martedì 24 luglio 2007

Chiara De Luca vince!



con La Mina (stra)vagante, il suo ultimo tragicomico romanzo, Chiara De Luca è tra i vincitori della 2^ edizione del concorso “Guerriero di Capestrano. La premiazione domenica 5 agosto 2007 al Castello Piccolomini.
(v. locandina qui sopra)
Complimenti e ad maiora!

venerdì 6 luglio 2007

Su La signora Irma e le nuvole di Subhaga Gaetano Failla


recensione di Annalisa Macchia su L(')abile traccia

Quest’ultimo libro di racconti di Subhaga Gaetano Failla, elegantemente realizzato in dimensioni ridotte e con la stampa raffinata di Fara Editore, si presenta con un’enigmatica copertina disseminata di nuvole, dove campeggia il disegno di una valigia e dove il titolo La signora Irma e le nuvole, tratto da uno dei ventotto racconti della raccolta, è in perfetta sintonia con le belle grafiche di Elvira Pagliuca.
Spesso calati in misteriose atmosfere, ma freschi, agili, privi di qualsiasi orpello letterario tendente ad appesantire la scrittura, questi testi rivelano l’amore per una prosa asciutta e dinamica, come testimoniano le numerose, rapide, ma non per questo meno incisive, descrizioni di una natura osservata sempre con amore. Il dialogo che caratterizza i personaggi è essenziale e allo stesso tempo fluido; tipico di certa letteratura americana che deve avere particolarmente inciso nella formazione di Failla.
Non mancano, però, spunti per riconoscere anche altri grandi maestri, il cui sapiente contributo si avverte in questa raffinata e personalissima maniera di narrare. Edgar Allan Poe, in particolare, il cui fantasma fa capolino in ambientazioni ricche di suspense e ai confini con la realtà. Certe sfumature fantastiche e surreali richiamano alla mente anche la prosa di Buzzati o le splendide pagine di Borges ed altri infiniti autori che, silenziosamente, dopo essere stati letti, amati, assimilati, si sono abilmente intrecciati alla prosa di Failla, senza dubbio un appassionato ed eclettico lettore. D’altronde, non ci può essere scrittore, credo, se prima non c’è stato un accanito lettore.
Ci si rende presto conto che in questi racconti i comuni “confini terreni” non hanno significato. Barriere tra sogno e realtà sono magistralmente abolite, anche quando la storia è ben ancorata a terrestri vicende e il tempo si configura come un indefinibile flusso tra emozione ed emozione, fantasie e ricordi. I tuffi nel “passato”, nell’“infanzia” sono frequenti, ma sempre intrecciati ad un avvenimento presente e, comunque, inscindibili dall’uomo che racconta. (…)

Il resto della recensione qui e qui

giovedì 5 luglio 2007

Sulle tracce di chi semina parole 14-7


Percorso con poeti e narratori per le vie di Santarcangelo:
il piacere dell’ascolto e quello del cammino per riflettere


Sabato 14 luglio 2007 dalle 21.30 alle 24.00

nei giorni e nell'ambito del Festival delle Arti

Itinerario (v. per dettagli e notizie sugli autori il pieghevole)

Palco di piazza Ganganelli (leggono Stefano Sanchini, Chiara De Luca, Subhaga Gaetano Failla, Caterina Camporesi)

Grotte Teodorani (leggono Helene Paraskeva, Andrea Parato, Ardea Montebelli)

Monte di pietà (leggono Patrizia Rigoni, Luca Ariano, Natascia Ancarani e Alex Celli) e segue dibattito aperto.

Interventi strumentali originali di Subhaga Gaetano Failla e Nicola Matteini.

Partecipazione libera.

Per info: Biblioteca Comunale
Via Cavallotti, 3
47822 Santarcangelo di R. (RN)
Tel e Fax 0541 356299
www.biblioteca.comune.santarcangelo.rn.it

Su Il padre degli animali di Andrea Di Consoli


Rizzoli 24/7, 2007

recensione di Vincenzo D'Alessio

Il romanzo che lo scrittore Di Consoli ci propone è da annoverarsi tra le belle prove di scrittura di quel filone meridionalista che va riscoprendo la forza delle radici e il dormiveglia nel quale è crollata la popolazione delle regioni del Sud Italia a causa delle cattive e facoltose abitudini sociali.
Stiamo dicendo che a causa dell'eccessivo benessere la gente del Sud della penisola ha completamente dimenticato le grandi prove di scrittura che hanno caratterizzato gli anni tra la seconda guerra mondiale e la recessione industriale degli anni Ottanta.
Abbiamo letto il romanzo di Carmine Abate La festa del ritorno (Mondadori, 2004) che ha molte similitudini con Il padre degli animali. In modo particoalare per quanto riguarda i riti antichi, quelli arborei, i fuochi delle stoppie nei campi, i balli, i falò e la gente intorno, le bevute insieme, il calore di un meridione che sta cambiando sotto i nostri occhi mediante i duri colpi di una politica consumistica calata dalla parte ricca della Bella Italia.
Per quanto si tenti di allontanare la paura della morte, questa ritorna forte, si insinua in ogni pagina del romanzo proprio come nelle poesie del Nobel Quasimodo, quasi come un'acqua sorgiva che scaturisca dagli occhi della nostra terra calda e colma di luce solare.
Gli animali. Animali senza nome che hanno lavorato ininterrottamente in Svizzera, ma sarebbero potuta essere la Germania, il Belgio o altre nazioni, alla costruzioen delle case, delle fabbriche, delle autostrade, dei negozi, della miriade di edifici delle grandi metropoli oltralpe. Animali che hanno visto i propri figli, i nipoti, morire al Sandis Park di Zurigo per overdose, o suicidarsi spingendosi dal ponte dei sospiri di Appenzell. Animali che sono tornati a casa carichi di soldi ma poverissimi di affetto. Hanno visto i propri figli e nipoti finire in malo modo proprio quando sono rientrati in paese e hanno completato la loro fuga, quella degli anni Sessanta, con un rientro privo di qualità, di riconoscenza da parte dei paesani e nella perdita dei figli incapaci di adattarsi a questo cambiamento.
Tre parti di un romanzo forte e costruttivo, mai rabbioso, mai stonato, nonostante sia pervaso da un dolore cosmico che si affaccia alla fede per racimolare una piccola forza di rivincita.
Il Sud raccontato dal Nostro è quello della Val d'Agri, dei pozzi petroliferi, della gente forte e buona della provincia tra Salerno e Potenza, quella terra lucana tanto cara ai giorni nostri a Leonardo Sinisgalli o a Rocco Scotellaro. Questa è anche la terra descritta da Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli o nel romanzo Ombre sull'Ofanto di Raffaele Nigro.
Un romanzo che pagina dopo pagina scopre le difficoltà del ritornare a quella che dovrebbe essere la vita delle origini: una sorta di sorgente, come quella descritta dallo scrittore, che dovrebbe dissetare e invece non può più assolvere questo compito perché tutto il passato è divenuto “fango“ che distrugge la luce dei ricordi.
Raccontato attraverso la figura di un figlio, il padre assume la grandezza e la saggezza dei “padri della terra“ (se ci sentono cantare) ma il canto è un lezzo di morte che percorre le vecchie generazioni e avvisa le nuove dei cambiamenti in atto. irreparabili, insormontabili, se non nella fuga da questi luoghi e da questa gente. In sintesi, quello che sta avvenendo da sempre al sud di ogni parte del mondo e in modo ravvicinato nel sud della nostra penisola italiana.
La politica, la maledetta politica che tradisce la gente onesta e svilisce quanti credono in questa figura che si “aggiusta con la mano i grandi occhiali rossi“ tanto da condurla al suicidio o ad allontanarsi per sempre dai luoghi natali dopo aver conseguito la laurea. La politica con i suoi esponenti, piccoli e grandi, ha ucciso il Sud dal dopoguerra e non smette. Chi rappresenta lo Stato o indossa una divisa non si comporta in modo migliore di fronte alle paure degli onesti e alle palesi ingiustizie dei politici.
Anche i preti fanno la loro parte.
In questo dramma ancestrale e collettivo, la figura del padre, immensa e silenziosa, assume l'asse nord-sud, cielo-terra, bene-male, quasi come una strada di mezzo, una via di salvezza. La figura materna è appena accennata, poche volte ricordata, quasi in forma onirica, come un'alba lontana.
Stupisce la frammentazione delle vite dei personaggi che si dispongono attorno alla figura del figlio e del padre. Come il ricorso alle metafore riprese dalla quotidinità di un sud in parte scomparso o che sopravvive in gesti ristretti a piccoli gruppi superstiti. Ogni pagina di questo romanzo, collocatosi tra i vincitori del Premio Napoli 2007, trasuda verità e meraviglia, calcando le belle pagine di uno scrittore come Bontempelli o quelle asciutte di Calvino.
Un raccontare che somiglia a un viaggio, sostenuto con il convincimento che i cambiamenti stanno epurando al parte ancestrale delle buone tradizioni che il suo della penisola italiana conservava.
I dialoghi, tra i personaggi e il cosmico, avvengono come frammenti di una lingua passata che nascondono il calore e la violenza del dialetto calabrolucano. In questo romanzo il dialetto non si affaccia a materializzare detti e frasi consuete. Lo fanno i gesti, i monologhi, le descrizioni, il testamento che lo scrittore Di Consoli consegna alla letteratura italiana consacrando, con questa bellissima prova alle soglie del nuovo secolo, la letteratura meridionale troppe volte ignorata e che invece continua ad offrire le forze migliori non solo di braccia ma di talenti letterari.

Collatio sui brani del Vangelo di Luca


dal capitolo 1 al capitolo 6,39

di padre Bernardo M. Gianni (abbiamo messo in corsivo una interessante affermazione sulla letteratura)

In veste di "Uditori della Parola" siamo qui riuniti ad interpellare queste pagine del Vangelo di Luca. Possa il Signore irrompere nei nostri cuori e trasformarli con quel misto di dono e responsabilità che è la grazia e la croce di ogni credente.

Iniziando la collatio sui brani letti e commentati fino ad ora, un primo contributo è scaturito dalla riflessione su questi versetti: «Ma a Voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano… e a chi prende del tuo, non richiederlo» ( cf Lc 6, 27- 30), rilevando che quando si parla di cose materiali il discorso è abbastanza semplice; si può avere una reazione; ma in genere si passa sopra a meno che non si tratti di fatti gravi. Ma di fronte a chi ti odia, ti maledice o ti maltratta è difficile rapportarsi al Vangelo! Infatti il padre nostro che recita: "rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori" mette in crisi se non siamo ben disposti verso il prossimo. Al riguardo viene fatto notare che tutto ciò è vero, ma è l'esperienza che si fa del perdono di Dio che ti dà la possibilità di perdonare con cuore aperto anche tutto quello che appare difficile da superare. È stata anche testimoniata la difficoltà a pronunciare le parole "sia fatta la tua volontà" interpretate nel significato recondito di perdita di persone che si ama, che è indubbiamente un dramma oggettivo non trascurabile. Si è anche invocato uno sforzo per avvicinare il nostro modo di pensare a quella che è la logica di Dio, che è assai diversa dalla nostra. Un altro intervento ha espresso la preoccupazione per l'incapacità di parlare all'uomo contemporaneo con un linguaggio adatto e articolato e non dogmatico. Tornando alla riflessione sull'«oggi» nel Vangelo di Luca (4,21), è stato sottolineato il seguente passaggio tematico: «Questo del rito è il tempo circolare della liturgia delle ore… entro il quale si crea lo spazio orizzontale dell'agire, entro il quale si pone l'uomo, entro il quale si pone e si depone la ragione», che pare esprimere un paradosso del nostro tempo, dove a parlare della ragione non sono più i razionalisti ma la Chiesa cattolica quando afferma che la ragione e la fede vanno d'accordo, per poi impelagarsi anche su quello che è il diritto naturale. È stata espressa inoltre la convinzione che la letteratura è uno strumento esegetico di grande aiuto per comprendere il linguaggio delle Scritture, e, a questo proposito, sono stati citati vari autori contemporanei come Ennio Flaiano - grande sceneggiatore cinematografico - che aveva una figlia fortemente minorata. A Flaiano piaceva ripensare in letteratura il mito del ritorno di Gesù sulla Terra, ed ecco appunto che «Gesù ritorna sulla Terra e tutti giornalisti gli chiedono di dimostrare che non è un impostore: allora Gesù per accontentarli fa qualche miracolo; nel frattempo tra la folla si fa avanti un uomo con la figlia minorata (si capisce che è Ennio Flaiano), la presenta a Gesù e gli dice: non ti chiedo di guarirla, ti chiedo di amarla e Gesù gli risponde: è l'unico miracolo che posso fare».

È stato fatto notare che la ragione invocata dal magistero attuale è una "ragione depurata", cioè una ragione umile che non sovrasta nessuno. Ma questa è una ragione che forse non aiuta chi è nella necessità o nell' assenza di possibilità, perché questo é il momento decisivo di credere che a Dio tutto è possibile, perché è il momento in cui bisogna smettere di ragionare: è la lotta della fede per avere una possibilità di salvezza. Tornando poi al tema del perdono si può aggiungere che se è difficile perdonare gli altri, molto più difficile è perdonare se stessi; per cui sarebbe forse più bello dire, senza l'intenzione di voler fare alcun torto al Signore Gesù, «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo a noi stessi e ai nostri debitori».

A fronte di questi articolati interventi è stato opportuno rilevare che da ognuno di noi viene fuori, tradotto in un contesto amicale ed ecclesiale allo stesso tempo, una cornice di affetto, di preghiera, di condivisione tale per cui ci possono stare le più diverse sensibilità, senza la pretesa di fare teologia; esegesi o riflessioni a ventiquattro carati! E' tutto un insieme tutelato ogni volta dallo Spirito Santo, e bisogna rallegrarsene evitando di censurarlo. È però possibile trovare un punto di sutura fra ciò che può diventare una contrapposizione un po' sterile, e lo è la distinzione fondamentale tra razionale e ragionevole, ritenendo che la fede abbia a che fare non tanto con la razionalità ma con la ragionevolezza, che è qualcosa di costitutivo dell'essere umano; quindi una dimensione pensante; mente e cuore; dove la riflessione deve interrogarsi con la fatica del pensiero sul senso dell'esistenza; su ciò che è l'uomo; senza scivolare in una morale talmente alta che è un po' il rischio che si è visto nelle beatidutini del Vangelo di Luca. Più che comprendere si ama o perlomeno si cerca di attuare quel miracolo di cui Flaiano ha colto la specificità. Bisogna, come suggeriva Ibsen alla sua nipotina, coniugare dovere e felicità! Queste due entità che salvano la dimensione profondamente etica, propria anche di una testimonianza cristiana, che prende sul serio i testi che abbiamo letto e commentato per farli lievito della propria giornata in un orizzonte, se vogliamo, più dionisiaco che è la felicità che viene come esperienza dell'amore ricevuto e dato. Queste due tensioni possono sottrarci da percorsi pericolosi e sterili. Le etiche di oggi non permettono, sul nome della sola ragione, di accordarsi su ciò che veramente è bene e male.

Proseguendo in libertà lo scambio di riflessioni, e restando ancora sul tema della ragione viene fatto notare che anche gli uomini di scienza, se sono cristiani, sentono dentro di sé di glorificare Dio! La teoria della relatività di Albert Einstein è un inno di gloria al Signore; non dobbiamo vedere soltanto la ragione come comportamento ma come qualcosa che è dell'uomo che lo porta a glorificare Dio. Ma la ragione - viene fatto osservare - non è solo questa, c'è anche la ragione della scienza quando sostiene che la natura è un'entità autonoma e che l'uomo è nato da questa autonomia e non discende da un atto creazionale, sebbene ancora non siano state colmate tutte le lacune per affermarlo!

Ormai l'incontro sta per volgere al termine e viene raccolto l'invito ad ascoltare l'ultimo intervento sul problema "fede e ragione", che parte dalla constatazione che il concetto di ragione che abbiamo noi oggi è diverso da quello che si aveva nell'antichità. Il dialogo di Platone Fedone o dell'anima - che riguarda il processo e la morte di Socrate - è descritto con il massimo della razionalità. Infatti in questo dialogo si cerca di dimostrare l'immortalità dell'anima e la cosa straordinaria è che Socrate, cui restano poche ore prima di bere il calice del veleno, deve consolare gli amici perché sono loro che temono la morte! Affascinante è la parola logos - Giovanni la riprende nel suo Vangelo - che non ha nulla a che fare con quello che l'uomo oggi pensa che sia la ragione. I tre tentativi che Socrate fa per dimostrare l'immortalità dell'anima vengono alla fine smontati dai suoi amici proprio ragionando nel modo che oggi consideriamo la ragione, eppure Socrate con il concetto di logos - che ha qualcosa certamente di metafisico, di religioso - riesce lo stesso a dimostrare l'immortalità dell'anima, ma non nel senso della ratio che abbiamo ereditato dall'illuminismo in poi, da Kant in poi, per cui è valido soltanto ciò che siamo in grado dimostrare con la ragione. Oggi ci troviamo in questa situazione qui; prima non avevamo questa separazione tra fede e ragione. Alla fine Socrate muore avendo convinto i suoi amici che c'è una vita dopo la morte e che lui in fin dei conti andrà a stare meglio di loro e lo dimostra con un logos, cioè con una ragione religiosa e non con la ragione di questo mondo.

lunedì 2 luglio 2007

È facile essere Croati, Serbi o Montenegrini, ma è molto difficile essere uomini


intervista di Vujica Ognjenovic a Drazan Gunjaca sul quotidiano indipendente VIJESTI
Montenegro, 30.06.2007.


(Cari amici/Gentili signori,
dopo parecchio tempo una mia bella intervista è stata pubblicata nel territorio dell'ex Jugoslavia – quotidiano indipendente «VIJESTI», Podgorica, Montenegro).
Vi invio un estratto, mentre l'intervista completa si trova
Cordiali saluti,
Drazan Gunjaca
www.drazangunjaca.net


È facile essere Croati, Serbi o Montenegrini, ma è molto difficile essere uomini

La sua trilogia «Congedi balcanici» è fatta dai romanzi “A metà strada verso il cielo”, Congedi balcanici e “Amore come pena”. Come sono nati questi romanzi e come li presenterebbe in breve?


Ho scritto il romanzo “A metà strada verso il cielo” nel 1983 e poi ho smesso di scrivere. La vita riordina le priorità… Più tardi abbandonai l’ex Marina militare, iniziai a occuparmi di legge ed arrivò la guerra. È passata anche la guerra, ma ha lasciato dietro di sé numerose domande, dubbi, esami di coscienza, conflitti con se stessi e gli altri… Il tutto mi ha fatto riprendere la scrittura e attorno al 2000 vennero alla luce i Congedi balcanici. Sinceramente, mi sono messo a scrivere per me stesso, per salvare quello che mi rimaneva della sanità mentale, ormai già intaccata. Non pensavo affatto alla pubblicazione, e tanto meno alla traduzione in altre lingue e ai premi, quello che poi è accaduto.


In poche parole, si tratta di romanzi contro la guerra, di orientamento multiculturale, che trattano il periodo prima della guerra (“A metà strada verso il cielo”), la guerra (“Congedi balcanici”) e il periodo del dopoguerra (“Amore come pena”). Il suo eroe nei “Congedi balcanici” dice: “Mi sembra che la specie più adattabile nei Balcani sia proprio l’uomo, a condizione che sia nato e cresciuto qui. Altri esseri umani non si sono mai, né riusciranno mai ad adattarsi ai Balcani, né comprenderanno questa gente, da dovunque essi provengano”. Per quale ragione: di storia, di miti viventi, di illusioni…?



In vece di rispondere, parafraserò un pensiero del romanzo “Anche il cielo è per gli uomini”, che ho appena terminato. Dice pressappoco così:
“Le prime cinque generazioni dei popoli di queste terre creano un’idea attorno alla quale tutti si riuniscono, le successive cinque generazioni mandano l’idea a puttana, poi altre venticinque generazioni creano un mito attorno all’idea sorpassata, e alla fine una decina di generazioni celestiali vanno in guerra per quest’idea. E così in un circolo vizioso, fino a che non tocca a noi, appartenenti a qualche cinquecentesima generazione, combattere una guerra già perduta contro miti e mitomani…”
Se questo pensiero vi sembra troppo generalizzato, prendete i libri di storia dell’inizio del secolo scorso di qualunque di questi popoli, poi prendete libri simili della metà del secolo, e fate lo stesso con le edizioni odierne. Tra tante versioni offerte da questi libri, giudicate da soli cosa sia verità storica, cosa un mito e cosa sono solo illusioni… Cercate di tracciare dei confini precisi tra queste categorie… Da queste parti ogni generazione ha una propria storia, miti e illusioni che sono solo loro. Non esiste una verità storica che resista alla guerra, e nei Balcani non c’è generazione che non sia stata coinvolta in qualche guerra.

Nei suoi romanzi e drammi scrive di eventi tragici con molta ironia e grottesco. Come interpretare questa sua scelta? Forse come contrappeso agli orrori della guerra?

Proprio così. Ho scritto da qualche parte che il sarcasmo è l’ultimo bastione spirituale dell’intellettualismo. Dopo tutto, cos’altro mi rimane? Ammettere che la guerra mi ha sconfitto? Neanche per idea. Hanno sempre potuto e possono ancora prendermi tutto eccetto il mio passato e la mia anima. È da un bel pezzo che ho smesso di contare seriamente sul futuro. Sembra patetico, me ne rendo conto, ma non posso farne a meno. In fin dei conti, non è colpa mia se viviamo in territori che sono ormai impregnati di un patetismo che non ci fa seppellire i morti e non lascia vivere i vivi…
L’ironia ed il grottesco sono soltanto un meccanismo di difesa, nulla più.

I suoi libri trattano le conseguenze del sanguinoso disfacimento dell’ex Jugoslavia che hanno segnato le vite della gente comune. Scrive di esperienze familiari di uomini comuni e non di strategie militari, anche se era un militare professionista. Come mai ha scelto questo tipo di approccio al tema?


Perché mi interessa l’uomo comune e non gli strateghi. Perché i cosiddetti uomini piccoli sono miei amici che per me sono più importanti di tutti gli strateghi storici messi insieme. Per questi ultimi, essi sono solo una statistica, dei numeri che appartengono ai loro grandi piani pieni zeppi di sangue, lacrime e sudore… Per me, l’uomo comune fa parte della mia vita, del mio passato al quale non voglio rinunciare per nessuna ragione, perché non posso rinunciare a me stesso. Gli strateghi e gli stati non mancheranno mai. Ma ci mancano sempre gli uomini veri, gli amici, quelli che non volteranno la testa mentre i bruti ti tengono sotto tiro.
È facile essere Croati, Serbi o Montenegrini, ma è molto difficile essere uomini.

A differenza della roulette russa, dove la probabilità di rimanere vivi esiste, la Roulette balcanica consiste nel premere il grilletto di una pistola automatica, e non c’è via di scampo, la morte è certa… In questo dramma sembra davvero molto pessimista… Perché?

Nel romanzo “Sette giorni di solitudine” ho scritto che non sono né ottimista né pessimista, bensì realista, con una leggera tendenza all’idiotismo. Come lo sono diventato? Facilmente. L’ambiente come fattore di (a)socializzazione. Dopo tutto, cos’altro scrivere dopo che hai passato tutta la notte con un vecchio amico implorandolo a non suicidarsi…
Bisogna essere ottimisti. Vorrei tanto esserlo. Delle volte ci riesco. Ma poi la vita mi assesta un colpo basso ed io, con un po’ di vergogna per la mia ingenuità, torno ad essere realista…
Comunque, per quanto la vita mi tratti male, non perdo neanche un’opportunità ad accogliere un po’ di ottimismo. Per quanto poco possa durare, senza ottimismo non c’è futuro.

Il dramma Roulette balcanica non ha avuto la fortuna di apparire in scena nei teatri in Croazia e Serbia. Perché si rimanda?

Non mi aspetto più nulla, ma vorrei vedere la rappresentazione del dramma nella lingua in cui è stato scritto. Ho visto la rappresentazione di un teatro italiano che è venuto a Pola, naturalmente in lingua italiana.
Non lo so quanto c’entri la fortuna e perché sia così. Le ragioni sono sicuramente molteplici. Quello di cui sono certo è che molti pensano che sia troppo presto per rappresentare pezzi del genere (multiculturali). Le ferite di guerra sono ancora fresche… Io sono in grado e mi sforzo a capire tutte le vittime della guerra, indistintamente dalla loro appartenenza etnica. Ma non posso e non voglio capire quelli che vivono a scapito di queste vittime. So molto bene come reagiscono le persone comuni ai miei libri e drammi, e sono sicuro che non avrebbero nulla in contrario se venissero rappresentati in scena. Tutt’altro. La logica elementare ci fa concludere che qualcuno deve comunque essere contrario. E perché, se la guerra, come dicono, è davvero finita?

Quanto ha influito la guerra sulle persone nel suo ambiente, in Istria?

La guerra, mentre dura, è una tragedia collettiva che non lascia fuori nessuno. Quando cessa, diventa la tragedia degli individui che hanno perso qualcuno, se stessi o parte di sé. Anche l’Istria appartiene a questa visione. Ma bisogna dire che in Istria non ci sono state azioni militari, per cui era ed è rimasta un luogo di accoglienza per profughi. La gente istriana è per tradizione molto tollerante, il che in periodo di guerra per molti diventa una qualità di inestimabile valore.

Lei è stato un ufficiale dell’ex Armata Popolare Jugoslava, più tardi un avvocato nel periodo della guerra e nel dopoguerra. Dicono che il periodo del dopoguerra sia sempre più difficile della guerra stessa. È d’accordo?

È stata un’esperienza molto difficile. Da una parte cerchi di sopravvivere, dall’altra tenti di rimanere uomo. Non so dire quale delle due cose è stata più difficile. Spero di esserci riuscito almeno in parte, in tutt’e due.
Quanto al dopoguerra, non direi che sia più difficile della guerra stessa. Grandi aspettative portano inesorabilmente a grandi delusioni. La guerra porta con sé delle grandi aspettative. Forse le più grandi. Di conseguenza, come dicevo, ci sono anche grosse delusioni. Tutti i partecipanti si aspettano troppo dalla guerra e, alla fine, la maggioranza si sente tradita. Ciò nonostante, la guerra è di gran lunga più terribile. Prima o poi, uno si rassegna alla delusione, ma non ci si può rassegnare alla morte.

Il suo romanzo “Lo stupro della ragione” parla del dopoguerra, di persone tradite, che sono servite come “carne” per la macchina da guerra, delle terribili conseguenze del DPTS (disturbo post-traumatico da stress) che ha fatto vittime tra tanti veterani della guerra. Quanto si parla di questo problema in Croazia oggi?

Se ne parla molto, naturalmente. In particolare negli anni delle elezioni. Allora se ne ricordano tutti, alcuni si fotografano con i veterani se ne hanno l’occasione… Gli danno una pacca sulle spalle e una promessa di un futuro migliore. Ma il problema che questa malattia ci porta è che essa non riconosce il futuro.

Dopo la guerra nei territori dell’ex Jugoslavia la questione d’identità diventa molto importante per alcune persone. Cosa ne pensa lei?

Personalmente non ho mai avuto problemi d’identità, e non mi ha mai dato fastidio l’identità degli altri. Un’eccezione a questa regola sono quelli che della propria identità hanno fatto carriera (di tutto rispetto). Io li chiamo Croati professionali, Serbi professionali… Hanno saputo far soldi sulla questione d’identità dandogli un prefisso negativo. Ne hanno fatto una cosa talmente “importante” che spesso da essa dipende addirittura l’esistenza (a patire dall’posto di lavoro in poi…).
L’identità dovrebbe essere una questione personale di ogni individuo che non dovrebbe in nessuna maniera, tanto meno negativa, influenzare il suo stato sociale. Nel momento in cui l’identità diventerà veramente una cosa personale per ogni individuo e non una questione di importanza sociale, sarà molto, ma molto meno importante.


I suoi romanzi sono stati pubblicati negli USA, in Italia, in Germania, in Australia, nella Bosnia ed Erzegovina, in Serbia. Ha ricevuto numerosi premi letterari in Italia. Come mai sono stati gli Italiani a scoprirla come autore, ancor prima di un qualsiasi riconoscimento nel suo paese?

Per puro caso (sempre che crediate ai casi).
In genere sono contrario alla globalizzazione ma, come si suole dire, non tutti i mali vengono per nuocere. Io sono stato promosso ad autore più o meno conosciuto grazie a Internet. Vivo a Pola, una piccola città fuori dai grandi centri e grandi media, per cui Internet era l’unico modo per raggiungere il pubblico. Quando ho scritto il romanzo Congedi balcanici, il mio amico Srđa Orbanić l’ha tradotto in lingua italiana, dopo di che, tramite Internet, l’ho offerto ad alcuni editori italiani e l’ho mandato al concorso per il Premio Satyagraha 2002 (Italia) incentrato sul tema della pace. Ho vinto questo premio e da lì è partito tutto. Si potrebbe dire che senza Internet non esisterei come scrittore. Purtroppo, quanto riguarda il mio paese, Internet non aiuta perché subentrano altri tipi di problemi di cui ho già parlato.
Alla fine devo dire che, anche da queste parti, le cose sembrano andare meglio… Per alcuni i cambiamenti sono troppo lenti, per altri troppo veloci, ma l’importante è che qualcosa si stia muovendo.

domenica 1 luglio 2007

"Editori si nasce, editori si diventa"

Roma, mercoledì 4 luglio, Festival Mediterranea 2007

Isola Tiberina, spazio Isola del cinema, a partire dalle 18:30

La piccola e media editoria incontra il suo pubblico, con i suoi autori e i suoi critici

A cura di Elisa Davoglio e Lidia Riviello, in collaborazione con Videor Poesia (dir. da Elio Pagliarani, editor Orazio Converso, camera Amedeo Marra) e www.e-theatre.net (di Simone Carella)



18:30 Le Lettere

Il critico Andrea Cortellessa presenta la collana fuoriformato e i libri Il colore oro, di Laura Pugno, e Nel Gasometro, di Sara Ventroni. Letture delle autrici.

20:00 Gremese editore

Gianni Gremese presenta la nuova collana di narrativa le Girandole insieme a Silvia Dai Pra'.

20:30 GAMMM

Presentazione del sito GAMMM. Interventi e letture di Michele Zaffarano, Massimo Sannelli, Marco Giovenale.