è venuto il momento.

Nessuna risposta. Ma lui, che non aveva paura di niente e di nessuno, avanzò di qualche passo e si fermò di nuovo a gambe larghe, proprio ai piedi della scala.

– Tosa, bella tosa,
al figh al n’è la nosa;
e la nosa la n’è ‘l figh,
e i parent i n’én amigh;
e i amigh i n’én parent,
e la terra la n’è ‘l forment;
e ‘l forment al n’è la terra,
e la päsa la n’è la guerra;
e la guerra la n’è la päsa,
e la stoppa la n’è ‘l bambäs;
e ‘l bambäs al n’è la stoppa…

Ancora nulla, ma mentre metteva il piede sul primo gradino colse un movimento appena percettibile tra le persiane socchiuse di una finestra. Gli scappò un sorriso e cominciò a salire senza fretta:

– …e ‘l al fus al n’è la rocca;
e la rocca la n’è al fus;
e la fnestra la n’è ‘l bus
e al bus al n’è la fnestra;
e ‘l pan al n’è la mnestra,
e la mnestra la n’è al pan;
e l’acqua la n’è al pantan,
e ‘l pantan al n’è l’acqua;
e ‘l manzol al n’è la vaca,
e la vaca la n’è al manzol;
e la tvaja la n’è al tvajol,
e ‘l tvajol al n’è la tvaja;
s’l’è vestida la n’é in pataja,
s’l’é in pataja la n’è vestida…

Gradino per gradino, era arrivato davanti alla porta. La esaminò all’istante: anche se fosse stata serrata non avrebbe potuto resistergli.

– …e la fola l’è bele fnida!

*  *  *
Prima che potesse toccarla, la porta si schiuse e si affacciò una ragazzina dagli occhi grandi sul viso sparuto. Era vestita da un camicione lacero, che le lasciava scoperti i piedi, scalzi e sporchi.
Improvisamente, tutta la baldanza di Bajardo si esaurì.
– È qui l’Ancilla? – le chiese esitante. Non sapeva cos’altro dire.
La ragazzina sgranò ancora di più gli occhi.
– Non c’è – gli rispose con un filo di voce, ritraendosi dietro lo stipite.
Bajardo allungò la mano e fece una leggera pressione sulla porta, la ragazzina si scostò e dall’esterno la lama di luce si allargò sul pavimento del corridoio. Dalla penombra gli arrivava un mormorio sommesso, ma subito non vide che delle ombre confuse. Quando si abituò alla luce fioca, riuscì a distinguere la sagoma di tre donne vestite di nero, due sedute su una panca e la terza accanto in piedi. Non riusciva a vederne bene i volti, reclinati sul petto, e nel chiaroscuro risaltava solo il candore di una mano che, abbandonata nel grembo, sgranava la corona di un rosario.
Bajardo esitava sulla soglia. Allora, quella in piedi alzò il viso e gli fece cenno di stare fermo lì dov’era, poi girò attorno alla panca e gli venne incontro. Pensava che fosse una vecchia, e invece era una donna ancora giovane, dalla pelle bianca e delicata. Lo scialle lasciava scoperta, in cima alla fronte alta, l’attaccatura dei capelli corvini, separata da una scriminatura candida. Quando gli fu vicina, riabbassò il capo e si strinse ancora di più lo scialle sul petto.
– Seguimi – gli disse senza fermarsi e Bajardo si fece da parte per lasciarla passare.
La seguì giù per le scale, attraverso il cortile, ripercorse dietro di lei un tratto della mulattiera, le tenne dietro lungo un sentiero a mezza costa che imboccò a un certo punto. La donna camminava spedita senza dire una parola, sempre stretta nello scialle. Bajardo, che da un po’ aveva nelle orecchie solo il trapestìo delle foglie secche e negli occhi il dondolìo della figura fasciata di scuro che lo precedeva, a poco a poco riprendeva la sicurezza con cui era prima disceso.
– Sei tu l’Ancilla? – le chiedeva, ma quella non rispondeva e continuava a camminare senza voltarsi.

*  *  *
Giunsero davanti a un piccolo cimitero. La donna aprì il cancelletto e, segnandosi, entrò. Finalmente, si fermò davanti a una tomba. Bajardo le si affiancò. Sulla lapide c’erano scritte poche parole e tra esse riuscì a compitare solo il nome di Ancilla.
  – La nonna è morta quest’inverno e ci ha lasciate sole. Prima di morire ci ha fatto promettere che se fosse arrivato un soldato a cercarla, di portarlo fin quassù, perché lei non ha mai voluto lasciare debiti con nessuno.
Bajardo si girò verso la donna, che continuava a guardare fissa la tomba.
– Ma era una … vecchia! – esclamò Bajardo. La donna adesso si voltò e lo raggelò con un’occhiata. Bajardo, vergognandosi, tornò a fissare la lapide, senza sapere più cosa fare o dire. Sentiva i suoi occhi addosso e rapidamente si tolse il fez stropicciandolo nella mano, si fece il segno della croce e cominciò a mormorare tra sé una preghiera. Quando ebbe finito, la donna non c’era più e il sole stava ormai calando.
Mah! In fondo non c’era nulla da rammaricarsi: tutti avevano mantenuto le loro promesse ed era finita come doveva andare a finire.
Diede un ultimo sguardo alla tomba, si rimise il fez in testa e girò sui tacchi come al dietro–front. Superò il cancelletto del cimitero senza curarsi di chiuderlo e s’incamminò di buona lena lungo il sentiero. Faceva fresco, ma lui non ci badava e la nappa gli batteva ritmicamente le spalle. Al paese c’era già chi l’aspettava; prima, però, doveva ritornare indietro a riprendersi la sacca che aveva abbandonato nell’aia. Poi, era comunque tardi per rimettersi in cammino e forse avrebbe passato la notte nel fienile laggiù. Forse la nipote dalla pelle candida aveva ereditato la bella voce della nonna. Chissà. Bajardo accelerò il passo, gonfiò i polmoni e prese a cantare con quanta voce aveva in corpo:

– Degli stornelli in so una cavagnola…





LE ORE CANTATE

Quando si sente il bisogno di dare troppe spiegazioni c’è qualcosa “che strusa”, come si dice dalle mie parti: quello che deve essere troppo spiegato spesso non vale neppure la pena di raccontarlo. Questa volta, però, una piccola eccezione vorrei farla, se non altro in omaggio alla nostra memoria troppo corta: pochi anni – due, tre decenni – un paio di generazioni e puff! quelli che sono stati dei comuni modi di vivere, esprimersi e comunicare (non sto neppure a scomodare la parola “cultura”), svaniscono nel nulla e possono tutt’al più interessare alcuni ricercatori, magari un po’ eccentrici.
Proviamo, invece, a immaginare la vita della gente – la nostra stessa vita – in una comunità rurale senza radio, televisione, cinema, dischi, telefono (in pratica, priva della nostra colonna sonora quotidiana) e per di più analfabeta (quindi senza possibilità di accedere alla lettura che, se ci pensiamo bene, rappresenta un’altra fetta importante del nostro rapporto con il mondo), come poteva essere centoventi, centotrenta anni fa quella dell’Appennino emiliano, a due passi dal versante toscano, in cui è ambientato il racconto. Tutta la comunicazione poteva avvenire solo a portata di voce, attraverso il suono “in diretta” della parola, parlata o cantata.
La parola parlata per la comunicazione “seria” e pratica, nel lavoro, negli affari e anche nell’amore, quando questo era ormai ufficializzato di fronte alla comunità. La parola cantata invece era il colpo d’ala dello scherzo, della satira, della schermaglia amorosa, dell’emozione, della solennità. Nella società contadina si cantava e si cantava parecchio, durante la giornata: si cantava per accompagnare il lavoro, per passare le serate, per “duellare” per voce ed arguzia su contrasti più o meno improvvisati, per raccontare storie e divulgare notizie (ma questa era già una specie di professione). Si cantava in forma privata (o quasi) per comunicare sentimenti ed emozioni che altrimenti non sarebbe stato lecito esprimere direttamente: “a rispetto” si cantava il corteggiamento e la bellezza, “a dispetto” si canzonava, si scherniva, a volte si odiava. Il canto assumeva una dimensione pubblica e solenne che coinvolgeva l’intera comunità nelle rappresentazioni sacre in chiesa e sui sagrati e nelle ottave cavalleresche dei maggi epici cantati ai margini dei paesi (a questo proposito, merita una visita il sito www.costabona.it/maggio.htm).
Se le rappresentazioni sacre e i maggi si basavano su un testo “colto” scritto da qualche “letterato” locale (il prete, il maestro), il canto privato e di intrattenimento era affidato esclusivamente alla capacità di ricordare e all’invenzione del singolo cantore, che ricantava, deformava e reinventava secondo le capacità, l’estro e la necessità del momento i versi sedimentati nella memoria.
Ma mi sto dilungando troppo. Faccio notare solo il particolare “bilinguismo” che vigeva in queste comunità: la gente parlava e si comprendeva solo nel proprio dialetto, ma spesso cantava e sentiva cantare in puro “Toscano”, che allora era ancora una delle mille lingue d’Italia e solo più tardi sarebbe diventato il calco della Lingua italiana. Se fosse stato un film, forse avrei usato i sottotitoli, cosa che non è evidentemente così facile in un racconto: così i dialoghi sono stati “doppiati” in italiano corrente; ma i canti no, i canti li ho riportati così come sono stati raccolti negli anni ’50 e ’60 – i primi su un registratore Geloso a filo – dal Maestro Giorgio Branchi nell’Appennino di Parma: in questa raccolta, accanto ai versi in dialetto spiccano i rispetti in “Toscano”, a mio avviso assai belli (e tali dovevano sembrare anche ai cantori, se li ricantavano così come li avevano ascoltati, senza adattamenti). Più frequente ancora è la contaminazione, con la deformazione e l’innesto di forme dialettali emiliane (sarebbe meglio dire “montanare”) su una traccia originale che proveniva da poco oltre il vicino crinale appenninico.
In questo ambiente si muovono Bajardo e gli altri personaggi del racconto.









“Armando Conti, nato nel 1959, vive nella provincia di Parma, dove svolge l’attività di geologo. Ha pubblicato articoli scientifici e lavori sulle tradizioni e la cultura locale”. Così era scritto sul risvolto di copertina di Stati di nebbia e altri racconti, pubblicato da Fara nel gennaio 2005. Da allora non è cambiato molto, oltre al fatto non irrilevante che ha A.C. quasi cinque anni in più.